di Michele Sisto
[E’ appena uscito per Quodlibet, nella collana Quodlibet Studio. Letteratura tradotta in Italia, il libro di Michele Sisto intitolato Traiettorie. Studi sulla letteratura tradotta in Italia. Ne presentiamo l’introduzione].
1. Letteratura tradotta e storia letteraria nazionale
La storia della letteratura italiana – come le altre storiografie letterarie nazionali – assume come proprio oggetto d’indagine un corpus selezionato di testi prodotti sul territorio italiano da autori italiani in lingua italiana. Non prende invece in considerazione un altro corpus molto vasto, anch’esso in lingua italiana: la letteratura tradotta. Le ragioni sono note: le discipline che studiano la letteratura italiana si sono costituite durante le lotte risorgimentali per l’unità nazionale sulla base di criteri di inclusione legati a quell’orizzonte storico (si pensi alla questione della lingua, o a quella della formazione della coscienza civile del paese), a cominciare proprio dalla distinzione fra letteratura italiana e letterature straniere. Le integrazioni proposte nel corso del Novecento non hanno di fatto messo in discussione l’assiologia fissata nel 1870-71 dalla Storia della letteratura italiana di Francesco De Sanctis[1].
Della letteratura tradotta si fanno carico in genere altre discipline, per lo più da prospettive oblique: le singole storiografie letterarie indagano la ricezione all’estero soltanto degli autori e testi inclusi nel corpus della rispettiva letteratura nazionale, e soltanto come appendice alla narrazione dominante della loro vicenda in patria; i translation studies tendono a isolare le traduzioni come oggetto specifico, separandole dalle produzioni originali sia della letteratura di partenza sia di quella di arrivo; la comparatistica, che tematizza esplicitamente la world literature, la considera generalmente come un sistema unitario, senza tenere conto dell’effettivo ruolo dei circuiti nazionali nella circolazione transnazionale della letteratura; e così via[2]. Il risultato è che l’enorme corpus della letteratura tradotta non ha cittadinanza in nessun territorio di studi: nell’attuale divisione disciplinare del lavoro le traduzioni del Don Chisciotte, del Faust o della Ricerca del tempo perduto sono d’interesse del tutto periferico per l’ispanistica, la germanistica e la francesistica, e pressoché ignorate dall’italianistica.
La proposta teorica di cui ho provato a saggiare la produttività in questo libro – e più ampiamente con il progetto di ricerca LTit – Letteratura tradotta in Italia – è che sia possibile, anzi auspicabile, studiare la letteratura tradotta come parte integrante del corpus della letteratura d’arrivo, in questo caso di quella italiana. Non è una proposta originale. Già nel 1978 Itamar Even-Zohar in The Position of Translated Literature within the Literary Polysystem osservava:
As a rule, histories of literatures mention translations when there is no way to avoid them, when dealing with the Middle Ages or the Renaissance, for instance. One might of course find sporadic references to individual literary translations in various other periods, but they are seldom incorporated into the historical account in any coherent way. As a consequence, one hardly gets any idea whatsoever of the function of translated literature for a literature as a whole or of its position within that literature. Moreover, there is no awareness of the possible existence of translated literature as a particular literary system. The prevailing concept is rather that of “translation” or just “translated works” treated on an individual basis. Is there any basis for a different assumption, that is for considering translated literature as a system? Is there the same sort of cultural and verbal network of relations within what seems to be an arbitrary group of translated texts as the one we willingly hypothesize for original literature?[3]
Raccogliendo questa provocazione in una prospettiva storico-letteraria possiamo immaginare che, nel volgere di una generazione o due, si riescano a produrre manuali di letteratura italiana che includano tanto le opere autoctone quanto le principali opere della letteratura mondiale. Non solo: che queste opere vi vengano trattate non nella cornice di generici movimenti culturali internazionali, come ora in genere avviene, ma individuando quelle particolari traduzioni, o più precisamente quelle operazioni culturali, che di fatto le hanno introdotte nella nostra cultura (magari a distanza di decenni, o perfino di secoli, dalla loro comparsa nella cultura d’origine) e che poi ve le hanno mantenute, producendo e riproducendo incessantemente un repertorio.
