di Roberto Vetrugno
[E’ appena uscito, nella nuova collana La porta dei dèmoni che Flavio Santi cura per Unicopli, il romanzo d’esordio di Roberto Vetrugno, Tripoli. Ne riportiamo i primi capitoli].
1.
Migrato
Avevano trovato il disperato da mandare al massacro, pronto a farsi sbeffeggiare in una delle università più sottosviluppate del Mediterraneo.
E poi la Libia, che posto è la Libia? Qualche anno fa a tutti sarebbe venuta in mente la faccia del colonnello con i quadretti appesi alla divisa, o con quei vestaglioni in tutte le tonalità del marrone. Con gli occhiali da sole, i riccioli e le sue tende da beduino. Ma era il passato.
Cercai di non pensare ai barconi, agli “sbarchi”, agli scafisti, alla tratta di esseri umani. Avevo parlato con un amico ingegnere al bar dove in Italia passavo il mio tempo ad aspettare, lui era l’unica persona che conoscessi a essere stato in Libia.
“Tripoli è una città di merda e, tranne la città vecchia, fa cagare. Sporca, un traffico bestiale, i libici non lavorano, il Colonnello li ha viziati. Tutto è in mano alla burocrazia che è lentissima. Ho fatto file per giorni interi per avere un documento. Lascia stare, è un posto per faccendieri, non per professori.”
Avevano pensato a me perché sapevano che ero col culo per terra e che avrei accettato; sapevano che ero disposto a viaggiare e più volte mi avevano dato per spacciato.
Non si insegnava italiano a Tripoli da decenni e con la rivoluzione era il momento di farlo. Ecco una ragione per fare quel salto sulla sabbia mobile.
A parte una quantità di foto sulla Libia, sul deserto, sulle attrazioni turistiche del paese non più accessibili, non trovai niente di significativo, né in italiano né in inglese. Il sito dell’università era vecchio di quattro anni, era dei tempi del regime. Nessuna traduzione disponibile.
Per l’aspetto sicurezza avevo diligentemente deciso di leggere il rapporto del Ministero degli Esteri su “Viaggiare sicuri”:
LIBIA — Negli ultimi giorni una serie di gravi episodi ha provocato il forte deterioramento delle condizioni di sicurezza in tutto il Paese … con particolare riguardo all’est ed in particolare nella zona di Bengasi. L’uccisione dell’uomo politico A. M. il 26 marzo 20 .., a Bengasi, ha provocato violente proteste che si sono propagate in tutte le principali città della Libia … Preoccupante, per le conseguenze che potrà avere sulle condizioni generali di sicurezza, è l’evasione di un ingente numero di detenuti dal carcere di Bengasi, tra cui alcuni condannati per reati gravi quali terrorismo, traffico di droga, omicidio. Il centro di Tripoli è stato teatro di due gravi episodi nel giro di pochi giorni: un razzo esploso in pieno centro in direzione dell’Hotel “Corinthia” e un attacco, realizzato con lo stesso tipo di armamento, alla residenza dell’Ambasciatore degli Emirati Arabi Uniti … ma che sempre di più sono dimostrazione della fragilità del quadro di sicurezza. L’attacco al “Corinthia”, inoltre, è anche inteso a scoraggiare la presenza degli occidentali in Libia, per cui si raccomanda estrema cautela e attenzione in ogni tipo di spostamento, anche nelle zone apparentemente meno insicure … […]
Smisi di leggere e guardai dalla finestra il cielo europeo in movimento e le biciclette silenziose: una donna con un passeggino e un tram sulle rotaie oltrepassavano un ponticello. Che palle, pensai. Gli alberi grandi, gli uccelli nervosi ci giravano intorno. Una forma di vivere più o meno civile poteva essere sostituita da un inferno. Sabbia, odio, liberazione. Caldo, guerra.
Potevo restare, protetto da decenni di pace e da governi innocui. Potevo rimanere immobile, in silenzio, e costruirmi la mia vita europea.
Iniziò a piovere, la mamma con il passeggino si mise a correre.
……………
2.
Nella medina kadima
La piazza dei Martiri, ribattezzata dal Gheddafi “piazza Verde” si aprì alla mia vista in tutto il suo splendore sciatto: sulla destra c’erano delle tende, sulla sinistra un punching-ball con una grande ruota che girava e suonava. Al centro sei carretti addobbati e un’antilope per le foto degli sposi. Sulla destra una ventina di bare di legno chiaro con una foto.
Tripoli è bianca. Anche i migranti italiani avevano sbagliato direzione cercando di costruirsi un paradiso su una nuova sponda: una terra promessa dalla cialtroneria fascista. Ma poi un novello Mussolini con i riccioli era nato in terra libica pronto a distruggere i ponti e soprattutto quella porta sul Mediterraneo: per costruire un gigantesco impenetrabile muro verde. Mi vedevo, mentre i miei passi rallentavano, portato dal vento della libertà e dalla rivoluzione. Pronto a esportare civiltà linguistica, parole seppellite insieme ai cadaveri degli oppositori del dittatore più bello dell’Africa.
