a cura di Livio Boni e Andrea Cavazzini
[Dal 18 al 27 aprile LPLC sospende la sua programmazione ordinaria. Per non lasciare soli i nostri lettori, abbiamo deciso di riproporre alcuni testi e interventi apparsi all’inizio del 2012, quando i visitatori del nostro sito erano circa un quinto o un sesto di quelli che abbiamo adesso. È probabile che molti dei nostri lettori attuali non conoscano questi post. Questa intervista ad Alain Badiou è stata pubblicata il 28 febbraio 2012]
[Questa intervista è uscita nel numero 59 di «Allegoria»]
Livio Boni e Andrea Cavazzini. Sebbene quest’intervista si prefigga innanzitutto di dare un’idea ai lettori italiani dell’insieme del suo itinerario, ci permetta di cominciare in qualche modo a ritroso, non da una ricostruzione genealogica, ma dall’analisi della situazione politica francese da lei stesso consegnata nel suo Sarkozy: di che cosa è il nome?, un saggio-pamphlet che ha avuto un’eco importante in Francia, e che non ha mancato di suscitare un vivo interesse anche in Italia.[1] Solo in un secondo momento verremo alle Logiques des mondes e all’evoluzione più propriamente -filosofica del suo pensiero, nella seconda parte della nostra conversazione.
Lei sostiene che «è effettivamente avvenuto qualcosa» in occasione delle ultime elezioni presidenziali, e che questo qualcosa segna tra l’altro la fine delle categorie stesse che hanno organizzato la vita politica francese dal dopoguerra, ed in particolare la morte dell’“intellettuale di sinistra”.[2] Possiamo partire da quest’ultimo punto?
Alain Badiou. Alla fine della seconda guerra mondiale, due sono state le forze emergenti, poiché entrambe all’origine della resistenza all’occupazione nazista: i gollisti e i comunisti. Tali forze si intendevano tacitamente su due regole fondamentali: innanzitutto, lo Stato aveva delle responsabilità economiche e sociali, da cui la serie importante di nazionalizzazioni (banche, industria automobilistica, energia…), la pianificazione centralizzata, la previdenza sociale ecc. In secondo luogo, la Francia non doveva allinearsi integralmente agli gli Stati Uniti, da cui il patto franco-sovietico siglato da De Gaulle. Questi due punti di accordo facevano da sfondo alla contrapposizione tra la destra gollista e la sinistra socialista. Per quanto riguarda l’intellettuale di sinistra, questi era essenzialmente un “compagno di strada” del Partito comunista, nel senso che considerava che le regole comuni scaturite dalla Resistenza e dalla Liberazione andassero riprese nel senso della sinistra, e non limitate come voleva la destra. Da qui l’impegno sociale (con il popolo e gli operai contro i borghesi), la neutralità in politica estera (né con gli Stati Uniti né, troppo direttamente, con l’URSS), l’anticolonialismo. Oggi tutto ciò non ha più nessuna pertinenza. Le categorie di “sinistra” e “destra” si sono americanizzate: sono solo sfumature nella gestione capitalista. Tutti si richiamano alla “democrazia” – che io personalmente preferisco chiamare “capital-parlamentarismo” – come all’unico regime politico accettabile. Gli intellettuali dominanti sono diventati pappagalli della cosiddetta democrazia, e fanno la morale alla terra intera su basi che sono in realtà imperialiste. Ho sentito con le mie stesse orecchie una quantità di intellettuali di “sinistra” approvare caldamente il bombardamento di Kabul da parte dell’aviazione americana in nome delle liberazione delle donne afghane… La verità è che le categorie politiche stesse sono in rovina, e che la figura dell’intellettuale pubblico è diventata una caricatura.