Indagare sistematicamente quali autori e quali testi sono stati “importati” nel sistema letterario italiano, chiedendosi perché e da chi, ricostruire come sono stati letti, da chi, quale riconoscimento hanno ottenuto, e presso quali gruppi letterari, analizzare le traduzioni, le riscritture, i rifacimenti, e i rapporti reciproci fra questi e la produzione autoctona, significa addentrarsi in un campo di ricerche vastissimo e ancora in larga parte inesplorato. Da una parte tale allargamento del campo d’indagine produrrebbe un vero e proprio terremoto per le discipline italianistiche, che si troverebbero a misurarsi con decine di migliaia di nuovi testi, tradotti dalle più diverse letterature, da Omero a Bob Dylan, passando per Harry Potter; d’altra parte, per contro, costituirebbe un notevole progresso epistemologico, con ampie ripercussioni sia sul piano più strettamente disciplinare (attraverso l’esplorazione di un terreno di ricerca comune tanto alle discipline letterarie nazionali quanto alla comparatistica, ai translation studies, ecc.), sia su quello più latamente politico (penso alla necessità di costruire una cultura moderna allo stesso tempo locale e globale, all’altezza dei problemi posti dalla progressiva integrazione europea e mondiale).
Prima ancora di invocare la teoria – come sarà necessario fare nel prossimo paragrafo – è l’esperienza stessa a dirci che ciò che la “ragion scolastica”, con la sua divisione del lavoro disciplinare, ha separato, è in realtà parte di un processo di produzione unitario: in libreria come in biblioteca, letteratura italiana e letteratura tradotta stanno insieme, non solo nella stessa lingua, ma sotto gli stessi marchi editoriali, nelle stesse collane, spesso accomunate dagli stessi nomi. A selezionare le opere da tradurre sono letterati italiani (da Prezzolini a Calasso), che operano in case editrici italiane (da Carabba a E/O); a eseguire le traduzioni sono traduttori italiani (da Alberto Spaini a Martina Testa), spesso legati a gruppi letterari italiani (dalla «Voce» alla «minima & moralia»); e a interpretarle sono critici italiani (da Croce a Ceserani), sulla base di categorie di lettura italiane, o italianizzate (dall’“intuizione lirica” al “postmodernismo”).
Il prodotto di questo enorme lavoro collettivo – materiale e simbolico – costituisce, a mio modo di vedere, il principale anello di congiunzione fra la letteratura italiana e la letteratura mondiale, che propongo di immaginare non più come un repertorio unico e condiviso, ma come una pluralità di repertori, ciascuno progressivamente costruito nell’ambito di una diversa cultura: una world literature italiana, una world literature francese, una world literature cinese, e così via. Repertori diversi e solo parzialmente sovrapponibili, che tuttavia rappresentano la concreta manifestazione storica della letteratura mondiale nel qui e ora di ciascuna cultura nazionale. Oltre a rendere giustizia sia all’universalismo del fatto letterario sia alla specificità delle singole culture letterarie, consentendo un confronto e un dialogo scientificamente alla pari fra letterature cosiddette maggiori e minori (non è affatto detto che le letterature maggiori abbiano un repertorio della letteratura tradotta più ricco di quello delle letterature minori), questo modello sarebbe agevolmente esportabile, così che alla ricostruzione di una “storia italiana della letteratura mondiale” potrebbero seguire analoghe indagini sulla “storia tedesca della letteratura mondiale”, sulla “storia giapponese della letteratura mondiale”, ecc., fino a comporre il mosaico di una world literature allo stesso tempo unitaria e plurale.
2. Traiettorie: una proposta di metodo
Il presupposto per un tale cambiamento di sguardo è il lavoro teorico fatto dai translation studies e dalla sociologia della letteratura negli ultimi quarant’anni. Even-Zohar è stato il primo a suggerire di pensare le traduzioni non come oggetti singoli ma come un sistema, proponendo il concetto di “letteratura tradotta” e chiedendosi che cosa accomuni l’insieme delle opere tradotte in una certa letteratura d’arrivo:
What kind of relations might there be among translated works, which are presented as completed facts, imported from other literatures, detached from their home contexts and consequently neutralized from the point of view of center-and-periphery struggles? My argument is that translated works do correlate in at least two ways: (a) in the way their source texts are selected by the target literature, the principles of selection never being uncorrelatable with the home co-systems of the target literature (to put it in the most cautious way); and (b) in the way they adopt specific norms, behaviors, and policies – in short, in their use of the literary repertoire – which results from their relations with the other home co-systems. These are not confined to the linguistic level only, but are manifest on any selection level as well. Thus, translated literature may possess a repertoire of its own, which to a certain extent could even be exclusive to it[4].
Per pensare la letteratura tradotta come un sistema, dunque, occorre prendere in considerazione in primo luogo il modo in cui i testi da tradurre vengono selezionati: i principi di questa selezione, osserva Even-Zohar, sono comuni a tutte le traduzioni, e, a ben vedere, sono comuni anche alla produzione autoctona. Questo lo porta ad affermare che la letteratura tradotta non solo può essere considerata un sistema, ma che questo sistema è parte integrante del polisistema letterario d’arrivo, ovvero, parafrasando il suo gergo, che la letteratura tradotta è parte integrante di ogni letteratura nazionale[5].