Nella medina kadima i negozi erano ancora chiusi nonostante fossero le dieci. Arrivai sotto un campanile dove c’era un bar dal nome italiano, il Caffè Casa. Provai lì il mio primo espresso libico. Un uomo indossava l’abito tradizionale, una specie di vestaglia bianca con sopra un gilè decorato e un fez in testa. Dopo un po’ le vie della medina kadima si animarono, gruppi di donne si aggiravano mentre i negozianti alzavano le saracinesche.
In un’ora circa la città vecchia era diventata un suk; mi infilai anche io tra i negozi. Gioielli, stoffe dorate, abiti da cerimonia carichi di decorazioni. Mi fermai di fronte a una bancarella di abiti intimi da donna: ori e argenti appesi a reggiseni e culottes senza manichini.
Intorno a me tutti bisbigliavano e compravano, mi guardavano con diffidenza, ero l’unico straniero in giro. Provai a scattare una foto e mi guardarono male.
Tutte le donne portavano il velo, molte indossavano il niqab, quello nero integrale. Dai minareti a mezzogiorno si diffuse la preghiera con gli altoparlanti.
Finalmente tra migliaia di persone mi sentivo solo. Davanti a me comparve un uomo con un trolley aperto a metà da cui spuntavano mazzette di dinari, la moneta libica. In qualche angolo c’erano uomini, perlopiù ragazzi, con i pantaloni mimetici e kalashnikov che fumavano e chiacchieravano.
Mi trovai davanti a una vetrina che esponeva pistole e mitragliette. Fui preso dalla voglia di entrare e comprare una pistola; se qualcuno mi avesse aggredito io la avrei tirata fuori e lui con la sua mi avrebbe sparato prima.
Intanto ero entrato e avevo impugnato un’arma poggiata sul bancone a disposizione dei clienti. Il venditore mi aveva accolto sorridendo e mi aveva invitato a valutare la sua merce. Con un sorriso la posai sul banco senza dire nulla. Feci un cenno e uscii.
Voltai l’angolo e mi ritrovai in mezzo a un incrocio di mani piene di soldi; riconobbi l’uomo con il trolley. Era il mercato nero di dollari, euro, dinari. Nessuno faceva caso a me, ero invisibile.
Mi trovai di fronte al vecchio Banco di Roma, era stato costruito nei primi del Novecento dagli italiani sbarcati per fare affari. Una galleria costruita da una famiglia di imprenditori italiani negli anni venti era diventata il mercato del pesce. Avevo con me una guida del Touring Club stampata nel 2007; seguendo una mappa arrivai di fronte all’antica sinagoga della medina, era chiusa e sembrava chiusa da molto tempo. Lessi che era stata aperta fino alla rivoluzione del 1969, prima a Tripoli convivevano pacificamente credenti di diverse religioni. Con la vecchia guida in mano, senza macchina fotografica ero un turista improvvisato, perso in quel labirinto di vie strette.
Uscii dalla medina e raggiunsi l’arco di Settimio Severo piantato di fronte a una moschea bianca, su un muro vidi scritto “Free Libya”, a fianco il volto di un ragazzo e la nuova bandiera della Libia.
Una strada piccola e bianca costeggiava la moschea; c’era una porta d’ebano: osservai la scrittura che si arrampicava fino in alto. Era socchiusa, i muri erano bianchi con rombi e triangoli. Sentii voci di bambini, entrai: erano sparsi in un cortile circondato da colonne di marmo; i piccoli occhi mi guardarono: erano tutti vestiti di bianco, risero e mi salutarono.
Al centro c’era un uomo seduto che piegò la testa in un gesto di benvenuto. Mi sedetti su una pietra, ascoltavo senza capire.
I bambini mi salutarono sbracciandosi, l’uomo anche mi salutò.
Mi ritrovai di nuovo al Caffè Casa.
“Italiano?”
Un uomo sui sessanta, cappellino rosso in testa con la visiera e un giubbotto di pelle, mi chiamò da un tavolo.
Salem fu il mio primo amico libico.
“Io sono stato in Italia per un anno. Cosa fai tu qui?”
“Insegno italiano”
“Bravo. Accomodati”
“Che cosa facevi in Italia?”
“Il dj” rise “e tante altre cose.”
Così conobbi Salem: negli anni Settanta aveva fatto il dj in Italia, in Inghilterra, aveva lavorato nei ristoranti e in vari locali di Londra, Parigi, Berlino. Era stato sulle navi da crociera e sui traghetti. Aveva il Parkinson, i baffi e se la rideva. Amava l’Italia. Poi si aggiunsero un uomo, libico, e una donna tedesca sui cinquanta, Marta.