L.B. e A.C. Questo significa che la situazione politica francese è diventata ormai analoga a quella degli Stati Uniti, dell’Inghilterra o di molti altri paesi, in cui la prospettiva di un’affermazione della sinistra è stata abbandonata da tempo, e gli intellettuali radicali accettano di essere minoritari o di operare “negli interstizi” del sistema? Dobbiamo insomma intendere per «distanziazione rispetto allo Stato», o per «sottrazione» (per riprendere due “parole d’ordine” ricorrenti nei suoi scritti politici) un certo “divenire minoritari”? Detto altrimenti: in attesa di un’ipotetica resurrezione dell’“intellettuale di sinistra”, bisogna rassegnarsi ad una disciplina dell’“azione ristretta”, locale, o del lavoro sull’ideologia, invece di affannarsi per ristabilire le condizioni di un’egemonia introvabile?
A.B. Sussistono comunque alcune sfumature, dovute innanzitutto alla comparsa, dopo il Maggio ’68, soprattutto in Francia e in Italia, di una figura d’intellettuale in politica assai diversa da quella del dopoguerra. Si tratta dell’intellettuale organizzatore e militante, direttamente legato agli operai, alla gente del popolo, senza la mediazione del Partito. Questa figura è stata alimentata dall’eredità francese del maoismo, attraverso grandi parole d’ordine come “servire il popolo” o “legarsi alle masse”. Essa ha prodotto una visione a lungo termine della politica, che noi[3] definiamo «la politica senza partito», la cui sola regola è quella del processo politico stesso, a partire da questioni politiche precise, ed in cui gente di qualsiasi origine si trova in condizione di eguaglianza, senza la segmentazione sociale che i partiti comunisti non solo rispettavano, ma persino aggravavano, con le loro forme burocratiche. Forse la scala su cui si situano azioni di questo genere rimane ancora, in effetti, quella di un’azione ristretta, ma ha modellato un tipo inedito d’intellettuale di sinistra, che si potrebbe definire “intellettuale militante”. I miei nemici stessi riconoscono, pur deplorandola, la mia libertà d’intervento… che fa sì, ad esempio, che io possa rivendicare senza nessun complesso l’intera e problematica eredità rivoluzionaria senza tener in alcun conto il totalitarismo ideologico veicolato da parole sacre nella nostra società come “democrazia” o “diritti umani”. Una tale libertà non mi appartiene come individuo, ma è il frutto di un’esperienza dell’eguaglianza costruita nell’azione e nell’organizzazione di battaglie politiche localizzate. Nella fraternità attiva con gente venuta da ogni parte ho costruito un universo mentale sul quale la propaganda avversa (politica unica, capital-parlamentarismo, individualismo morale, ecc.) non ha alcuna presa. Il che fra l’altro dimostra che oggi è l’uguaglianza che permette la libertà, in quest’ordine, e non il contrario.
Tutto ciò non ha equivalenti negli Stati Uniti, almeno a livello degli intellettuali più reputati. Laggiù la gente è coraggiosa e determinata, forse più che da noi, ma trascendere la barriere sociali e passare da una minoranza all’altra è praticamente impossibile. Senza dubbio, su scala generale, si può dire che la morte dell’intellettuale di sinistra crei anche in Francia una situazione “minoritaria” del tipo da voi descritto. Ma credo che l’avvenire si giochi sul versante dell’intellettuale militante, cioè di una reinvenzione di tutte le categorie politiche.
L.B e A.C. Sempre nel suo ultimo pamphlet politico, lei sembra voler mettere fuori gioco ogni velleità di costituire un fronte anti-sarkozysta. L’anti-sarkozysmo, proprio come l’anti-berlusconismo – che ha assorbito quel poco che restava delle energie intellettuali della sinistra italiana – comporta infatti la rassegnazione a farsi dettare dall’avversario gli argomenti, i temi e la logica stessa dello scontro. Mentre l’unica posta in gioco consiste nella possibilità di reperire dei “punti” che non siano «suturati allo stato della situazione», dunque al nome “Sarkozy”. Lei ne dà più d’un esempio, in forma d’assiomi, tra cui il principale è enunciato con assoluta semplicità: «c’è un solo mondo». In che senso si tratta di un “punto” fondamentale?