Gli studi di Pierre Bourdieu consentono di fare un salto dalle produttive astrazioni strutturaliste della teoria dei polisistemi, basata dichiaratamente su una lettura materialista dei cosiddetti formalisti russi, alla prospettiva più storicizzante e individuante della sociologia. I protagonisti in scena non sono più i “testi di partenza”, la “letteratura d’arrivo” o dei “principi di selezione”, ma “attori” contraddistinti da particolari “habitus” che agiscono secondo “logiche specifiche” in un certo “campo”. Il concetto stesso di traduzione, che già Even-Zohar intende, ben al di là del mero aspetto linguistico-testuale, come fenomeno sistemico, si specifica in una “serie di operazioni sociali”, di sélection, marquage e lecture. In una seminale conferenza del 1990, Les conditions sociales de la circulation internationale des idées, Bourdieu ne fornisce una descrizione articolata che in sé equivale a un vero e proprio programma di ricerca:
Insomma, il senso e la funzione di un’opera straniera è determinato tanto dal campo di ricezione quanto da quello d’origine. In primo luogo, perché il senso e la funzione nel campo originario sono spesso completamente ignorate. Ma anche perché il transfert da un campo nazionale a un altro si fa attraverso una serie di operazioni sociali: un’operazione di selezione [sélection] (che cosa si traduce? che cosa si pubblica? chi traduce? chi pubblica?); un’operazione di «marcatura» [marquage] (di un prodotto preventivamente dégriffé) attraverso la casa editrice, la collezione, il traduttore e il prefatore (che presenta l’opera appropriandosene e unendola alla propria visione e, in ogni caso, a una problematica inscritta nel campo di ricezione e che, solo molto raramente, fa un lavoro di ricostruzione del campo d’origine, in primo luogo perché è troppo difficile); un’operazione di lettura [lecture] infine, poiché i lettori applicano all’opera delle categorie di percezione e delle problematiche che sono il prodotto di un campo di produzione differente[6].
Questo modo di impostare il problema consente di tenere insieme la prospettiva strutturalista di Even-Zohar – che cos’è, in fondo, il concetto di “campo” se non una versione sociologica, e dunque più duttile e materialistica, di quello di “sistema”? – con una più marcata attenzione al ruolo attivo di individui e strutture nella produzione di letteratura in generale e della letteratura tradotta in particolare. Bourdieu pone le basi di quella che chiama “scienza delle opere” in Les Règles de l’art: genèse et structure du champ littérarie, un tentativo allo stesso tempo radicale e raffinatissimo di rispondere con gli strumenti della sociologia alla domanda: che cos’è la letteratura? Non è questa la sede per ripercorrerne le linee: a oltre dieci anni dalla traduzione italiana del volume, credo sia possibile darle come acquisite[7]. Tuttavia per la comprensione delle pagine che seguono è indispensabile richiamare la cornice concettuale con cui Bourdieu, e gli studiosi che si rifanno al suo lavoro, spiegano la produzione di letteratura tradotta[8].
Per comprendere la produzione letteraria occorre, secondo Bourdieu, considerarla non come l’attività creativa di singoli individui né come un insieme unitario e coeso, bensì come un campo di forze, spazialmente e temporalmente differenziato, in cui attori (scrittori, critici, traduttori, ecc.) e strutture (case editrici, collane, riviste, accademie, premi, ecc.) sono posizionati (sulla base delle loro proprietà specifiche: capitale economico, capitale simbolico, capitale politico, età, genere, ecc.) e prendono posizione (sulla base di strategie più o meno consapevoli: scrivere un romanzo piuttosto che una raccolta di poesie, un manifesto letterario piuttosto che un giallo, ecc.). Dal punto di vista spaziale, l’opposizione principale, vigente (almeno in Francia) dalla seconda metà dell’Ottocento, è quella tra un polo di produzione di massa, dove domina la logica del mercato e si produce letteratura “commerciale”, e un polo di produzione ristretta, dove prevale la logica specifica dell’arte e si produce letteratura “d’avanguardia” (ritroviamo la stessa opposizione anche in altri campi artistici, declinata come teatro di cassetta vs. teatro di regia, blockbusters vs. cinema d’autore, musica mainstream vs. musica underground o indie). Dal punto di vista temporale, la principale opposizione è invece quella tra dominanti (già consacrati dal mercato o dall’avanguardia), che rappresentano l’ortodossia (ovvero i modi riconosciuti e legittimati di fare letteratura), e dominati (in genere nuovi entranti nel campo di produzione di massa o in quello di produzione ristretta), che non potendo competere con i dominanti sul piano dell’ortodossia sono più disposti a puntare sull’eterodossia (ovvero su nuovi modi, ancora inediti, di intendere la letteratura, e di praticarla). Per questo
l’iniziativa del mutamento spetta quasi per definizione ai nuovi entranti, ossia ai più giovani, che sono i più sprovvisti di capitale specifico, e che, in un universo dove per esistere occorre essere differenti, vale a dire occupare una posizione distinta e distintiva, esistono nella misura in cui, senza aver bisogno di volerlo, essi pervengono ad affermare la loro identità, ovvero la loro diversità, a farla conoscere e riconoscere (“farsi un nome”), imponendo modi di pensare e di esprimersi nuovi, in rottura con i modi di pensare in vigore[9].