“Anche lei è insegnante.” Marta insegnava tedesco all’Accademia libica di lingue, un’istituzione che promuoveva lo studio delle lingue occidentali in collaborazione con le ambasciate. Era a Tripoli già da prima della rivoluzione; era cambiato tutto e lei era rimasta. Vestita di nero, camicia, pantaloni, stivali, capelli biondi e grigi, i denti incagliati in bocca e gli occhi azzurri. Una bellezza svanita, finita a insegnare lì da chissà dove e chissà perché.
“Come si vive ora a Tripoli?” le chiesi.
“Come prima.” Tutti risero.
3.
Mi ricordai di aver letto un interessante reportage sulle Amazzoni; alcune di loro erano decisamente attraenti: con quell’aria truce sembravano, almeno nei telegiornali, degli angeli custodi del loro leader riccioluto.
Ci ritrovammo io e l’amazzone, due docenti uno di fronte all’altro costretti a fare i conti con la lingua italiana: per me opportunità di lavoro, per lei opportunità di affari.
Io ero il nuovo e lei il passato, riciclato ma rimasto fedelissimo al dittatore. Era l’occasione di conoscere una che con Gheddafi c’era stata probabilmente a tu per tu. Avevo di fronte i suoi muscoli sciupati e le sue labbra gonfie. Alta, con gli occhi grandi. Non portava il velo.
“Vuoi insegnare qui?” la voce di Nida era profonda e calma.
“Sono molto impegnato con l’università.”
“Mi basta un giorno a settimana, il tuo giorno libero.”
“Ci devo pensare.”
“O sì o no, devo saperlo subito, i corsi stanno per iniziare.”
Una delatrice che aveva mandato a morte della gente dichiarando il falso. Molti la avrebbero voluta vedere impiccata.
La mia vera curiosità però era cercare di sapere se e come avesse incontrato e conosciuto ed eventualmente … con Gheddafi; non era forse vero che lui prima di assumere le sue amazzoni se le scopava e poi le rendeva libere e ricche? E questo non ero io a dirlo, ma una giornalista americana autrice di un articolo apparso su “Internazionale”.
Lei, Nida, non voleva aspettare le decisioni di un italiano, perché a lei avevano detto che gli italiani erano dei bastardi che avevano ucciso almeno centomila libici. Gli italiani bisognava odiarli. Poi per lei gli italiani erano diventati un business; sfruttava la lingua per far soldi, cosa che in un certo senso facevo anch’io.
Lei mi disprezzava nello stesso modo in cui mi avrebbe disprezzato, giorno dopo giorno, la professoressa del Dipartimento. Qualche mese dopo pensai che si erano comportate con me in quel modo perché sapevano già che fine avrei fatto in Libia.
Nida era stata più furba delle altre, di quelle che erano scappate, come lui gli aveva detto di fare: con i riccioli ingelatinati lui pochi giorni prima di morire aveva urlato che dovevano andarsene via immediatamente se no le avrebbe uccise lui stesso una per una con la pistola, quella tutta d’oro. Ce l’aveva in mano la figlia maggiore che annuiva al suo fianco, la bellissima Ayesha Al-Gaddafi, la Claudia Schiffer del deserto. Erano rimaste vicino al loro capo, fino all’ultimo momento. Alcune le avevano uccise i ribelli e avevano riservato per i loro corpi una fossa, ci avevano piantato un palo e avevano appeso lì i loro indumenti intimi.
Nida invece si era nascosta, come un topo, con i suoi soldi arraffati con la calunnia, e aveva aspettato. Le avevano dato la caccia e dopo un po’ lei con il velo si era presentata dal capo della milizia più forte della zona e gli aveva dato un sacco di soldi. Ne aveva tanti e poteva pagare bene.
“Accetto se mi dai una risposta.”
“Che cosa vuoi sapere?” Si alzò e controllò che non ci fosse nessuno dietro la porta e nelle aule vicine.
“Che cosa mi vuoi chiedere?”
Nel suo sguardo c’era la fierezza di chi non vuole sentirsi inferiore all’uomo bianco. Lui, il Colonnello, le aveva insegnato questo. A non essere mai più le schiave dell’uomo bianco.
“Ma tu Gheddafi lo conoscevi di persona? No, non fraintendermi, è solo una curiosità ma … quello che voglio sapere, e scusa se vado sul personale, è se tu con Gheddafi hai avuto mai qualcosa di più intimo. Siete mai stati insieme, fisicamente intendo?”
Nida mi guardò seria e pensai che mi avrebbe sbattuto fuori. Invece rimase immobile, come se fosse stata ipnotizzata dai ricordi che le avevo suscitato. Chiuse gli occhi, sorrise per un secondo.
