Ecologie della trasformazione, rubrica a cura di Emanuele Leonardi
di Massimo Filippi
[Pubblichiamo la postfazione al volume, pubblicato in questi giorni per Mimesis, Smontare la gabbia. Anticapitalismo e movimento di liberazione animale, a cura di Niccolò Bertuzzi e Marco Reggio].
Non si tratta di un adattamento dell’uomo alla bestia, né di una somiglianza, si tratta piuttosto di un’identità di fondo, di una zona di indiscernibilità più profonda di qualsiasi identificazione sentimentale: l’uomo che soffre è una bestia, la bestia che soffre è un uomo.
– Gilles Deleuze
In 1905, riferendosi alla discrepanza tra le previsioni del marxismo scientifico e le vicissitudini storiche contingenti che, saltando a piè pari la fase di presa del potere da parte della borghesia, avevano portato alla rivoluzione proletaria in un paese feudale come la Russia zarista, Trotskij scrive: “La prima lettera è presente, e così anche l’ultima, ma tutto il mezzo dell’alfabeto è mancante”.
Si parva licet, questa affermazione è in qualche modo valida anche per lo stato in cui versa attualmente l’antispecismo: se tale movimento sembra infatti aver chiaro quali siano la prima e l’ultima lettera del suo alfabeto – l’organizzazione ingabbiante delle logiche che regolano e perpetuano l’antropocentrismo e una società in cui tutti gli animali, umani e non umani, possano vivere liberi –, è però incapace di articolare le altre – discorsi e prassi che indichino, nella materialità della storia, come smontare le gabbie, simboliche e materiali, in cui, seppure con intensità e rigore variabili, tutti i viventi sono rinchiusi indipendentemente dalla specie di appartenenza. Discrepanza resa evidente dalla constatazione che, negli ultimi due decenni circa, a dispetto dello sviluppo di strumenti teorici e intellettuali sempre più raffinati e potenti, l’antispecismo non è stato in grado di mettere in campo strategie e tattiche efficaci per cominciare ad attualizzare, almeno parzialmente, le proprie istanze di cambiamento.
In questo scarto – tra la prima e l’ultima lettera dell’alfabeto e tra la teoria e la prassi – si inserisce il volume che avete appena terminato di leggere, volume che, raccogliendo una serie di contributi eterogenei sia in termini di temi affrontati che di strumenti analitici utilizzati, prova a mettersi alla ricerca di qualcuna delle lettere mancanti dell’alfabeto antispecista nel tentativo di connettere il pensiero e l’azione a favore della liberazione dei non umani. Come dichiarato apertamente dai curatori nell’Introduzione, il risultato, ovviamente, non è – perché non poteva esserlo data l’incrostazione millenaria dell’antropocentrismo e la temperie socio-culturale in cui siamo immersi – la definitiva messa a punto di una grammatica e di una sintassi dell’attivismo antispecista che sia all’altezza dell’immensità dell’orrore e della violenza che intende combattere, ma la messa a fuoco, per dirla con Lacan, di alcuni punti di capitone attorno ai quali tale attivismo potrebbe o dovrebbe articolarsi.
