a cura di Vanni Santoni
[Questo pezzo è uscito in versione ridotta sul dorso toscano del Corriere della Sera, che ringraziamo].
Gli Infected Mushroom, tra i massimi esponenti mondiali della psytrance e della musica elettronica in generale, sono un duo formatosi a Haifa, nel nord di Israele, nel 1996, dall’incontro tra l’allora sedicenne Erez Eisen e il producer Amit “Duvdev” Duvdevani. La loro storia, fatta di undici album e innumerevoli collaborazioni, è improntata a una continua sperimentazione e ibridazione tra i generi. Ci incontriamo al Mendeley Street Hotel di Tel Aviv.
Partiamo dall’inizio: le vostre strade avrebbero potuto essere diverse e distinte…
Sì, il nostro incontro è stato un caso dato che stavamo dentro progetti differenti, che avrebbero anche potuto continuare: un giorno però un amico comune, che faceva già il dj, ci ha messi in contatto, abbiamo fatto un pezzo insieme e ci siamo divertiti… Non era una cosa seria, neanche davamo titoli, le nostre prime canzoni infatti si chiamano “1”, “2”, “3” e “4”. Ma funzionava, così abbiamo continuato. Eravamo molto giovani, specie Erez: pensa che i primi tre album li abbiamo realizzati nella mansarda di casa dei suoi genitori.
Nei vostri primi album c’è un’influenza degli Etnica (pionieristico quartetto goatrance italiano composto da Carlo Paternò, Maurizio Begotti, Andrea Rizzo e Max Lanfranconi, NdR) o è solo una mia impressione?
Certo! Assolutamente! Ah, gli Etnica! Fantastico! Per noi sono fon-da-men-ta-li! L’influenza è enorme, enorme! Anche in senso inverso: perché sai quante volte, dopo aver sentito un loro pezzo, provavamo a rifarlo e ci veniva qualcosa di completamente diverso, e però da quella cosa poi nasceva una canzone? In effetti tutta la nostra musica degli inizi è nata così, cercando di imitare invano la goatrance più all’avanguardia! Accadde lo stesso quando sentimmo la musica di Shpongle, per la capacità di mischiare i generi più diversi.
Voi stessi fate psytrance ma venite dal conservatorio.
Da noi è frequente che la mamma ti mandi al conservatorio a cinque anni, non per interesse verso la musica, ma per non averti tra le palle al pomeriggio! Ora, avere una formazione classica è utile per le melodie, ti viene facile comporle, ma per il resto non è così essenziale, gli strumenti di produzione dell’elettronica si sono differenziati molto da quelli degli altri generi.
Siete noti come innovatori in un genere rispetto al quale la critica più diffusa è che è difficile fare qualcosa di nuovo.
Non so quanto sia vero, si dice la stessa cosa della techno, no? Ma di solito sono critiche che arrivano da gente che non conosce questi generi e non si prende il tempo per capirli. E non ci piace neanche il termine “innovatori”, nel senso che non vogliamo mostrare strade a nessuno, semplicemente cerchiamo sempre di fare le cose in un modo che nessuno ha mai tentato, anche prendendoci dei rischi, ad esempio il nostro album Classical mushroom all’inizio non piacque a nessuno, esplose solo dopo un anno, anche un anno e mezzo. Se prendi un totale profano di musica classica e gli fai sentire due compositori abbastanza vicini nel tempo, dirà che si assomigliano tantissimo.
Oltre alla classica nei vostri lavori si sente anche l’influenza del rock e del metal.
A volte ci giochiamo, su questa cosa, la copertina del nostro penultimo album Return to the sauce, con quei maghi stile Signore degli anelli, potrebbe essere quella di un disco prog metal! È normale, ci piacciono da matti i Dream Theater e i Tool, abbiamo anche suonato in gruppi metal prima di darci all’elettronica, ma ci interessano tutte le ibridazioni, anche col reggae o con la dubstep, che va ancora abbastanza forte negli USA, dove viviamo adesso.
Come è stato il trasferimento a Los Angeles? Lì la scena elettronica è ancora così giovane…
Sai come vanno le cose in America, magari una cosa arriva dopo, ma poi diventa subito enorme. Adesso che è passata questa cosa della “EDM” – incredibile, no, che usino una etichetta così ampia? – ci sono festival spropositati, sebbene lì vada appunto più forte l’halftempo – la cassa dritta a 4/4 in stile rave europeo non viene ancora capita del tutto. Quando siamo arrivati, in un sacco di stati ancora non c’era niente, ma proprio niente… Pensa che quando ci videro per la prima volta in console ci dissero “Hey ma perché ve ne state dietro un tavolo?”, così dato che sapevamo anche suonare gli strumenti dicemmo ok, togliamo il “tavolo” e diamogli quello che vogliono. Sono comunque cose che ti fanno imparare qualcosa su come strutturare lo show, a noi interessa molto anche offrire ogni volta qualcosa di nuovo a livello visivo, sperimentiamo sempre nuovi setup, a volte anche con idee che si rivelano economicamente disastrose!