“Certo che l’ho conosciuto. Era un grande uomo, lui ci voleva bene, a tutte. Ci ha amato tutte, capisci? Per noi era come un padre, ha dato una vita a tutte noi. Voi lo avete ammazzato perché lui non ha mai obbedito a voi. Ma lui è buono.” Non aveva evidentemente nessun problema a confidarsi con uno sconosciuto, perché lei voleva parlare di lui; “Mi manca tanto, a tutti i libici manca.” Nida trattenne le lacrime. Poi sbarrò gli occhi e disse “Lui è vivo, guarda qui.”
Mi mostrò una foto sfocata che ritraeva un uomo di mezza età sorridente: non so chi fosse ma lei era convinta che fosse il Colonnello.
“Questa foto l’hanno scattata tre mesi fa, è vivo! È ancora bello” disse lei.
“Effettivamente ha ancora tutto il suo fascino, nonostante … ”
“Nonostante cosa?”
“Nonostante … nonostante l’età …”
“È diventato ancora più bello …”
“Ora dimmi, Nida, senza imbarazzo, come era a letto?”
4.
Agganciato
La vicedirettrice dell’Istituto Italiano di Cultura, il braccio “culturale” dell’Ambasciata, l’avevo conosciuta in università, era venuta per presentarsi. Daniela, sui sessanta, nervosa e veloce, aveva i capelli corti e aveva anche ben chiaro in testa cosa si potesse fare in quella specie di paese. Mi telefonò, mi disse che stava lottando contro migliaia di richieste per le borse di studio che l’Italia metteva a disposizione dei libici per studiare nel nostro paese. Mi invitava in ambasciata per farmi “conoscere un po’ di persone.”
Mi misi una camicia stirata, i pantaloni puliti e cercai di levare la sabbia dalle scarpe con la carta igienica.
L’ambasciata italiana distava poche centinaia di metri dal mio albergo. Entrai nello stesso cortile dove ci avrebbero radunati qualche giorno dopo. Daniela mi ricevette sorridendo, percorremmo un lungo corridoio, aprì la porta socchiusa di una stanza e mi presentò l’addetto alle relazioni culturali: indossava un completo elegante e sedeva a una scrivania senza nulla sopra se non un portatile. Quando mi vide si alzò e venne a stringermi la mano senza dire nulla; sembrava a disagio.
“Andiamo dall’ambasciatore, ci aspetta” disse Daniela. Attraversammo il corridoio, poi su per una scala curva che portava al piano nobile dell’ambasciata. Sul lato due porte chiuse e in fondo una grande sala.
Un uomo elegante e altissimo mi venne incontro.
“Sono lieto di conoscerla.”
“Anch’io.”
“Si accomodi.” Daniela era scomparsa.
“Grazie.”
“La devo ringraziare prima di tutto per essere qui.”
Non dissi nulla.
“Lei ha avuto coraggio a decidere di accettare l’incarico di docenza all’università di Tripoli. Mi creda, qui, anche se non sembra, siamo in guerra.” Iniziava bene forse si aspettava che dicessi ancora qualcosa, ma io me ne stavo zitto.
“Una guerra culturale, una guerra direi intellettuale, e anche lei ha un ruolo. Questo paese per progredire ha bisogno di cultura prima di tutto. Abbiamo previsto di promuovere una serie di eventi per sensibilizzare la borghesia libica. Il tutto nel rispetto delle tradizioni, della religione e della famiglia, che qui è fondamentale. I libici sono un popolo fiero, sensibile, che vuole avere buoni rapporti con l’Italia e noi dobbiamo assecondarli. Come sa c’è stato un attentato qualche tempo fa, una pericolosa stupidaggine di un gruppetto di balordi. Non li definirei neppure una cellula locale di Al Qaida. Balordi, esaltati. Del resto fanno una vita così noiosa. Ci sono pochi, solo pochissimi ignoranti pericolosi che si divertono a destabilizzare, ma non destabilizzano nessuno, mi creda. Ce ne saranno altri e noi potremmo essere gli obiettivi. Per quello ci servono occhi vigili …” Sorrise e mi fissò: “Intanto organizziamo un festival che ha come tema l’arte e la guerra, che ne dice?” senza aspettare la mia risposta riprese a parlare.
