Un documentario di Francesco Ferri
Testi di e a cura di Cristiano Poletti
[Esce oggi per Marcos y Marcos Libellula gentile. Fabio Pusterla, il lavoro del poeta, un cofanetto che comprende un film-documentario di Francesco Ferri sull’opera e la figura di Pusterla e una serie di testi (interviste, dialoghi, scritti) di e a cura di Cristiano Poletti. Pubblichiamo il trailer del film, un testo di Poletti e una breve intervista, ringraziando Marcos y Marcos per averceli concessi in anteprima].
“Ho sentito, questo sì” (Geografia del viaggio)
di Cristiano Poletti
Prestiamo orecchio all’inizio del film: “Non ti basta, lo so. Vorresti altro. / Non ti basta, fiume, il mio ascolto, / né ora per te è il momento di ascoltare”. Sono i versi iniziali del nono frammento di Ultimi cenni del custode delle acque, ricompreso in Cenere, o terra, nella sezione Confuscazioni, dopo che quattordici dei trentatré frammenti erano già usciti nel marzo del 2016 per le edizioni Carteggi Letterari. Versi che ci portano sulle acque dell’Adda, tra Canonica e Vaprio, tra le province di Bergamo e Milano, là dove il racconto del film parte seguendo la suggestione offerta dalla ‘Casa del custode delle acque’. Questa Casa in età moderna era un luogo deputato alla riscossione dei dazi. Le prime notizie risalgono al 1542: costruita sull’argine del fiume, si trova a Vaprio d’Adda, nel punto esatto dove il naviglio della Martesana piega improvvisamente per proseguire in direzione di Milano. Scrive Claudio Piersanti nel suo articolo già citato, dell’ottobre 2018: “L’acqua, affascinante e pericolosa, è un’immagine primordiale… Essere parte della natura e nello stesso tempo dominarla, piegarla, violentarla… L’apparizione del Custode forse è il cuore del libro… Il dialogo, dai toni leopardiani, diventa quello con il fiume”. E se dunque forse è l’acqua il cuore del film, è senz’altro il viaggio il cuore del ‘volo’. Di un viaggio ‘sentimentale’ infatti, si tratta: Pusterla, ‘volando’, passa dalla figura del Mercante di stracci a quella del Custode delle acque, dal lago di Lugano alle sponde dell’Adda.
Vediamo questa figura del Mercante, tratta da Le cose senza storia, del 1994:
Offrivo cose umili, lo so.
Quando il bicchiere s’infranse
ero seduto in un locale scuro.
Non ci fu tempo, e comunque
non avrei visto nulla, penso.
Sentire, ho sentito, questo sì.
“Sentire, ho sentito, questo sì”: c’è grande potenza d’immedesimazione in questa poesia. Tanta potenza quanto è grande una forma di letizia che pare nutrirla. Il poeta ci restituisce una figura ‘alla Spoon River’, riemersa cioè da quel che era, da quel che è stata. Riemerge per parlarci, certo, per un istante o forse per sempre. E insieme al mercante, intorno a lui, ci sono altre figure, altre Voci: Una fontana (memorabile), Una bambina, Un pescatore, Una vecchia.
È ‘sapientia cordis’ quella con cui Fabio alimenta la sua particolare potenza d’immedesimazione, allora e ora: vedere-sentire-pensare. Ecco, volare per poter vedere vuol dire prima di tutto sentire. E il film lo dimostra bene: dalle acque di Lugano il poeta si porta, come si trattasse appunto di un volo, sulle acque dell’Adda; lì incontra nuove voci, nuovi elementi, ci si ritrova. Leggiamo adesso altri versi, tratti sempre dallo stesso libro, gli ultimi tre della poesia intitolata Paesaggio: “Io sono questo: niente. / Voglio quello che sono, fortemente. / E le parole: nessuno adesso me le ruberà”. Questo niente si lega oltreché alla precedente raffigurazione a un frammento della poesia intitolata Posto di frontiera, in Argéman: “purtroppo io sono uno che annota dei versi, / cose strane che incontro sul cammino, / affioramenti di voce che non so / quasi mai dove portino”. Molto spesso vediamo nel documentario il poeta ripreso mentre cammina: nei boschi, in montagna, nelle strade. Attraverso il cammino Pusterla annota resti, risultanze, segni; lo fa mentalmente e disegna, diciamo così, una geografia speciale: il suo muoversi avviene per sentire, ed è per ‘sentimento’ (come energia del sentire, necessaria premessa dell’affetto) che si muove in lui il paesaggio. Tutto questo fa venire in mente Andrea Zanzotto, in un’intervista. Queste le sue parole: “…siamo perpetuamente nascosti dietro il paesaggio oppure stiamo davanti al paesaggio oppure stiamo immersi in un continuo gioco di trapungere, ecco… L’idea del paesaggio come qualcosa che punge e trapunge e di cui noi siamo una specie di spoletta, ecco, che si aggira in mezzo, che cuce… oppure qualcosa che taglia, anche…” Così è avvenuto che ‘per sentimento’ Fabio volesse raggiungere il paesaggio del regista, passando dalla Casa del custode, nel milanese, alla campagna bergamasca, da Crespi d’Adda (già protagonista di una sua importante poesia, sempre dal libro del 1994) ai fontanili del cremasco, immersi in quei giorni (dicembre del 2015) nella nebbia. E così è accaduto poco dopo che Francesco salisse nell’inverno di Latsch, nei Grigioni.