A.B. Dove individuare le forze potenziali di una nuova politica di emancipazione? Senza alcun dubbio nelle enormi masse di contadini sradicati o di classi spossessate che errano sulla faccia della terra al ritmo della domanda di forza-lavoro. Si tratta tanto dei milioni di operai cinesi che degli africani che attraversano i mari su imbarcazioni di fortuna. Il nemico sa bene che da lì viene il pericolo. Gli strumenti polizieschi per il controllo di queste masse vengono rinforzati di giorno in giorno, i campi di concentramento sono lì ad aspettarli, muri e recinti a respingerli, leggi scellerate a privarli di ogni diritto, mentre allo stesso tempo lo sviluppo planetario della produzione capitalista esige la loro presenza. Dobbiamo tentare di metterci nel cuore della contraddizione e delle incredibili violenze che ne conseguono. Persino la famosa “guerra contro il terrorismo” serve prima di tutto come alibi per trattare ovunque questi proletari virtuali come sospetti. L’enunciato prescrittivo «c’è un solo mondo» significa innanzitutto che apparteniamo alla loro stessa patria politica, che sono nostri pari, e che è con loro che riusciremo ad imporre, su scala mondiale, le norme della politica che verrà. Significa anche ricordare, in una forma nuova, che «i proletari non hanno patria», se non, appunto, il mondo, il mondo unico e nella sua interezza.
L.B. e A.C. Lei dà grande rilievo all’affermazione del nuovo presidente: «bisogna farla finita con il Maggio ’68». Ora che siamo reduci da una pioggia di commemorazioni giornalistiche del suo quarantesimo anniversario, nelle quali sembra prevalere definitivamente una lettura generazionale, immaginaria e in fondo moralistica dell’evento, in che senso, a suo avviso, la dichiarazione di Sarkozy ha un valore sintomatico?
A.B. Come dicevo prima, il Maggio ’68, nella sua articolazione al maoismo e alla Rivoluzione culturale, si trova all’origine d’una ricerca inedita sull’essenza stessa della politica. Naturalmente esistono altri aspetti dell’evento. Per quanto mi riguarda distinguerei almeno quattro “Maggio ’68”: la rivolta studentesca; gli scioperi operai di massa; la trasformazione dei costumi e della cultura; infine, quello che mi sta più a cuore, la novità politica. Ma se lo spettro del Maggio ’68 continua ad ossessionare lo spirito di Sarkozy, è solo in quanto portatore dell’idea radicale d’una politica d’emancipazione al tempo stesso ribadita e trasformata, di un’opposizione totale al mondo dominante e ai suoi sinistri feticci, tutti originati in ultima istanza dagli appetiti anarchici del capitale finanziario. Farla finita con il ’68 significa farla finita non solo con il processo rivoluzionario, ma con l’idea stessa che un tale processo sia una possibilità storica, per quanto remota. Sarkozy e tutti i suoi sbirri degli Stati occidentali vogliono chiudere il periodo delle rivoluzioni aperto nel XIX secolo non solo a livello dei rapporti di forza reali, ma a livello ideologico.
L.B. e A.C. Veniamo agli ultimi capitoli del suo pamphlet. In un’epoca in cui sembra tornato bon ton, soprattutto nei campus anglosassoni, dichiararsi marxisti, lei prende in contropiede il movimento generale, richiamandosi invece al “comunismo”, foss’anche “generico”, invece che a un post-marxismo generico. Come interpretare questo contropiede?