“Vede, gli inglesi e i francesi hanno un approccio diverso dal nostro, noi siamo, diciamo, più cauti … E poi abbiamo dalla nostra parte un valore che ci permetterà di primeggiare: sa qual è?” Non aspettò la risposta: “La simpatia!, noi italiani siamo simpatici, incredibilmente simpatici, soprattutto rispetto ai tedeschi e ai francesi, e anche agli inglesi, nonostante loro vadano fieri del loro humour. I libici apprezzano molto la nostra simpatia, adorano il nostro umorismo e cercano di imitarlo. In tutti i modi. Le racconto un episodio: prima della rivoluzione fui invitato a casa di un importante gerarca di regime che aveva una straordinaria tenuta tra Tripoli e Misurata. Il ricevimento era una pacchianata, poche donne e non parlavano con noi stranieri, lo può immaginare; qui hanno paura di diventare, me lo permetta, cornuti e quindi se le tengono strette. Dicevo, ero a casa di questo figuro, un vero buzzurro, abbronzato e pieno di anelli. Era così certo del suo potere che si permetteva qualsiasi tipo di battuta e di confidenza con i suoi ospiti, soprattutto con me. Era indecente. Durante la cena se ne era uscito con una frase del genere: ‘Gli uomini che mangiano la carne di maiale diventano meno gelosi’, qui in Libia un marito non geloso è un marito cornuto, come secondo loro sono tutti gli occidentali. Io non gli ho detto nulla, ho sorriso, cosa avrei potuto dire? Lei cosa avrebbe detto?”
L’ambasciatore aspettò una mia risposta per due o tre secondi; constatato il mio silenzio, proseguì: “Poi ad un certo punto mi dice che ha una sorpresa per me: sono entrati due uomini che erano assolutamente identici a Totò e Peppino, ma più scuri di carnagione, e hanno iniziato a recitare la scena in cui Totò e Peppino scrivono la lettera! Quella mitica scena in un italiano stentato. Come si chiama quel film? Non ricordo … comunque la somiglianza era stupefacente, ero allibito. Quel bifolco era riuscito a sorprendermi e da quel momento ho dovuto cambiare idea su di lui. Una cena di una noia mortale era diventata una piccola magia del cinema italiano. E in quel momento ho capito molto di questo paese, ho capito quale dovesse essere il nostro approccio. Lei è un uomo di cultura e sono certo che lo capirà. Perché noi contiamo su di lei, la diffusione della lingua è fondamentale. Cercheremo di insegnarla anche nelle scuole superiori, i francesi ci sono già riusciti. Intanto iniziamo dall’università, un passo alla volta. Noi siamo così, arriviamo tardi, ma quando arriviamo ….” — si mise a ridere, affondando una mano nella sua chioma.
“Dobbiamo fare tanto per questo popolo; è stato costretto all’ignoranza. I libici ora sono spaventati, hanno paura, temono di essere derubati. Stringono il loro Corano e non capiscono bene cosa gli convenga fare. I libici hanno vissuto nelle case troglodite, le vada a visitare, ci dorma dentro, vedrà che bel fresco” — mi accompagnò verso la porta.
“Ci metta tutta la pazienza che ha e, se non ce la fa più, sappia che avrà tutta la nostra comprensione. Ora la devo lasciare e mi rincresce. Avrei continuato a chiacchierare con lei ma una serie d’impegni inutili mi rovina ogni giorno. Un funzionario le spiegherà …”
Lo guardai con aria interrogativa, ma non ebbi il tempo di fare domande che lui mi stava già liquidando.
Mi strinse la mano e aspettò che io uscissi.
Superata la soglia dell’ambasciatore rimasi solo. Ebbi la sensazione di essere uscito da un concorso pubblico. Attraversai la sala e passai davanti a due porte. Una era aperta: c’era un uomo e mi fissava. Era lui!, l’uomo che mi aveva pedinato ed era fuggito. Con la mano mi indicò la sedia di fronte a lui.
Aveva un accenno di barba, il mento corto, i capelli schiacciati. La pancia era a punta e non aveva gli occhiali spessi che indossava quando mi aveva pedinato. Allungò la mano come per dire di non preoccuparmi.
“Si accomodi” — abbassò lo sguardo.
“Chi è lei? Perché mi ha pedinato?”
“Voglio prima di tutto congratularmi del suo incarico.”
“Veramente io non …”
“Non faccia il modesto, non serve. È come se avesse passato un esame con un ottimo voto. Per noi lei si merita una ricompensa ed è questa: le diamo l’opportunità di essere necessario, abbiamo bisogno di lei. Diciamo in una veste che direi occasionale, o fortuita, almeno per ora.” Precaria, pensai.
“Come avrà capito la situazione qui è molto difficile e non è semplice trovare persone pronte ad aiutare il nostro Paese. L’ho seguita per vedere come avrebbe reagito, ha reagito bene. Abbiamo bisogno di lei, professore — ah, mi scusi, la chiamo così anche se non è ancora un vero e proprio ‘professore’, almeno nel senso tecnico del termine. Può aiutare il suo Paese e quindi può accettare un piccolo incarico che io le offro, per conto del Ministero ovviamente. Niente di definitivo, non si preoccupi. Una collaborazione occasionale.” Non dissi niente.
“Lei è in contatto costante con una istituzione altamente sensibile come l’università. Un covo di lealisti che aspettano silenziosi di riprendersi quello che gli è stato tolto. E ci sono anche gli studenti, che hanno un ruolo chiave; lei è nella situazione giusta.”
