di Antonio Tricomi
L’intento è chiaro: mettere la propria poetica surrealista – sempre incline a evocative demistificazioni, sottilmente parodistiche, di quelle narrazioni e forme di vita dominanti cui essa è solita contrapporre, con squisito garbo, l’elegiaca, minimalista epopea di perlopiù stralunate esistenze marginali – al servizio di una pur autoironica sentenza apocalittica. Con I morti non muoiono, Jim Jarmusch vuole cioè dirci che ciascuno di noi è ormai, già in vita, uno zombie affamato di merci, spettacoli, fascismo. Che insomma, senza capirlo, tutti noi ci muoviamo rallentati, ci incolliamo autisticamente alle nostre abitudini di consumatori, parliamo per luoghi comuni, pensiamo rigorosamente a vuoto come gli abitanti di quella sonnacchiosa, immutabile, trumpiana cittadina dell’Ohio, l’immaginaria Centerville, fin dal suo nome promossa, nel film, a raggelata metafora del mondo intero. Per cui possiamo anche attendere, come scelgono di fare i vari personaggi di I morti non muoiono, che a sancire una catastrofe largamente annunciata sia il dissesto ambientale provocato dai nostri dissennati comportamenti di bulimici predatori ciecamente asserviti alle logiche distruttive del capitale. E però, se pure non intervenisse lo sconquasso del globo a ingoiarci, per noi cambierebbe poco e anzi nulla, perché estinti, ossia definitivamente incapaci di autentica vita, lo siamo già.
Né Jarmusch s’illude che il grande pubblico sia realmente disposto a fruire un’opera cinematografica, invece che al pari dell’ennesimo prodotto commerciale da cui trarre un godimento tutto autistico, come un monito grazie al quale acquisire una maggiore coscienza dei propri vizi più deleteri. Di qui la filigrana perfidamente scanzonata, o meglio auto-dissacratoria, del fosco messaggio che I morti non muoiono intende offrirci. Perché l’autentico alter ego del cineasta, nel film, non è tanto il personaggio interpretato da Adam Driver: quell’imperturbabile agente di polizia che, sempre pronto a profetizzare seraficamente il peggio, si rivela semmai la maschera – per citare una nota contrapposizione istituita da Umberto Eco – dei vari intellettuali “apocalittici” dei nostri anni che però, dei ben più numerosi “integrati” con cui essi comunque accettano di interloquire in seno all’onnipervasiva industria culturale, appaiono non i veri antagonisti, ma il forse ipocrita, certamente complice, negativo fotografico. Piuttosto, l’effettivo “doppio” di Jarmusch, in I morti non muoiono, è quella figura di bizzarro “buon selvaggio”, incarnata da Tom Waits, che può solo passivamente alienarsi, in un primo momento, dall’autodistruzione del genere umano; commentarla, poi, con il rassegnato sarcasmo dello spettatore inerme; e, infine, attendere sardonicamente che scocchi anche la propria ora.
Sembra anzi lecito interpretare l’intera pellicola come il risultato dello sguardo letteralmente swiftiano sul presente esibito da quest’ultimo personaggio, quasi egli voglia senza più rimpianti sottoporci, appunto in quanto portavoce di un cineasta totalmente disilluso, la Modesta proposta di costui per espellere l’orrore dal nostro tempo: dato che non sappiamo recuperare una qualche plausibile forma di decoro, accelerare la nostra scomparsa. Sbranarci in fretta gli uni gli altri. Per cui, quanto più Jarmusch muove da un feroce sdegno moralistico, tanto più, sapendolo un sentimento socialmente sterile, egli sceglie di straniarlo nella sulfurea confezione di un film senza indugi presentato quale puro divertissement cinefilo. Sicché, appena infine arrivano, a divorare quei metaforici cadaveri viventi che popolano Centerville, zombies veri e propri (ossia, a questo punto, livorosi defunti al quadrato), I morti non muoiono assume irrevocabilmente le fattezze di un ironico centone del genere horror, con frenetici rimandi – tra i diversi altri autori – a George Romero, Wes Craven, John Carpenter.
E nondimeno esaspera la propria natura di dark comedy, volutamente scombiccherata, vieppiù incline a concepirsi quale opera oltranzisticamente meta-cinematografica. Per esempio, il nome del già ricordato personaggio cui dà corpo Driver è Peterson, e certo non sfuggirà che il protagonista del precedente film di Jarmusch, oltre ad avere le sembianze del medesimo attore, si chiamava pressoché alla stessa maniera: Paterson. Senza contare poi che, sostenendo all’improvviso di sapersi implicata nella realizzazione di un lungometraggio di cui ha letto la sceneggiatura, tale maschera non si limita a confessare il proprio statuto, per l’appunto, di creatura soltanto fittizia. Di fatto, con una simile ammissione, essa addirittura si cancella come carattere di una rappresentazione cinematografica, sì da lasciar parlare, in vece sua, direttamente il proprio interprete.
Inutile tuttavia negarlo: delle sciarade scopertamente citazioniste, I morti non muoiono palesa molti limiti. Appare dunque, nell’ambito della complessiva filmografia di Jarmusch, un’opera quasi prescindibile, sia perché troppo autocentrata sia perché, a tratti, persino stucchevole. Il che però non vieta alle sequenze conclusive – in cui vediamo zombies inconsapevoli e autentici cadaveri redivivi scannarsi forsennatamente tra loro, pur avendo magari avuto vincoli di parentela, amicizia o colleganza – di consegnarci una dolente immagine, oltremodo poetica, della nostra irredimibile barbarie, permettendo al fisiologico nichilismo del regista di fuggire qualsivoglia compiacimento puramente ludico per rivelare il suo più nobile fondamento tragico.
Che, secondo Jarmusch, la nostra specie non abbia chance alcuna di salvezza, lo conferma, d’altro canto, il personaggio modellato su una quasi incorporea Tilda Swinton: se Zelda Winston – la nuova, enigmatica impresaria delle pompe funebri giunta a Centerville, abile nell’uso della katana e che tanto irresistibilmente ricorda la Black Mamba, ossia La Sposa, interpretata da Uma Thurman in Kill Bill di Quentin Tarantino – riesce infatti a salvarsi dalla carneficina in atto, è solo perché un’astronave la preleva per condurla su un pianeta diverso dal nostro. Qui sulla Terra, l’unica verità sempre inconfutabile – spiega del resto il brano country rock di Sturgill Simpson che ossessivamente risuona nel corso dell’intero film e al quale la pellicola (pronta perciò ad offrire uno stravagante cameo al musicista) deve il proprio titolo originale – è che The Dead Don’t Die. Che, cioè, noi esseri umani mai sapremo affrancarci dal destino di passare e di far scivolare il mondo, via via, da una forma di morte a un’altra.
Niente di più patetico di un americano che fa dei film d’essai per europei. La prima parte del film è anche passabile ma personalmente il grande talento in Jarmusch non l’ho mai visto