Una strategia efficace per “farsi un nome” è organizzarsi in un’“avanguardia”, termine con cui Bourdieu non indica le cosiddette “avanguardie storiche”, vale a dire i movimenti per lo più primonovecenteschi dediti al radicale programmatico rinnovamento di forme e linguaggi, bensì ogni alleanza strategica tra nuovi entranti, a prescindere dalla poetica di cui si fanno interpreti: sono questi pretendenti ad avere l’interesse a produrre non solo nuove poetiche, ma anche nuove riviste, case editrici, collane, teatri, circoli, ecc. Si genera, quindi, una dinamica per cui una nuova avanguardia che aspira al riconoscimento si oppone non solo al mercato e alle avanguardie concorrenti, ma anche alle vecchie avanguardie che hanno ormai raggiunto la consacrazione e detengono il potere di definire ciò che è letterariamente legittimo attraverso le strutture da loro controllate o egemonizzate.
In questo campo di tensioni – che è possibile differenziare ulteriormente – nessun attore o struttura ha una posizione stabile, anzi, per garantirsi il riconoscimento (del mercato o dei pari), deve continuamente “prendere posizione”, pubblicando una nuova opera, inaugurando una nuova rivista o collaborando con una casa editrice (va da sé che, in questa logica integralmente relazionale, anche il non prendere posizione costituisce a sua volta una presa di posizione). Tradurre un’opera straniera, ovvero selezionarla, trasferirla in lingua italiana, collocarla in una collana, apporvi il proprio marchio, scrivere una prefazione, proporne un’interpretazione non è che una pratica fra le altre per prendere posizione nel campo.
Se il funzionamento del campo di produzione di massa è facilmente spiegabile sulla base della logica del mercato (vendere libri per fare profitti), dello Stato (si pensi all’istituzione scolastica, col suo enorme indotto), della politica (fare libri per la nostra causa o contro quella altrui) o della religione (fare libri per la nostra fede o contro quella altrui)[10], più difficile è dar conto delle dinamiche che informano il campo di produzione ristretta, dove i libri – e le traduzioni – si fanno secondo la logica “specifica” della letteratura, sulla base di interessi “specifici” che rispondono a una “illusio” condivisa, vale a dire alla credenza nelle regole del gioco letterario vigenti in un dato luogo e in un dato momento.
Un campo si definisce […] definendo poste in gioco e interessi specifici, che sono irriducibili alle poste e agli interessi propri ad altri campi (un filosofo è indifferente a questioni che per un geografo sono invece essenziali) e che non sono percepiti da chi non è costruito per entrare in quel campo. Ogni categoria di interessi implica l’indifferenza ad altri interessi, altri investimenti, votati così a essere percepiti come assurdi, insensati, o sublimi, disinteressati. Perché un campo funzioni, bisogna che ci siano poste in gioco e persone disposte a giocare, dotate dell’habitus che è necessario per conoscere e riconoscere le leggi immanenti del gioco, le sue poste, ecc.[11]
È a questa zona particolare del campo letterario che prevalentemente si rivolge l’interesse di Bourdieu, così come il mio. Più che le traduzioni commerciali mi preme infatti studiare quelle, spesso decisive per la consacrazione di una certa opera, realizzate nel campo (o sottocampo) di produzione ristretta, dove si concentra anche la produzione del valore letterario. È qui che si generano quegli interessi che Bourdieu definisce “specifici”, in quanto legati a un certo campo (o sottocampo) e apparentemente insensati al di fuori di esso, che possono, nel caso del campo letterario, indurre attori e strutture ad attribuire valore al fatto di tradurre un certo autore o una certa opera:
Ogni campo produce la propria forma specifica di illusio, nel senso di coinvolgimento nel gioco che sottrae gli agenti all’indifferenza e li spinge e li dispone a operare le distinzioni pertinenti dal punto di vista della logica del campo, a distinguere ciò che è importante (ciò che “m’importa”, interest, in opposizione a quel che “per me è uguale”, in-differente)[12].