A.B. Ricorderei come Marx stesso abbia affermato, in una celebre lettera a Weydemeyer, che il suo contributo in politica non era affatto il concetto di lotta di classe (già individuato dagli storici francesi), ma da una parte la necessità di una transizione violenta (la dittatura del proletariato) come condizione indispensabile alla distruzione dell’apparato statale reazionario; dall’altra la visione d’insieme sotto il segno del comunismo. Poco a poco mi sono reso conto quanto il riferimento al marxismo sia in effetti consensuale. Chiunque è disposto a dire: «Sì, Marx è datato, ma è davvero interessante, e in più non ha commesso alcun crimine, a differenza di Lenin e Mao». Ciò si accorda bene all’opposizione al capitalismo, alla “barbarie economica”, e non costa nulla, è solo morale applicata. Cosa farà l’intellettuale orripilato dal capitalismo contro il suddetto capitalismo? Assolutamente nulla, si lamenterà e approfitterà del fatto che le “libertà democratiche” gli danno il diritto di lamentarsi pubblicamente. La vera questione resta quella dello Stato, della democrazia, dell’azione di massa organizzata. Quindi la questione di una visione comunista delle verità politiche. Se non si assume questa posizione, che contiene una critica radicale di ogni forma di Stato, compreso lo Stato parlamentare, si hanno due conseguenze assai nefaste. Innanzitutto si rigettano senza comprenderli tutti i tentativi rivoluzionari del secolo scorso, precludendosi ogni possibilità di situarsi oggi rispetto ai problemi politici. Si è allora nella stessa situazione in cui sarebbe un matematico che pretendesse di progredire nella propria disciplina senza nulla conoscere dello stato dei problemi matematici, di che cosa sia stato o meno già dimostrato. Passare attraverso Lenin, Mao, partendo dai quali riflettere su Stalin, la guerra di Spagna, ecc., insomma prendere la misura di cosa sia stato il movimento comunista, è indispensabile, è una condizione minimale. Altrimenti si funziona senza idea direttrice, riducendosi allo stato comune dell’“intellettuale critico”, i cui contenuti affermativi e normativi si riducono a poco più che nulla, limitandosi a presiedere a una forma sofisticata di recriminazione generale.
L.B. e A.C. La sua proposta circa l’ipotesi comunista e le sue diverse fasi ci sembra colmare una lacuna nella riflessione filosofica sulla politica. Si può infatti constatare come, tra i fenomeni politici del XX secolo, il nazismo e le diverse forme di fascismo in generale giochino un ruolo paradigmatico per una gran parte del pensiero politico – il senso comune filosofico ammette ben volentieri che il III Reich, con le sue catastrofi ed il suo carattere “eccessivo” costituisca un banco di prova per ogni interpretazione della struttura essenziale dell’agire politico e del legame sociale. Ebbene, nulla di tutto ciò avviene per il comunismo, a cui non viene riconosciuta dignità di oggetto filosofico, la cui interpretazione è lasciata il più delle volte a discorsi psicologizzanti sull’accecamento, l’utopia e l’illusione. Ci sembra allora che la rinuncia a pensare il comunismo del XX secolo abbia per conseguenza l’impossibilità di pensare il legame tra emancipazione e azione politica (visto che, in fin dei conti, prendere il nazismo come paradigma non può avere per conseguenza che il pensare la politica come forza distruttrice da arginare attraverso la morale, la religione o i Diritti dell’uomo). Dobbiamo quindi intendere la sua presa di posizione circa “l’ipotesi comunista” come volta a colmare questa lacuna nella filosofia contemporanea?
A.B. Sono assolutamente d’accordo. Nella lotta ideologica per la costruzione delle nuove forme dell’ideologia dominante, la questione (d’origine puramente religiosa) del Male ha occupato ed occupa tuttora un posto essenziale. Grosso modo il punto è questo: visto che una serie di politiche eccessive ha condotto a crimini di massa, la politica ragionevole e moderata rappresentata dal capital-parlamentarismo costituisce almeno il non-Male, in mancanza del Bene o del Vero. Mi è capitato di scrivere da qualche parte che per il ruolo del Male per eccellenza, del Male perfetto e del Diavolo, vi fossero due candidati, Stalin e Hitler: ma Stalin ha perso su questo fronte! Hitler e il nazismo sono diventati assolutamente paradigmatici. Stalin fu un poco di buono, la cosa pare indubbia, e Mao pure, ma in fondo nessuno si preoccupa sul serio di sapere chi furono realmente, che cosa pensarono o fecero, ci si limita ad una sciatta contabilità dei morti. Tutto ciò consente di mettere nel dimenticatoio l’entusiasmo comunista che sollevò milioni di persone della terra intera, soprattutto operai e contadini, per decenni. Ecco una delle ragioni per le quali occorre reintrodurre il termine “comunismo” e ridispiegarlo intellettualmente.