“Sulla mia situazione avrei qualcosa da ridire …”
“Lei è bravo, lo sappiamo; è un impertinente, certo, ma solo per disperazione. Riuscirà benissimo nel compito che le stiamo affidando” sorrise.
“Posso rifiutarmi?” diventò subito serio.
“Vede, lei ha bisogno di me e io di lei. Conosciamo la sua situazione. Diciamo che in un certo senso l’abbiamo assecondata.”
Quell’uomo mi stava dicendo che io ero stato chiamato lì non solo per insegnare a dire bambino, casa e sedia? Mi avevano spedito in Libia per essere a disposizione degli affari del Ministero degli esteri?
Pensai che c’era anche lo zampino del professore italiano che mi aveva telefonato così cordialmente per propormi questo strano posto … ma forse neanche i servizi segreti si sarebbero fidati di un professore universitario italiano.
Propormi di “collaborare” con il Ministero degli esteri, diventare una pedina in un gioco che non conoscevo e che non suscitava in me alcuna curiosità mi sembrò ridicolo. Io ero pulito, insospettabile e quindi l’uomo giusto per penetrare spazi preclusi agli agenti di professione. Il mio margine di libertà poteva però ridursi drasticamente: lavorare con istituzioni decisamente ambigue e che si muovono nella segretezza poteva compromettere la mia facoltà di scelta. Affidare il proprio libero arbitrio a un’istituzione di natura storicamente cancerogena non mi sembrava una grande opportunità.
“Devo chiedere io una cosa a lei, signor … Signor? Posso chiederle come si chiama anche se mi dirà un nome falso?”
“No. Ora mi dica.”
“Chi è che devo cercare esattamente? Non vuole che accetti di fare qualcosa che non ho la minima idea di cosa sia …”
L’uomo rimase in silenzio, poi disse, con parole che non accettavano risposte:
“Sarà avvicinato da una delle sue studentesse, prevediamo che le chieda di fare qualcosa per lei, cioè aiutarla a rintracciare un cugino, è disperata, e lei dovrà accettare.”
“Chi cercate?”
“Quel che sappiamo è poco: è una specie di giornalista, una mina vagante e non sappiamo dove sia finito. L’hanno sequestrato, è l’ipotesi più probabile … la ragazza ci può portare sulle sue tracce, le chiederà aiuto. Lui si chiama Nader Omran” sembrava irritato dall’argomento, si alzò in piedi.
“Perché lo cercate?”
“A lei questo non deve interessare; è meglio che non lo sappia, per la sua incolumità. Lei deve continuare a fare il suo lavoro. Se accetta, e sono certo che lo farà, riceverà anche un compenso. Le farà comodo, vedrà, anche per la situazione del suo conto corrente, che definirei catastrofica.” Rimasi in silenzio: il mio debito con la banca e le telefonate della società di riscossione erano il mio contatto con la realtà e la sua violenza.
“In questo paese che, come lei certamente saprà, abbiamo inventato noi italiani rendendolo vagamente civile, la situazione è caotica e non è facile muoversi senza essere scoperti o, se preferisce, bruciati. Lei non desta sospetti, è un normale disoccupato della ricerca … e la ragazza che le chiederà aiuto è sola. Allora accetta?”
“Lei mi sta dicendo che io devo aiutare una ragazza che non conosco a cercare un giornalista che non conosco e che neppure voi conoscete, che hanno sequestrato persone probabilmente molto pericolose ma che non so assolutamente chi siano, e questo in un paese che non conosco … mi sembra assurdo, non fa per me, mi dispiace…” Era la cosa migliore da dire ma lui aveva previsto le mie parole: si avvicinò, accese una sigaretta:
“Lei che cosa ha?”
“Cosa intende?”
“Cosa ha nella sua vita?”
“Non mi piace questa domanda …”
“A lei non piace questa domanda perché la risposta è: nulla. Lei non ha nulla perché non ha costruito nulla.”
“Lei rischia di offendermi …”
“Ha una famiglia o una relazione di coppia?”
“Nessuna delle due.”
“Ha una casa di sua proprietà?”
“No.”
“Ha un lavoro stabile?”
“Non direi …”
“Ha degli amici che frequenta assiduamente o parenti che si preoccupano realmente di lei? Che la contattano per sapere che fine ha fatto?”
“Questi sono aspetti personali …”
“Ha ancora i genitori? O dei fratelli?”
“I miei genitori sono morti molti anni fa e non ho fratelli.”
“Ora può rispondermi con più esattezza: cosa ha lei?”
Rimasi in silenzio.
“Lei ha solo quello che sa e, visti i suoi successi accademici, non sembra che le abbia fruttato granché …”
“Mi sta dicendo che sono una persona senza una vera vita e questo lo ritengo offensivo, preferirei interrompere questa conversazione.”