Di tutte le questioni poste dalla scienza delle opere, questa continua a sembrarmi la più misteriosa e feconda:
Il produttore del valore dell’opera d’arte non è l’artista ma il campo di produzione in quanto universo di credenza che produce il valore dell’opera d’arte come feticcio producendo la credenza nel potere creatore dell’artista. Dato che l’opera d’arte esiste in quanto oggetto simbolico dotato di valore solo se è conosciuta e riconosciuta, ovvero socialmente istituita come opera d’arte da spettatori dotati della disposizione e della competenza estetica necessaria per conoscerla e riconoscerla in quanto tale, la scienza delle opere ha per oggetto non soltanto la produzione materiale dell’opera ma anche la produzione del valore dell’opera o, il che è lo stesso, della credenza nel valore dell’opera.
Essa deve dunque prendere in considerazione non solo i produttori diretti dell’opera d’arte nella sua materialità (artista, scrittore ecc.), ma anche l’insieme degli agenti e delle istituzioni che partecipano alla produzione del valore dell’arte in generale e nel valore distintivo di questa o quell’opera d’arte (critici, storici dell’arte, editori, direttori di gallerie, mercanti d’arte, direttori di museo, mecenati, collezionisti, membri di comitati di consacrazione, accademie, salons, giurie ecc.) […][13].
È solo grazie a questa «immensa impresa di alchimia simbolica»[14] che un’opera tradotta può entrare stabilmente nel repertorio di una letteratura nazionale. Per questo motivo ho concentrato le mie ricerche soprattutto sull’editoria, che costituisce una delle principali valvole di comunicazione tra la world literature e le singole letterature nazionali, dal momento che «ha il potere assolutamente straordinario di garantire la pubblicazione, vale a dire di far accedere un testo e un autore all’esistenza pubblica (Öffentlichkeit), conosciuta e riconosciuta»[15].
In quasi quindici anni di ricerche sulla traduzione mi sono convinto che questo sia il dato essenziale a partire dal quale impostare ogni studio. Non c’è alcuna necessità che un testo letterario venga tradotto, nessun automatismo: viene tradotto solo ciò che un attore o un gruppo di attori, in un certo momento, ha interesse a tradurre[16]; ogni discorso sul “ritardo” o sulla “assenza” di certe traduzioni è il prodotto dell’illusione scolastica, ovvero della presunzione, propria di una comunità assi ristretta, che un determinato testo debba essere tradotto. Oltre il 99% della letteratura prodotta all’estero non viene tradotto: se questa è la regola, allora ogni traduzione effettivamente realizzata va considerata come un’eccezione. E per spiegare queste eccezioni, i cataloghi e gli archivi delle case editrici (e delle riviste) sono una fonte preziosissima.
Insieme alla sélection va però studiato il marquage, perché «il lavoro di fabbricazione materiale non è nulla senza il lavoro di produzione del valore dell’oggetto fabbricato»[17], senza la sua consacrazione. L’editore «è inscindibilmente colui che sfrutta il lavoro dell’artista commercializzandone i prodotti e colui che, immettendolo nel mercato dei beni simbolici […] assicura al prodotto della fabbricazione artistica una consacrazione tanto più autorevole quanto più è consacrato egli stesso»[18]. Le prese di posizione degli editori contribuiscono dunque, insieme a quelle di scrittori, critici, gruppi e altri attori e istituzioni, a far avanzare le lancette del tempo letterario, vale a dire a mutare lo stato e la problematica del campo[19]. Per questo, concentrando l’analisi sui nuovi entranti nel campo editoriale, e in particolare nel campo delle traduzioni, in un dato momento storico abbiamo buone probabilità di cogliere l’origine di una trasformazione sia del sistema della letteratura tradotta, sia del campo letterario nel suo insieme.
Assai consapevole di avere un ruolo centrale nella modificazione del campo o sistema è il letterato-editore[20], la figura che fa da principale anello di congiunzione tra il polo autonomo del campo letterario, dove si generano le poetiche e i canoni, e il campo editoriale, dove viene concretamente modificato il repertorio dei testi disponibili. Sul risvolto dei volumi della collana corona, da lui diretta tra il 1939 e il 1943, Elio Vittorini scrive: «Ad ogni epoca la cultura cambia aspetto; continuamente rigetta opere che un tempo aveva magari venerato, e accoglie creazioni nuove, riscopre testi che aveva trascurato, esige che antichi o recenti capolavori stranieri vengano ritradotti»[21]; e, riferendosi al suo lavoro editoriale, negli anni sessanta Italo Calvino afferma: «Sono uno che lavora (oltre che ai propri libri) a far sì che la cultura del suo tempo abbia un volto piuttosto che un altro»[22].