Va ripetuto: è stata l’amicizia il raccordo di tutto. E la gioia, quell’inaspettata forza che dall’amicizia procede, e dall’affetto. Il film si è compiuto nel ritmo di questo passo, dentro questa speciale geografia; le tappe di avvicinamento si sono date come il risultato di forze che reciprocamente si sono attratte, e sono state soglie di conoscenza e di scoperta. A pensarci, questo muovere verso l’altro, reciprocamente, si avvicina molto allo spirito della traduzione. Nelle parole di Pusterla: “se anche non potrò mai essere l’altro, proprio come non potrò mai sperare di aver davvero ricreato la sua opera poetica nella mia lingua, nondimeno avrò cercato di muovere qualche passo fuori di me, di depurare la voce da qualche scoria dell’io, trasformando la frontiera che mi immobilizza in un confine forse valicabile”. Così scriveva nel 2002, in un articolo. Lo stesso spirito ha continuato nel tempo a produrre incontri.
“Avrei voluto parlare senza immagini, semplicemente / socchiudere la porta”: sono versi di Philippe Jaccottet, tradotti da Fabio, e da cui Fabio ha preso spunto per un bel saggio ricompreso in Una luce che non si spegne (Casagrande, 2018). Può sembrare ironico riportarne traccia ora mentre molto di cui stiamo parlando è racchiuso in un film. Invece sì, ha senso, perché ha a che vedere proprio con tutto quanto detto. Pusterla, mediante la citazione di Jaccottet, mette in guardia dalla facilità di scivolare nel metaforismo, se volto esclusivamente all’abbellimento e alla stupefazione. Siamo nel campo del linguaggio, evidentemente, ma possiamo benissimo trasferirci nel campo del visivo. L’asciuttezza che il poeta pretende (una parola che vada in profondità, sempre memore del proprio impulso conoscitivo, nel “fluire della coscienza e del respiro”, che è il ritmo, principe della poesia) è la stessa che il regista ha preteso nella realizzazione del documentario. Forse i due si sono incontrati per somiglianza, hanno trovato cioè che le loro grammatiche potessero incontrarsi. E si sono incontrate.
Come nasce una poesia? Di quale misterioso lavoro è l’esito? Qual è il compito della poesia? Torniamo alle domande che il regista si è posto all’inizio della lavorazione. Non è facile, anzi è impossibile credo rispondere. Perché in mezzo a queste domande c’è la vita: nascita, lavoro, compito… Ma cosa possiamo arrivare a sapere, in fondo? Può dirlo un poeta? Un regista? In parte sì. In parte: il resto è a disposizione, ma l’intero (la verità) è imprendibile. Forse allora occorre davvero abbandonarsi, depositarsi e fuggire, come fa la libellula: leggera, ora immobile, ora veloce nel suo andar via. E nel gran mare dell’essere il poeta ha imparato a sostare, a restare sospeso, orientato al bene che la vita nella sua esistenza ha saputo dettare.
*
Che effetto fa, ha fatto, vedersi e rivedersi sullo schermo?