“Esattamente, lei non ha una vita, lei non ha una vera e propria identità esistenziale, lei ha solo una identità intellettuale e fino ad ora non le è servita. Ma io le sto offrendo un’opportunità per iniziare a riempire la sua vita, per darle uno scopo, anche provvisorio, ma direi che, nella sua condizione, è meglio di niente. Allora accetta?”
Ero immobilizzato dalla disperazione, non riuscivo a controbattere; quell’uomo aveva ragione, ero una nullità e nascondevo questo a me stesso. Studiare non mi era servito a nulla, era stata una grossa scusa per non prendere la decisione di esistere veramente. Rimasi in silenzio, con lo sguardo a terra.
“Lei potrebbe anche indignarsi ora, per pochi secondi, tirare fuori le sue visioni sinistre e vorrebbe denunciare tutto questo a chissà chi … poi si renderà conto, forse si sta già rendendo conto, che le conviene accettare.” Alzai lo sguardo, la sua espressione era quasi di comprensione, il suo volto sembrava aver cambiato fisionomia. Continuò:
“Non deve soffrire per quello che le ho detto: le stiamo dando l’opportunità di dare un senso alla sua intelligenza, vogliamo metterla a frutto per una causa giusta …”
“Quale sarebbe questa causa?” chiesi con la voce bassa.
“Salvare la vita di un giovane che sta lottando per la libertà; e noi vogliamo difendere la libertà e, mi creda, siamo rimasti in pochi a volerlo fare … le basta?”
“Accetto.”
“Bene.” La sua espressione cambiò di nuovo, il mento sembrò improvvisamente più sporgente, la voce tornò fredda e acuta. “Parlare con qualcuno di questa proposta è un rischio. Se preferisce posso dirglielo più tradizionalmente, anche se suona un po’ comico: ‘Questa conversazione non ha mai avuto luogo.’ Ha sentito? Non è un po’ ridicolo così?”
Andò verso la porta, sulla soglia si voltò e disse: “Non provi in nessun modo a contattarci, ci faremo vivi noi. Sappiamo che lei è una persona cauta e che non si metterebbe mai in situazioni incresciose, ma è bene che glielo ricordi: i libici non perdonano chi oltraggia le loro donne e la loro religione.”
5.
Mi chiamò Tarik.
“Scendi professore, oggi ti porto alla casa del Dittatore. Sono sotto il tuo albergo tra tre minuti.”
A casa del “grande dittatore”, il Colonnello. Ci ero passato vicino solo una volta e me l’aveva indicata un tassista. La cinta muraria era completamente demolita dai colpi dei carri armati.
Costeggiammo un tratto di muro, entrammo in un varco. Un parco abbandonato, con grandi olmi e sterpaglia.
“Sei chilometri per sei chilometri, al centro c’è la villa.”
Passammo vicino a piccole case basse, con i muri verdi e la piscina.
“Erano per i suoi guardiani, i suoi amici, le sue donne.”
“Chi ci abita ora?”
“Non so.”
“Tarik, perché mi hai portato qui?”
“Hai paura? Non fare il pauroso, facciamo turismo” si mise a ridere. Io quando mi chiamava ‘pauroso’ mi incazzavo un po’. Volevo dirgli: ‘io non ho paura. Altrimenti non sarei qui’. Ma non era vero, io ero lì e avevo paura lo stesso.
Eravamo su una strada sterrata in mezzo a qualche albero rinsecchito; vidi un oggetto in aria.
“Ho visto qualcosa.”
“Che cosa?”
“Non lo so.”
Tarik rallentò, c’erano dei cespugli davanti a noi che interrompevano la strada.
Dieci uomini che giocavano a calcio, al posto dei pali c’erano dei kalashnikov incastrati tra le pietre, quattro pick-up tutti armati di antiaerea, e sul fianco di uno c’erano poggiati altri fucili e due mitragliatori.
Su un pick-up c’era un coso montato sopra che sparava trenta piccoli missili in un colpo solo e poteva polverizzare una casa.
Tarik non era solo un integralista buono ma anche un integrale coglione: stava mettendo a repentaglio la mia vita, quella di un praticante docenza e informatore a tempo perso, di cui non fregava un cazzo a nessuno. Chiesi a Tarik “Ci decapiteranno?”
Giocavano a calcio e dal campo si sollevava terra e sabbia. Ci videro e interruppero la partita. Una squadra era formata da soldati con divise grigie mimetiche; gli avversari indossavano il vestaglione color beige e avevano tutti la barba senza baffi. Un paio di uomini in divisa fecero qualche passo verso i fucili che erano appoggiati al pick-up più vicino, poi si fermarono. Uno che sembrava il capo venne verso di noi e ci guardò. Tarik gli disse che io ero un professore di italiano. Ma lui indicò il campo.
“Dobbiamo giocare” mi disse Tarik.