È questo l’orizzonte a cui mi sono maggiormente interessato: non tanto al “corpus” della letteratura tradotta, che comprende la totalità dei testi letterari tradotti in italiano, né al “canone” della letteratura tradotta, che ne è il sottoinsieme più selezionato, destinato all’insegnamento scolastico, quanto piuttosto al “repertorio” della letteratura tradotta. Even-Zohar usa il termine repertorio (repertoire) per indicare l’«insieme di leggi ed elementi (singoli, collegati o modelli complessivi) che governa la produzione di testi»[23]. Da questa definizione ampia (e a mio parere assai produttiva) ne ho ritagliata una più ristretta, limitata – sulla scorta dell’accezione che questo termine ha nel mondo teatrale e musicale – a quelle opere che entrano a far parte del ristretto insieme riconosciuto come esemplare presso una certa cerchia di attori. Come il campo letterario, infatti, anche il repertorio è spazialmente e temporalmente differenziato: c’è un repertorio del campo di produzione di massa (i bestseller), e c’è un repertorio del campo di produzione ristretta, che non di rado interferisce con il primo ed è a sua volta articolato in un repertorio dei dominanti ortodossi e un repertorio dei dominati eterodossi, i quali come si è detto hanno più di tutti interesse a sovvertire il vecchio volto della cultura con uno nuovo. Potremmo anzi dire che ogni avanguardia ha il suo repertorio (dalla cui stratificazione si distilla, nel tempo, quello che chiamiamo canone).
Il concetto di “traiettoria”, che ho tratto ancora una volta da Bourdieu, mi è sembrato particolarmente efficace per sintetizzare in una sola parola tutto questo, dando evidenza alla dimensione relazionale di ogni operazione traduttiva, e suggerendo di tenere insieme, in ogni ricerca, il particolare e il generale, l’individuale e il sistemico: non si può infatti ricostruire una traiettoria senza considerare lo spazio sociale in cui essa si produce, vale a dire il campo. Alla lettera, «la traiettoria sociale si definisce come la serie delle posizioni successivamente occupate da uno stesso agente o da uno stesso gruppo di agenti in spazi successivi: è in rapporto agli stati corrispondenti della struttura del campo che si determinano in ogni momento il significato e il valore sociale degli eventi biografici, intesi come posizionamenti e spostamenti in tale spazio»[24]. Secondo Bourdieu,
tentare di comprendere una carriera o una vita come una serie unica e autosufficiente di avvenimenti successivi senz’altro legame che l’associazione a un “soggetto”, la cui costanza è forse solo quella di un nome proprio socialmente riconosciuto, è quasi altrettanto assurdo che tentare di dar conto di un tragitto nella metropolitana senza prendere in considerazione la struttura della rete, cioè la matrice delle relazioni oggettive tra le diverse stazioni[25].
Lo stesso vale, a mio parere, per la serie delle traduzioni di uno stesso autore, o di una stessa opera. Nelle mie ricerche ho dunque interpretato il concetto di traiettoria in senso estensivo, applicandolo anche alle opere: non solo, infatti, i mediatori prendono posizione traducendo, ma ciascuna traduzione, e perfino ciascuna edizione (intesa come la ripubblicazione della stessa traduzione presso una nuova casa editrice, in una nuova collana o con una nuova prefazione), costituisce un nuovo posizionamento di quell’opera nel repertorio[26]. Si può dire, anzi, che la scommessa di questo libro sia nel tentativo di studiare ciascuna traduzione come una presa di posizione, lasciando intravedere, almeno sullo sfondo[27], la presenza e il ruolo delle tensioni del campo.
3. Sette questioni, sette studi
Questo volume rielabora una serie di ricerche condotte fra il 2013 e il 2018 nell’ambito del progetto LTit – Letteratura tradotta in Italia, che ampliano e approfondiscono il lavoro e la proposta di metodo presentati nel primo volume di questa collana, La letteratura tedesca in Italia. Un’introduzione 1900-1920[28]. I sette studi affrontano altrettante questioni teoriche, cercando, senza pretese di esaustività, di cominciare a metterle a fuoco attraverso l’analisi di alcuni casi significativi. I casi di studio riguardano tutti la letteratura tedesca, ma l’orizzonte delle questioni abbraccia la letteratura tradotta nel suo insieme, nel tentativo di individuare alcuni snodi generali della sua particolare storia in Italia: l’auspicio è che gli scenari tratteggiati stimolino il lettore a esplorarne di analoghi, sostituendo per esempio al Faust l’Amleto, al romanzo tedesco quello americano, al germanista Giuseppe Antonio Borgese lo slavista Ettore Lo Gatto, al teatro espressionista la lirica simbolista, ecc. Poiché le domande che sono arrivato a formulare sono, credo, più importanti delle risposte che ho provato ad articolare, sarà utile esplicitarle qui di seguito.