L.B. e A.C. La caratterizzazione dell’ipotesi comunista da lei proposta nell’ultimo capitolo di Sarkozy: di che cosa è il nome? può risultare alquanto stravagante per il pubblico contemporaneo, tanto italiano che francese, un po’ ingenuamente abituato ad associare al termine “comunismo” le due figure capitali dello Stato e del Partito, oggi assai poco attraenti, e che lei riconduce alla «seconda sequenza dell’ipotesi comunista» (1917-1975). Potrebbe precisare qual è la sua posizione rispetto a queste due forme storicamente indissociabili dal destino dell’ipotesi comunista nel XX secolo?
A.B. Occorre ripartire dallo stato propriamente politico di tutti questi problemi. Qual è il problema cruciale, alla fine del XIX secolo? Quello, ereditato dalla Comune di Parigi, dell’insurrezione vittoriosa. Tutte le grandi sommosse operaie successive alla Rivoluzione francese sono state stroncate, in tutta Europa. La questione della vittoria è quindi un problema comune a tutto il movimento socialista. L’ala destra rinuncia all’insurrezione e sostiene l’adesione al parlamentarismo e l’associazione elettorale al potere dello Stato: questa è ancora oggi, in Francia, la concezione di un leader trotzkista come Besancenot, malgrado il fatto che, notoriamente, una tale posizione non abbia mai prodotto risultati probanti.
L’ala sinistra, leninista, si orienterà diversamente: la vittoria è possibile solo a condizione che gli operai dispongano di un’organizzazione centralizzata sul modello militare (la “disciplina di ferro”), atta all’azione illegale e in grado di affrontare i reparti armati dell’apparato di Stato.
Poiché la sola forza di chi non ha nulla è la disciplina. E la storia lo dimostra: l’insurrezione d’Ottobre è vittoriosa, per la prima volta nella storia mondiale. Da qui un entusiasmo generale, nel mondo intero, in larghe frange del popolo e degli intellettuali, entusiasmo che durerà più di mezzo secolo. Dopodichè, si entra in un altro problema, del tutto differente: quello della costruzione di una società nuova. Sappiamo oggi che la soluzione al primo problema (l’insurrezione vittoriosa) non porta alla soluzione del secondo. Il Partito, esemplare nella creazione di una forza popolare di tipo nuovo, non sa poi far altro che imporre alla società una militarizzazione burocratica senza speranze. E ci troviamo ancora a questo punto del problema. Occorre dunque rivedere tanto il rapporto militante nei confronti dello Stato che le forme d’organizzazione. Non essere ossessionati né dal potere, né dalla forma Partito. Da qui l’esigenza di una nuova fase del comunismo.
L.B. e A.C. Lei fa spesso riferimento alla Rivoluzione culturale cinese come a un momento cruciale nelle sequenze della politica d’emancipazione, ed essa gioca un ruolo centrale anche nelle sue riflessioni sull’ipotesi comunista (Slavoj Žižek si spinge fino a dire che la Rivoluzione culturale giochi per lei una funzione analoga a quella della rivoluzione nazionalsocialista per Heidegger, in quanto prova dell’impossibilità di sottrarre la politica ai due “enti” fondamentali che sono il Partito e lo Stato).[4] Ci può dire qualcosa di più su questo ruolo cruciale?