I primi anni del nuovo millennio, anche in Italia (o, forse, soprattutto in Italia) hanno segnato un cambiamento di passo da parte del movimento antispecista, grazie, tra l’altro, allo sviluppo di campagne di protesta conflittuali relativamente ampie e partecipate, al moltiplicarsi delle azioni dirette, al diffondersi del veganismo e alla nascita di associazioni e di riviste autenticamente e rigorosamente antispeciste. A questo fermento, però, è seguito un periodo di riflusso, ancora in atto, che è venuto a disegnare un panorama dell’attivismo antispecista a dir poco variegato e confuso. Non vi è dubbio che tale panorama sia per gran parte la conseguenza dell’imponente dispiegamento di strategie di addomesticamento da parte di un sistema che – non solo in questo ambito, per la verità – è in grado di coniugare con grande efficacia la forza della stigmatizzazione e della repressione con la “dolcezza” insinuante della normalizzazione e della moltiplicazione di pratiche e discorsi atti a invisibilizzare lo sfruttamento intensivo e l’incessante messa a morte di un numero incalcolabile di animali. È altrettanto innegabile, tuttavia, che l’antispecismo non è, da questo punto di vista, completamente innocente: a causa di una serie di vizi che ne hanno segnato la nascita e il percorso iniziale, esso ha infatti prestato il fianco alle manovre di esclusione marginalizzante e di inclusione depotenziante messe in atto per la salvaguardia dello status quo. Allora, prima di passare in rassegna i nuclei strutturanti che percorrono questa antologia, è forse utile tratteggiare il cambio di atmosfera culturale avviatasi in seno all’antispecismo a partire dagli ultimi anni del Novecento.
In questo breve lasso di tempo è diventato sempre più chiaro, almeno a una parte del movimento antispecista, che lo specismo non sia tanto un pregiudizio, come pensavano, seppur da prospettive filosofiche differenti, Singer e Regan, quanto piuttosto un’ideologia giustificazionista delle prassi materiali di smembramento dei corpi animali. Questo diverso modo di interpretare lo specismo ha comportato che l’antispecismo non si pensasse più (o solamente) come un discorso morale, ma (anche e soprattutto) come un movimento politico di critica radicale dell’esistente.
Semplificando molto, se è inteso come un pregiudizio, lo specismo può essere combattuto tramite il ricorso ad argomentazioni logiche volte a mostrarne l’irrazionalità e dirette a convincere i singoli individui, in un’opera di paziente evangelizzazione, a modificare il proprio stile di vita e a incrementare la propria consapevolezza personale circa l’enormità della sofferenza animale. Da tale prospettiva, la “lotta” per la liberazione animale non può che realizzarsi lungo due direttive. La prima: la questione animale è indipendente e separata da altri discorsi e da altre prassi di emancipazione sociale. La seconda: l’antispecismo è costituito da una serie di istanze così razionali e disinteressate che, alla lunga, non potranno che risultare vincenti e, pertanto, è necessario che siano portate avanti a piccoli passi e in dialogo costante – meglio se accondiscendente e remissivo – con quelle stesse istituzioni che sanciscono e perpetuano lo sfruttamento animale. Tutto questo sottende l’idea di stampo liberal secondo cui quello dell’Occidente contemporaneo è sostanzialmente “il migliore dei mondi possibili”, bisognoso di essere “ingentilito”, in maniera più o meno rapida e significativa, soltanto per quel che riguarda le modalità con cui vengono trattati i non umani. In questa visione gli animali restano oggetti passivi; certo, non più della indubitabilità della “nostra” signoria e della forza delle “nostre” macchine, ma del “nostro” paternalismo colonizzante, del “nostro” afflato pietista ancora profondamente antropocentrico.
Se, al contrario, lo specismo è inteso come una delle molteplici ideologie giustificazioniste che rendono possibile e regolano l’ordine sociale vigente, l’antispecismo non può che assumere i tratti di uno scontro politico volto da un lato a decostruire l’insieme delle norme che separano i corpi abietti (perennemente macellabili e sacrificabili) da quelli paradigmatici (da proteggere e da moltiplicare) e dall’altro a smantellare i dispositivi materiali (mattatoi, laboratori, zoo, ecc.) e performativi (leggi, regolamenti, procedimenti, ecc.) che effettuano, direttamente o indirettamente, lo smembramento. Dietro a questo radicale cambiamento di prospettiva c’è ovviamente il riconoscimento che la società non è il risultato della somma degli individui che la compongono, ma ciò che le norme egemoni fanno correre tra loro, l’insieme delle relazioni permesse e di quelle negate, l’insieme dei corpi visibili e riconosciuti e l’insieme dei corpi invisibili e indegni di riconoscimento. Da qui il passaggio da una strategia fondata su domande entro le istituzioni a una politica di richieste alle e di rivendicazioni contro le istituzioni. Da qui la prevalenza assegnata dalla seconda ondata dell’antispecismo all’inasprimento del conflitto tra istanze politiche che non possono dialogare tra loro in quanto portatrici di visioni del mondo nettamente contrapposte e inconciliabili. Il cambiamento sociale non può realizzarsi sommando scelte di vita individuali, ma innescando e promuovendo processi storici e collettivi in grado di trasformare in realtà ciò che attualmente può essere solamente immaginato.