Se, come si è detto, ogni traduzione è da considerarsi come un’eccezione, il primo studio, Individuazione di un capolavoro indaga il problema della genesi dell’eccezione. La domanda che pone è: perché una certa opera viene tradotta? Domanda che, considerando la traduzione come una serie di operazioni sociali (sélection, marquage, lecture), viene a declinarsi in ulteriori, più precise domande: chi ha interesse a tradurre quell’opera? come matura questo interesse? quali profitti (economici, politici, simbolici o d’altro tipo) pensa di trarne? come la interpreta? come la presenta ai lettori? in quale repertorio la inserisce? con quali strategie tenta di consacrarla? Il caso del Faust di Goethe risulta, da questo punto di vista, particolarmente interessante: riconosciuto oggi come indiscusso «capolavoro» della letteratura universale, la sua consacrazione nel campo letterario italiano è pressoché nulla fino al 1830 e resta assai circoscritta almeno fino al 1860; e lo stesso vale, sostanzialmente, per quella del suo autore. La ragione di ciò va ricercata non tanto nella vasta influenza del giudizio limitativo datone precocemente da Mme de Staël, quanto negli interessi delle avanguardie letterarie del tempo, in gran parte impegnate ad affrontare problematiche, come quella del dramma storico, per le quali la produzione di Goethe non sembra offrire, a differenza per esempio di quella di Schiller, soluzioni interessanti. Se dunque a importare e consacrare il teatro di Schiller è l’avanguardia milanese legata al «Conciliatore», i primi a riconoscere il Faust come un «capolavoro» sono alcuni letterati le cui traiettorie divergono dalla maggior parte di quelle dei loro contemporanei, ma che hanno un tratto in comune: coinvolti nei moti del ’21 o del ’30, Giovita Scalvini, Camillo Ugoni, Giambattista Passerini e Giuseppe Mazzini devono lasciare l’Italia, e trascorrono una parte del loro esilio a Parigi, dove negli anni ’20 la problematica letteraria è ben diversa da quella italiana, e dove il Faust è già ampiamente tradotto e consacrato. È qui che si genera in loro l’interesse specifico a tradurre l’opera di Goethe e a consacrarla anche in Italia. Le loro traiettorie ci portano in questo caso nel luogo per eccellenza della consacrazione letteraria internazionale, la capitale della république mondiale des lettres, dove si scrive un capitolo cruciale della storia letteraria italiana. La questione centrale di questo primo studio è dunque, in fondo, quella della consacrazione di un’opera o di un autore, ai quali in un determinato momento e in un determinato spazio sociale viene riconosciuto un capitale simbolico specifico. Ho tuttavia preferito parlare di individuazione per concentrare l’attenzione sulla primissima fase della sélection, che spesso precede di molto la traduzione di un’opera e il tentativo di consacrarla in un nuovo campo letterario[29].
Il secondo studio, Gli editori e il repertorio della letteratura tradotta, affronta invece decisamente le dinamiche della consacrazione nel campo letterario d’arrivo, e si concentra sul ruolo che vi hanno, accanto ai mediatori e ai traduttori, le case editrici, attraverso la loro collocazione nel campo e i repertori costituiti dalle loro collane. Il caso di studio è ancora una volta quello del Faust, che con le sue 22 traduzioni consente di indagare la questione sull’arco di quasi duecento anni, dal primo Ottocento al presente. Ho cercato in particolare di capire in che misura l’“adozione” da parte di un’avanguardia editoriale, a sua volta alleata con un’avanguardia letteraria, sia un passaggio rilevante, forse necessario, per la consacrazione di un testo e per il suo accoglimento in un repertorio. La questione mi si era posta studiando la genesi del campo di produzione ristretta in Italia, che ritengo sia da collocare intorno al 1910[30], quando a contrapporsi all’editoria commerciale rappresentata in primo luogo da Treves (che nella biblioteca amena proponeva autori di cassetta oggi dimenticati come E. Werner) e Sonzogno (che nella biblioteca universale pubblicava classici a prezzi popolari ignorando la letteratura contemporanea) sono gli animatori delle principali riviste d’avanguardia del tempo, che fondano nuove collane di letteratura presso case editrici per lo più giovani e periferiche: Benedetto Croce («La Critica» + scrittori stranieri Laterza), Giovanni Papini («L’Anima» + cultura dell’anima Carabba), Giuseppe Prezzolini («La Voce» + i