A.B. La Rivoluzione culturale affronta il problema nel punto in cui si pone: come rianimare l’ipotesi comunista in una società in cui la fusione tra Partito e Stato l’ha congelata? Mao ne conclude che occorra far ricorso alle masse, per trasformare il Partito e adeguarlo alle nuove esigenze. Non esita in questo a designare nel Partito stesso il luogo di un potere di classe di tipo fino ad allora sconosciuto (la “nuova borghesia”), che è di ostacolo a quel ch’egli chiama il “movimento comunista”, irriducibile allo Stato. Non esita quindi a dichiarare: «Ci si domanda dove sia la borghesia nel nostro paese. È nel partito comunista». In seguito a questo appello (inizialmente sostenuto, e persino anticipato, da avanguardie studentesche), avranno luogo immense mobilitazioni popolari, soprattutto di giovani e operai, che discuteranno nella libertà più totale tutte le questioni della società. Ma alla fine il movimento fallirà, per effetto del principio d’ordine incarnato dai cacicchi del Partito, guidati da Deng Xiaoping. Il “movimento comunista” sarà allora schiacciato dallo Stato-Partito proprio come lo furono le insurrezioni operaie durante il XIX secolo. La Rivoluzione culturale è la Comune di Parigi del XX secolo: essa pone in una forma rivoluzionaria il problema principale del nostro tempo (la relazione tra politica comunista e Stato), senza però riuscire a risolverlo.
L.B. e A.C. Quel che ci sembra molto importante nelle sue posizioni è che, per lei, la fedeltà al contenuto emancipatore dell’ipotesi si accompagna a una coscienza acuta dell’esaurimento e della chiusura delle sue forme passate. Tutto ciò è assai lontano dall’attitudine gauchista-nostalgica che un certo numero di commentatori le ha rimproverato. D’altronde lei parla d’“invarianti” comuniste che si riattiverebbero in sequenze differenti, e non di “modello”, cioè di una forma particolare d’esistenza dell’ipotesi che costituirebbe un paradigma insormontabile, da imitare e riprodurre. Vi è forse in gioco qui un problema filosofico: lei attribuisce l’ossessione per i modelli alla politica per così dire reazionaria, da Pétain a Sarkozy; così come fa riferimento alle tesi del compianto Philippe Lacoue-Labarthe che ha studiato il ruolo cruciale di una teoria del modello nella politica tedesca che prepara l’avvento del III Reich: il modello come forma da imporre alla comunità per permetterle di ritrovare la Gestalt originaria.[5] In che senso il concetto d’invariante si contrappone a quello di modello? Che distinzione – filosofica e politica al tempo stesso – si può operare tra i due termini? Si può scorgere in tale distinzione qualcosa che pertiene a un’altra distinzione, quella (ci perdoni la semplificazione) tra il ritorno ad un’Origine e la riattivazione di una Verità eterna?
A.B. La vostra domanda è profonda, importante. Le invarianti comuniste di cui parlo sono attestate nei processi reali (la rivolta di Spartaco, le guerre contadine in Germania, la Comune di Parigi…) e non sono comprensibili che a partire dalle massime, dai principi, dai movimenti che vi furono inventati. Non si tratta affatto di ripetere o d’imitare. D’altronde, non siamo in presenza di una forma o di un’opera, ma solo di frammenti intatti di una verità che si può eventualmente riattivare in un contesto del tutto differente (come ad esempio quando Rosa Luxemburg chiama “spartachista” la propria organizzazione). Tutto ciò non suppone alcuna origine. Il solo presupposto è che ciò che fu disposto e pensato come dotato di un valore universale possa essere ri-pensato per il suo valore. Avete quindi ragione nel dire che non provo nessuna nostalgia. Se un matematico riprende (e ammira…) la dimostrazione, nei termini euclidei, dell’infinità dei numeri primi, si dirà forse che sia nostalgico dell’Antichità? Sarebbe ben sciocco. Ebbene, quando riprendo e ammiro i principi e le tesi politiche di Lenin, o certe sequenze della Rivoluzione culturale, è altrettanto ridicolo pensare che io sia nostalgico. Non faccio altro che iscrivere il mio pensiero, come necessario, nella storia dei problemi e delle soluzioni che ne sono state date.