Da questa rapida ricostruzione dovrebbe risultare chiaro che l’antispecismo si è declinato e sviluppato secondo due linee principali di pensiero e di azione e che queste due linee non possono che portare a imboccare strade che divergono progressivamente. Poiché la versione politica dell’antispecismo non ha sostituito quella morale, ma vi si è affiancata, ne discende quanto affermato in precedenza: l’attivismo antispecista è in preda a uno stato di confusione che lo spinge a muoversi in maniera frammentaria e incoordinata.
Con questa cornice di riferimento è possibile cogliere appieno sia l’intento sia gli snodi centrali di questa antologia: il fine è chiaramente quello di provare a ridare slancio e forma al movimento antispecista e gli snodi sono i mezzi attorno ai quali tale slancio e tale forma dovrebbero cominciare a coagularsi. Se poco vi è da aggiungere riguardo all’intento, vale invece la pena di sottolineare quelli che curatori e autori/autrici ritengono essere i nuclei innervanti. Anche se strettamente correlati tra loro, eccoli in ordine di apparizione:
1. Bisogna muoversi oltre il veganismo. In società in cui la censura, la repressione e la disciplina sono state sostituite dall’auto-censura, dalla sorveglianza interiorizzata e dal controllo tanto “dolce” quanto capillare, il veganismo e, più in generale, l’antispecismo devono attrezzarsi contro i rischi della normalizzazione più che contro quelli della stigmatizzazione. In maniera solo apparentemente paradossale, la principale causa dell’addomesticamento del veganismo è da riconoscere proprio nel suo successo commerciale. Il cambiamento sociale non si realizza attraverso la reiterazione quotidiana dell’imperativo “Compra i prodotti giusti!”; al contrario, l’idea stessa secondo cui il sistema capitalistico possa essere combattuto grazie all’adozione di “stili di vita alternativi” è la modalità più perversa messa in circolazione da questo stesso sistema al fine di riprodursi e perpetuarsi, mettendo a valore perfino le istanze più antagoniste. L’antispecismo, insomma, non ha bisogno di altri consumatori, di consumatori altri, di altri libri di ricette vegane o di ulteriori bollini di veg-certificazione. Ha bisogno di militanti. Così come il veganismo non ha bisogno di qualche metro in più sugli scaffali dove vengono esposte le merci, ma di riappropriarsi della sua iniziale e dirompente carica disturbante.
2. L’attivismo antispecista non si risolve in un click (e neppure in tanti). Non serve cambiare il mezzo attraverso cui rendere pubblica la protesta antispecista, se questa resta afflitta dalle stesse contraddizioni e incongruenze, se l’attivismo continua a essere pensato alla stregua di una strategia di marketing. I nuovi mezzi di comunicazione hanno certamente ampliato la platea dei consumatori occasionali dell’indignazione morale contro il maltrattamento degli animali e hanno moltiplicato la possibilità di vedere che cosa accade dietro le mura dei mattatoi, ma non hanno modificato la capacità di pensare lo sfruttamento e la messa a morte degli animali come intrinseca e indissociabile dalle logiche che governano l’economia politica del Capitale. L’unico risultato tangibile del click-attivismo pare essere quello di aver allontanato le persone dalle piazze, esponendole giorno e notte alla libido onanistica, edipica e I-podica – “ediPodica”, direbbe Mark Fisher – di un’emotività “usa e getta”.