Nel frattempo, in Europa è la psytrance a andare fortissimo, i festival si moltiplicano ogni anno…
… E la trovi pure nei club. Quando siamo stati a Milano al Fabric, l’abbiamo fatto saltare in aria. C’è una nuova generazione che magari non ha vissuto la stagione delle feste nei boschi, e che però conosce la storia e vuole sentirla, pensa che abbiamo dovuto ricreare alcune tracce vecchie perché non avevamo mai salvato i vari file, e non è stato facile… Sai, le cose che fai quando sei un ragazzino sono ingenue, ma hanno una freschezza che è difficilissima da ricreare in laboratorio, anche quando sei un ingegnere del suono molto più esperto.
Come sviluppate un pezzo?
Oggi va così: Duvdev registra dei motivetti al cellulare, poi ci si lavora assieme in studio, o meglio al computer perché la situazione si è ribaltata, una volta facevamo tutto in studio, ci passavamo anche sedici ore consecutive, mentre oggi, che abbiamo sette bambini in due, a casa c’è sempre da fare e così lavoriamo più mentre siamo in tour… Ci mancano quei periodi infiniti in studio, con le tazze di caffè e la stanza piena di hardware… Oggi serve molto meno materiale, ma non è solo quello, abbiamo meno tempo e c’è più pressione da parte dell’etichetta, se esce fuori qualcosa di buono devo usarlo, non c’è più spazio per cincischiare come ai tempi in cui stavamo per settimane chiusi in studio e poi andavamo a Goa…
Goa, che un tempo era l’epicentro della cultura psytrance, è cambiata quanto si dice?
Ti faccio un esempio. Andiamo spesso a Berlino e ogni volta c’è qualcuno che si lamenta che non è più come una volta, ma anche adesso è fantastica! Magari è meno underground, o – ipotesi terrificante! – c’è un nuovo underground che chi ora ha quarant’anni non vede.
Anche la scena free tekno vive di questa costante nostalgia del passato, però che le cose non siano come vent’anni fa, è oggettivo.
Idem a Goa, certo è diverso dagli anni ‘90 quando era tutto gratis, ma c’è ancora una bella scena, dai. Non si può pretendere che qualcosa resti underground per due decenni… È già molto se una sottocultura, dopo venti anni, esiste ancora – o è addirittura cresciuta o diventata mainstream. E poi i cambiamenti mica sono solo negativi. La crescita della scena psytrance ha contribuito ad alimentare il rinascimento psichedelico: se quindici anni fa mi avessero detto che città come Denver e Oakland avrebbero depenalizzato i funghi e che sarebbe nato un movimento per la legalizzazione e l’uso terapeutico di queste sostanze, avrei detto che era fantascienza.
Parliamo del vostro cambiamento: i vostri due ultimi album, non solo Return to the sauce, ma anche, e ancor più, Head of NASA and the 2 amish boys, segnano un deciso ritorno alla psy più dura, da dancefloor.
La verità è che ogni volta facciamo quel che ci pare. Così, dopo un periodo più ambient magari ci torna la voglia di far esplodere la pista. Adesso potremmo fare qualcosa di diverso. Salsa? È possibile. Opera? Perché no. Ci piace giocare: si sarà capito, in vent’anni.
In effetti c’è sempre un sottotesto ironico nel vostro lavoro. A proposito, avete convertito molti vegetariani? (Il quarto album del duo, del 2003, si intitola Converting vegetarians, NdR)
Eh eh, chissà… Quello che intendevamo con quel titolo era la conversione di chi ha un pregiudizio circa l’elettronica o crede sia noiosa, ecco in quel senso penso che abbiamo convertito un sacco di gente. Detto questo, la nostra passione per lo shawarma (il settimo album del duo si intitola Legend of the Black Shawarma e ha vari pezzi con riferimenti a kebab e street food vari, NdR) è reale e rimane. A proposito, visto che dobbiamo suonare a Firenze… Street food di riferimento?
Be’ ovvio, il lampredotto…
Ora si ragiona! Dacci un paio di indirizzi. “Pollini”? Come si scrive?
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