[1] A. Badiou, Sarkozy: di che cosa è il nome? Circostanze 4, a cura di L. Boni, Cronopio, Napoli 2008; ed. or. De quoi Sarkozy est-il le nom? Circostances, 4, Nouvelles Éditions Lignes, Paris 2007.
[2] Cfr. L’intellectuel de gauche va disparaître. Tant mieux, intervista di N. Weill ad A. Badiou, in «Le Monde», 14 luglio 2007.
[3] Badiou si riferisce alle posizioni dell’«Organisation politique», gruppo militante “postleninista e postmaoista” fondato nel 1984, del quale è stato tra i principali animatori, e che sussiste attualmente nel «Ressemblement des Collectifs des Ouvriers Sans Papiers et des Foyers» e intorno al «Journal politique».
[4] Cfr. S. Žižek, État d’urgence et dictature révolutionnaire, Intervento al Seminario coordinato da Jean Salem Marx au XXIe siècle, Sorbona, 27 ottobre 2007 (htpp://semimarx.free.fr). Sul rapporto di Badiou con la Rivoluzione culturale cfr. La Révolution culturelle: La dernière révolution?,Les Conférences du Rouge-Gorge, Paris 2002, e la corrispondenza con Žižek pubblicata in appendice al volume Mao. De la pratique et de la contradiction, Paris, La Fabrique, 2008.
[5] Ph. Lacoue-Labarthe, La finzione del politico, trad. di G. Scibilia, Il Melangolo, Genova 1992; ed. or. La Fiction du politique. Heidegger, l’art et la politique, C. Bourgois, Paris 1988.
[Immagine: Andy Warhol, Falce e martello (1976) (gm)]
Condividere quanto sostiene Badieu, “reintrodurre e rispiegare intellettualmente il comunismo”, mi fa venire in mente due interrogativi. Esiste oggi una forza intellettuale, e intellettualemente onesta, capace di farlo? Esiste una forza politica capace di ridisciplinarsi (“Poiché la sola forza di chi non ha nulla è la disciplina”) e di reinterpretarsi anche dal punto di vista intellettuale, se vogliamo programmatico, oltre che fattuale? Forse sono domande retoriche, ma vogliono indirizzare le affermazioni propositive di Badieu a una realtà sociale oggettiva, da scuotere, risvegliare, senza dubbio, ma in cui la parola “comunismo” può suonare come un feticcio o come un fantasma. La mia percezione è che per “sovvertire la chiusura del presente” ci sia bisogno di politiche sociali e intellettuali che, prima di tutto, non appaiano nostalgiche: ad esempio, reiterare il ’68, sia da una prospettiva di sinistra che da una prospettiva di destra, dà spazio a speculazioni non a innovazioni, dunque a chiusure. Insomma, il comunismo è un'”eredità”, ma la “disciplina” non deve essere una riscoperta, ma una scoperta del nostro tempo e nel nostro tempo.
V’è nelle risposte di Badiou del paradossale.
Egli sostiene l’importanza dell’uso della parola comunismo, ma si rifiuta di considerare l’esistenza di un modello ad essa collegato. L’introduzione dell’ipotesi delle invarianti sembra un trucco, perchè se non esiste il modello, non è possibile stabilire quali sarebbero e quali non sarebbero invarianti del comunismo.
In effetti, usare una parola significa collegarla ad un contenuto ben specificato, o, anche ammettendo la possibilità dell’insuccesso in tale tentativo, quanto meno bisognerebbe convenire su questa esigenza.
Così, usare la parola “comunismo” per il suo valore evocativo, mi sembra niente più che un espediente per evitare una discussione di merito.