3. Attenzione all’immissione da destra! L’antispecismo non è “trasversale”, una manifestazione neutra e asettica del tempo che si definisce, con autocompiacenza ingannevole, post-ideologico. E questo per il semplice motivo che post-ideologico è sinonimo di ideologia all’ennesima potenza, di un’ideologia che, presentandosi come un fatto di natura, si invisibilizza diventando in tal modo ancora più efficace. Ma che cosa è lo specismo se non la forma più riuscita di ideologia naturalizzata? Dall’ideologia non si esce e compito della politica è scegliere quale ideologia adottare e da quale ideologia farsi permeare, se cedere alla reazione moltiplicando la forza delle ideologie giustificazioniste o promuovere l’emancipazione seguendo e sviluppando ideologie liberanti. L’antispecismo non si rafforza abbracciando e lasciandosi abbracciare da Silvio Berlusconi, da Michela Vittoria Brambilla, dal pentaleghismo o dalle destre estreme; al contrario, così facendo, si condanna a una morte prematura per esaurimento delle sue potenzialità trasformative.
4. Andare in pressing. L’antispecismo deve contrastare, e possibilmente anticipare, le mosse e le retoriche sviluppate dalle industrie dello sfruttamento animale al fine di acquietare l’accresciuta consapevolezza sociale della sofferenza animale. La “carne felice” non rappresenta un piccolo passo in direzione della liberazione animale, ma un “grande balzo in avanti” del marketing industriale per poter continuare a vendere, in tranquillità, la “carne infelice” degli allevamenti intensivi. Il “benessere animale”, insomma, è tutto meno che degli animali. È il benessere psicologico dei consumatori e quello ben più materiale delle industrie.
5. Gli animali sono soggetti della lotta di liberazione e non oggetti del nostro pietismo eroico. Nonostante millenni di accurata selezione genetica e nonostante lo sviluppo di mezzi di contenzione sempre più efficaci, i non umani sono dotati di agency e, quando e appena possono, si ribellano contro i loro carcerieri o tentano di fuggire dai luoghi in cui sono detenuti. Gli animali non sono “senza voce”, come vorrebbe il sistema che li sfrutta e come pensano molti dei loro difensori. Gli animali una voce ce l’hanno e, proprio per questo, sono messi in condizione di non rispondere o di non essere ascoltati quando reagiscono. Altrimenti per quale motivo l’industria zootecnica continuerebbe a perfezionare i suoi strumenti di reclusione? In un libro che giustamente ha scelto di parlare di “noi”, della gloria e delle miserie dell’antispecismo, questo è l’unico punto in cui si parla di “loro”, gli animali, ma con lo scopo di smettere di parlare a nome loro. Per cessare di introdurre nuove e ancora più infide barriere ontologiche tra l’umano e l’animale (“L’uomo è l’unico animale capace di ribellarsi”), per dismettere i panni eroici del salvatore iper-altruista e assumere quelli più efficaci della solidarietà politica a fianco e a favore degli oppressi, davanti al loro dolore. La rivolta animale non si scrive tra virgolette.
6. Via dall’isolazionismo morale. Se vuole davvero nutrire qualche speranza di incidere sull’orrore della condizione animale, l’attivismo antispecista deve impegnarsi in una politica delle alleanze. Il che non significa cercare di costruire improbabili quanto strampalate “coalizioni degli oppressi” ma, da una parte, lasciarsi percorrere dalle acquisizioni teoriche e dalle prassi militanti di movimenti più attrezzati politicamente e con più rodate esperienze di lotta e, dall’altra, mostrare senza sconti l’antropocentrismo che si annida anche nei movimenti più potenzialmente sovversivi. Significa sottolineare che i processi di animalizzazione dei corpi abietti non potrebbero neppure essere pensati senza il “fondo inalienabile” della dicotomia umano/animale e indipendentemente dalle pratiche di animalizzazione subite dagli animali stessi (per capirci, il broiler non è un uccello, ma un uccello animalizzato, il suino e il bovino non sono mammiferi, ma mammiferi animalizzati, ecc.). Se per funzionare il capitalismo non ha bisogno solo di un tempo sincrono e di uno spazio liscio, ma anche di corpi docili e possibilmente immobili, gli alleati “naturali” dell’antispecismo non potranno che essere quei movimenti che rimettono i corpi in transizione e in moto: quello transfemminista-queer e quello per la difesa dei/delle migranti.