Sarà ovvio e banale, ma la prima cosa che ho avvertito, guardando il documentario di Francesco, è l’imbarazzo di fronte a me stesso; a quel me stesso, voglio dire, che ero costretto a vedere di fronte a me in carne e ossa, con la sua faccia che non mi piace molto, le sue smorfie, i suoi inevitabili difetti, prima di tutto estetici. Credo sia una cosa comprensibile, non molto diversa ma assai più intensa di quella che forse tutti provano ascoltando la propria voce alla radio. Ma, superato o accantonato questo primo moto di ripulsa verso di me, devo anche dire di aver provato subito molta commozione e ammirazione per il lavoro svolto dal regista. Mi sembra che Francesco sia riuscito molto bene a non fare quello che non volevamo fare (cioè uno di quei documentari agiografici in cui l’autore parla del suo lavoro su sfondi più o meno emblematici), e a rappresentare invece con forza due o tre aspetti centrali. Il primo, e più difficile, mi sembra esso il processo lungo e in parte misterioso che conduce alla scrittura, ai tentativi di scrittura e alle successive elaborazioni di quei primi tentativi. Il secondo riguarda la fatica che circonda questa scrittura, che non nasce in laboratorio e neppure sempre in condizioni ideali, ma che si fa lentamente strada attraverso mille impegni quotidiani, di lavoro e di relazione, tentando di strappare un po’ di tempo e un po’ di concentrazione alle cose di tutti i giorni. Poi, naturalmente, ci sono alcuni ingredienti per me particolarmente toccanti, che il documentario mi aiuta a vedere meglio: la presenza costante di Claudia, dei miei figli, della casa in cui vivo; il rapporto con gli studenti che incontro sul mio cammino, e cose del genere. E, insieme a queste presenze cruciali, la strana solitudine di cui la scrittura ha anche bisogno. “La lettera è selvaggia, la parola è socievole” annotava Edmond Jabès nel suo Libro dell’ospitalità; e mi sembra che Libellula gentile suggerisca molto bene la compresenza di questi due aspetti, elemento socievole ed elemento selvaggio, parola che unisce e lettera che scava nel mistero. Infine, c’è il paesaggio, che Francesco rappresenta in maniera splendida; e uno degli effetti di questo documentario è che, dopo averlo visto, guardo meglio il lago, le montagne, il cielo, cioè quello che posso vedere aprendo le imposte il mattino o uscendo in giardino. Come se il lavoro di Francesco avesse accentuato in me la coscienza di ciò che faccio e vedo, di ciò che mi circonda e mi abita.
Il lavoro, il senso del lavoro. Ti chiedo: cosa pensi resterà del tuo lavoro, di insegnante e di poeta?
Mi sembra davvero difficile rispondere a questa domanda. Come autore, posso sperare, ma è una speranza esile e fragile, che di ciò che provo a scrivere sopravviva qualcosa, cioè che una parte della mia opera (ma questo è un termine troppo impegnativo per usarlo a cuor leggero) possa dire ancora qualcosa a chi verrà dopo di noi. Ma è un pensiero vago, per quanto mi concerne; ciò che conta di più avviene ora, se il fatto di scrivere orienta la mia vita e mi obbliga a un certo tipo di sguardo, di ascolto, di riflessione e di rapporto con il mondo. In questo senso, posso dire in tutta umiltà che la poesia mi ha dato moltissimo, e che posso sentirmi quasi soddisfatto, non già (non mai) di ciò che ho scritto, bensì di ciò che la ricerca della parola mi ha spinto o aiutato a essere, a provare a essere. Cosa rimarrà di tutto questo in un certo senso non è affar mio, e non mi turba poi molto. Per l’insegnante, vale un discorso non troppo dissimile; una parte del lavoro dell’insegnante vive nel presente, nella concreta e non ripetibile azione (quella lezione, quel dialogo, quell’incontro), un po’ come capita forse a un attore. Se poi in questo modo un seme di curiosità e di consapevolezza sarà destinato a germogliare nella mente di qualche studente, si può sperare che in ciò appunto consista la sola forma di continuità auspicabile. Non nella memoria nostalgica, non nella glorietta di un premio o di una menzione, ma nella concreta crescita futura, nel divenire degli altri (“non un amore nemmeno una poesia / ma un progetto / sempre in divenire sempre / ‘in fieri’ di cui essere parte / per una volta senza umiltà né orgoglio / sapendo di non sapere”: scriveva così Sereni alla fine di Un posto di vacanza). Molti anni fa, avevo scritto una poesia immodestamente intitolata A quelli che verranno (ma più che alla ‘posterità’ del Petrarca pensavo probabilmente a una celebre poesia di Brecht), in cui suggerivo l’idea che fossimo qui ‘a custodire la voce’; è un’idea che continua a non dispiacermi. La voce, come il fuoco: qualcosa da custodire e da tramandare, da mantenere viva malgrado le avversità