“Io non paro.”
“Nemmeno io.”
Ero stato scelto dalla squadra della milizia in grigio, visibilmente più malandata; contro di me c’erano i barbuti, il jihad. Loro sembravano contenti di avermi come avversario.
La mia squadra era più debole, confusionaria, ma i ragazzi erano abbastanza agili e la maggior parte aveva un piede decente. Non pensavo che fosse diffuso il gioco del calcio nelle milizie irregolari con gradazioni diverse di islamismo radicale.
Alla mia squadra mancava il progetto di gioco, si vedeva subito. La difesa era scomposta. Così in pochi minuti ero diventato il fuoriclasse. Giocavo forte.
I miei avversari avevano invece un gioco timido, ma ordinato e più efficace del nostro. Riuscivano a portare il pallone in attacco grazie anche a Tarik, che si dava da fare sudando da solo più di tutta la sua squadra. I cadetti della milizia islamista (di ispirazione wahabita) si scambiarono frasi tra i denti e fecero qualche volta no con la testa dopo aver osservato le mie stupefacenti prove di attaccante. Fui io a fare il primo goal con un triangolo a culo.
Un capolavoro, la palla finì su alcuni fucili ammassati, i nemici mi fissarono. Abbracciai il mio compagno di squadra che mi guardò perplesso accennando un sorriso, poi arrivarono gli altri ragazzi a darmi la mano. Uno a zero, barbuti del cazzo.
Ma Salafiyya sapeva aspettare, sapeva aspettare che il nemico finisse di godere di una vittoria superficiale, di un atto di forza che non modificava niente di importante. Aspettare il momento di attaccare, quando il nemico infedele aveva già bombardato ed era più debole.
Con un’azione dalla fascia e un cross dell’ala, la punta alzò la gamba e ficcò dentro la palla dell’uno a uno. Fissai l’autore di quel bel goal, perché era decisamente un bel goal.
Si guardarono tra di loro sorridendo appena e si scambiarono una parola. Solo Tarik esultò.
Volevano godersi il mio sguardo incazzato e il loro trionfo sul piccolo satana senza capelli che avevano traumatizzato con un uno a uno.
Tutto da rifare.
Mi lanciai in una, poi due, poi tre azioni solitarie con qualche protesta dei miei compagni. Per riprendere palla puntai il più gracile dei miei avversari ed entrai a gamba tesa bloccandolo.
Si rotolò a terra con una smorfia di dolore ma senza urlare. Tutti muti, anche io. Tarik si avvicinò a me.
Quello che avevo colpito si alzò e andò verso il pick-up zoppicando. Tirò fuori una bottiglietta d’acqua e se la versò un po’ sulla tibia.
Ripresi ad aggredire il nemico. Senza pietà entrai in area di rigore, due barbuti si lanciarono sulla mia gamba, li saltai a destra, caricai il tiro e un colpo finì sul lanciamissili del pick-up: goooooaaaaalll!
M’inginocchiai. Sollevai le mani al cielo, chiusi gli occhi e ruotai la mano aperta all’altezza dell’orecchio.
Nessuno che mi saltasse addosso per festeggiare. Quando aprii gli occhi i miei compagni sorridevano tutti intorno a me, pensando plausibilmente: “che coglione italiano …”
Palla al centro, dopo un paio di azioni vidi la palla che rotolava fuori dal campo, poi esplose.
Un uomo con una pistola metallizzata in mano venne verso di noi. Era molto alto, con una barba lunga e grigia. Senza baffi. Guardava me. Aveva fatto esplodere lui il pallone. I ragazzi della squadra in pigiama si raccolsero in cerchio e abbassarono lo sguardo. Anche i miei compagni di squadra lo guardavano ma senza sottomissione; si erano stretti intorno a me, come per proteggermi, perché lui stava guardando me.
Tarik si accostò e mi porse la mano per sollevarmi. L’uomo puntò lo sguardo sui suoi miliziani barbuti, era il loro capo: uscirono dal campo, andarono a prendere i loro fucili in silenzio. Piantato di fronte a me e a Tarik il capo rimase dieci secondi a osservarci. Poteva essere tranquillamente il cugino di Bin Laden. Tarik non parlava e questo era preoccupante. Aspettava che parlasse prima lui. Ma lui non parlava. Allora Tarik gli spiegò, forse, che noi eravamo in giro lì per sbaglio. L’uomo mi guardò, disse una frase a Tarik e se ne andò verso i suoi uomini.
“Adesso è meglio che andiamo.”
“Chi è quello?”
“Te lo spiego dopo, andiamo.”
I miliziani ci salutarono e mi strinsero la mano per complimentarsi del mio goal che era stato un gran goal, indubbiamente. Quelli con la barba mi guardavano come per salutarmi con gli occhi.
Ebbi l’impressione che avessero voglia di giocare ancora.
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