7. Oggi il capitalismo è biocapitalismo. Il Capitale è da sempre ricorso a due sistemi di estrazione del valore: lo sfruttamento del lavoro salariato e – aspetto spesso dimenticato – l’appropriazione di quella che Jason Moore chiama “natura a buon mercato”, le “risorse” del pianeta e il lavoro non salariato delle donne, degli schiavi e degli animali. Come mostrano, per fare solo due esempi, l’imponente impresa industriale di sfruttamento del DNA e la messa a valore della “resistenza alla morte” di chi è stato confinato negli allevamenti intensivi, il capitalismo è sempre più bio. In altri termini, dopo aver portato a un quasi completo esaurimento le “risorse naturali estensive”, l’impresa capitalista si sta facendo intensiva, muovendosi verso la presa dei bisogni fondamentali della vita, una vita che eccede – e di molto – quella “propriamente” umana. Ecco un’altra ragione, in aggiunta a quelle già ricordate – e molto probabilmente la ragione più rilevante – per cui l’antispecismo, oggi più che mai, è sinonimo di anticapitalismo. Che quanto detto risulti poco digeribile sia agli/alle anticapitalist* umanist* sia agli/alle animalist* mainstream è il segno più evidente della forza del Capitale, capace di creare e ricreare divisioni all’interno del movimento antagonista e di metterle al lavoro per la sua stessa ri/produzione.
8. I rifugi devono innescare un movimento che porti alla loro abolizione. In questo momento storico, i rifugi per accogliere gli animali liberati o che si sono liberati sono strumenti indispensabili dell’attivismo antispecista; il fine di quest’ultimo, però, non è quello di moltiplicarli ma quello di superare le condizioni storiche che li hanno resi necessari. I rifugi sono eterotopie bellissime e coraggiose, che aprono varchi di respiro dentro lo spazio pervasivo e soffocante dell’antropocentrismo e del capitalismo. Tuttavia, finché l’antropocentrismo e il capitalismo saranno egemoni, anche il miglior rifugio non potrà che portare al proprio interno le contraddizioni e le esalazioni letali che regolano e ammorbano ciò che sta lì fuori (basti pensare alla necessità di castrare gli animali affinché non si riproducano, sovraffollando il rifugio e mettendone a repentaglio la sostenibilità).
9. L’attivismo antispecista ha bisogno di ascoltare i suoi più “naturali” mediatori culturali. I cani randagi e, più in generale, gli animali sinantropici che, malgrado tutto, sono riusciti a costruirsi un’esistenza vivibile negli interstizi delle “nostre” città non sono soggetti infelici e fuori luogo da antropomorfizzare come novelli pet o da rieducare all’urbanizzazione rinchiudendoli in qualche nuova riserva. Al contrario, poiché conoscono la nostra lingua senza aver dimesso la loro e in quanto capaci di mostrare l’assoluta insostenibilità delle frontiere, devono essere visti per quello che sono: irrinunciabili mediatori culturali, alleati preziosi della più ambiziosa tra le aspirazioni dell’attivismo antispecista, quella che intende mettere in scacco l’idea stessa di confine.
Per concludere – ma è davvero possibile una conclusione quando si parla di aperture? –, questo libro sull’impossibile è un libro realista: non pretende di fare ciò che oggi non si può fare, ossia esaurire il dibattito attorno all’attivismo antispecista proponendoci un dizionario definitivo; più modestamente, prova invece a impegnarsi nella ricerca di qualche lettera di un alfabeto ancora tutto da scrivere al fine, per utilizzare due termini cari a Husserl, di far prevalere la riattivazione sulla sedimentazione. Questo libro, insomma, è una prefazione a un attivismo antispecista a venire, a un attivismo antispecista che dovrà tracciare, percorrere e rendere visibili quelle strade a cui queste pagine possono solo accennare, continuando però a lasciarsi guidare dalla potente intuizione che le attraversa, quell’intuizione che Paul B. Preciado ha riassunto così: “Solo immaginando l’impossibile sarà possibile trasformare l’inaccettabile”.
Ecologie della trasformazione, rubrica a cura di Emanuele Leonardi
Altri articoli della rubrica:
1. Politica, ontologie, ecologia, 22.2.2019
2. La natura è un campo di battaglia, di Razmig Keucheyan, 14.3.2019
3. Malaterra, di Marina Forti, 26.4.2019
4. Verso il secondo sciopero globale per il clima, di Emanuele Leonardi, 23.5.2019
[Immagine: Foto di Sebastião Salgado].
Il dolore genera tossine che generano morte.
“SMONTARE LA GABBIA”! USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” CONCEPITO COME “UOMO SUPREMO”….
CONSIDERATO […] lo stato in cui versa attualmente l’antispecismo: se tale movimento sembra infatti aver chiaro quali siano la prima e l’ultima lettera del suo alfabeto – l’organizzazione ingabbiante delle logiche che regolano e perpetuano l’antropocentrismo e una società in cui tutti gli animali, umani e non umani, possano vivere liberi –, è però incapace di articolare le altre – discorsi e prassi che indichino, nella materialità della storia, come smontare le gabbie, simboliche e materiali, in cui, seppure con intensità e rigore variabili, tutti i viventi sono rinchiusi indipendentemente dalla specie di appartenenza […]” E, ANCORA, CONSIDERATO CHE “In 1905, riferendosi alla discrepanza tra le previsioni del marxismo scientifico e le vicissitudini storiche contingenti che, saltando a piè pari la fase di presa del potere da parte della borghesia, avevano portato alla rivoluzione proletaria in un paese feudale come la Russia zarista, Trotskij scrive: “La prima lettera è presente, e così anche l’ultima, ma tutto il mezzo dell’alfabeto è mancante” […]”, SPUNTA (non esplicitata) LA CONNESSIONE CON L’INVENZIONE DELLA “TAVOLA PERIODICA DEGLI ELEMENTI” di Dmitrij Ivanovič Mendeleev (https://it.wikipedia.org/wiki/Dmitrij_Ivanovi%C4%8D_Mendeleev), CREDO CHE SIA NECESSARIO E OPPORTUNO AMPLIARE L’ORIZZONTE e RICONSIDERARE DALLE RADICI la “«piramide dei viventi» che da secoli continuiamo a portarci dietro”, quella contenuta nel «Liber de sapiente» (Libro della sapienza), pubblicato nel 1509 da Charles de Bovelles (1479-1567)” (come sollecita Stefano Mancuso con Alessandra Viola, nel lavoro “Verde brillante”, Giunti 2015, p. 18 – e, non il vecchio “marxista” Lucio Colletti, nel suo famoso “Il marxismo e Hegel”, Laterza 1969)! E, ANCORA E SOPRATTUTTO, “SMONTARE LA GABBIA” DELLA SISTEMATICA DI LINNEO (cfr. http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4388#forum3144204)! Benché siano passati 160 anni dalla pubblicazione, nel 1859, dell’«Origine delle specie», l’opera fondamentale che Charles Darwin ci ha regalato per comprendere la vita sul nostro Pianeta (Stefano Mancuso, cit.), USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” CONCEPITO COME “UOMO SUPREMO” (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4961). PER LA CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA E DELLA TEOLOGIA MAMMONICA. CON KANT, E CON MARX, OLTRE …
Federico La Sala