quaderni della voce) e Giuseppe Antonio Borgese («Il Conciliatore» + antichi e moderni Carabba). Applicando la formula “rivista + collana” a sostegno dei loro rispettivi progetti letterari e pubblicando circa quattrocento libri in cinque anni, questi nuovi entranti danno vita a un campo di produzione (e consacrazione) relativamente autonomo, attraverso il quale rinnovano radicalmente il repertorio della letteratura tradotta: nasce così il primo repertorio legato a un’avanguardia (o meglio: trasversale ad alcune), che, per rimanere alla letteratura tedesca, include uno scrittore di recente consacrazione come Nietzsche, un inedito Goethe romanziere con la prima traduzione integrale del Wilhelm Meister, e autori mai tradotti prima come Hebbel e Novalis[31]. Nel corso di quasi due secoli e mezzo il Faust di Goethe raramente rientra negli interessi specifici di un’avanguardia letteraria e/o editoriale, salvo che in tre momenti, che non a caso sono quelli della sua massima consacrazione e integrazione nel repertorio: intorno al 1830, con la traduzione “manzoniana” di Scalvini nella biblioteca scelta di opere tedesche tradotte in lingua italiana di Giovanni Silvestri; intorno al 1860, con l’edizione Le Monnier nella biblioteca nazionale e il contemporaneo rifacimento “scapigliato” che ne dà Boito col Mefistofele; e intorno al 1970, con la traduzione di Fortini per i meridiani Mondadori, preceduta dalla lecture “realista-marxista” di Cases nella nuova universale einaudi.
In Nascita di una disciplina mi sono chiesto in che misura l’istituzione nelle università di cattedre stabili dedicate a una letteratura moderna – in questo caso la tedesca – influenzi la selezione, la marcatura e la lettura di testi e autori di quella letteratura. Non senza sorpresa, ho trovato che a presiedere alla nascita della germanistica italiana ci sono ancora una volta due dei capofila delle avanguardie letterarie del momento: Benedetto Croce e Giuseppe Antonio Borgese. Così ho concentrato l’indagine sul ruolo che le avanguardie, con il loro capitale simbolico e relazionale, possono avere nell’istituzione di una disciplina accademica, rinviando al saggio seguente l’esame degli effetti che la nuova disciplina esercita sulla visione della letteratura e sulle scelte di repertorio anche al di fuori del campo accademico.
Il quarto studio, Condizioni necessarie, è il più esplicitamente teorico, perché si interroga sulle condizioni di possibilità dell’insorgere degli interessi specifici che possono orientare all’individuazione, alla traduzione e alla consacrazione di certi autori, in questo caso Georg Büchner. Ho rintracciato queste condizioni, che ho voluto definire “necessarie ma non sufficienti”, nelle trasformazioni che, nel corso della prima metà del Novecento, si registrano in diversi campi: quello accademico, quello editoriale e quello teatrale. È solo in seguito alla nascita della germanistica, all’attivarsi di un circuito di produzione ristretta nell’editoria e alla rivoluzione del teatro di regia – e dunque all’attivarsi di una specifica illusio e di interessi altrettanto specifici in ciascuno di questi ambiti – che in attori come Rosina Pisaneschi, Alberto Spaini, Anton Giulio Bragaglia o Paolo Grassi può prodursi l’interesse a discutere, tradurre, mettere in scena e pubblicare Büchner. Ed è attraverso strutture da loro stessi istituite, come il Teatro Sperimentale degli Indipendenti o la collana teatro moderno di Rosa e Ballo, che vengono individuati e consacrati in Italia autori quali Joyce, Cocteau, García Lorca e Brecht.
Se la questione centrale in Condizioni necessarie è la genesi dell’illusio, lo studio successivo riguarda, come dice il titolo, La genesi di un nuovo habitus editoriale. Bourdieu definisce l’habitus come un senso pratico, che è allo stesso tempo prodotto dalle strutture oggettive, ovvero plasmato dalla posizione e dalle esperienze di ciascun individuo in un determinato campo, e produttore di scelte e comportamenti che producono il funzionamento del campo stesso, e possono modificarlo. Ricostruendo l’attività di Piero Gobetti come mediatore di letteratura tedesca all’inizio degli anni ’20 ho provato a individuare nella sua traiettoria l’origine di una disposizione fino ad allora inedita nel campo editoriale, assente anche nelle avanguardie letterarie dell’inizio del secolo: quella a esplorare sistematicamente la letteratura contemporanea consacrata nel campo di produzione ristretta di ciascun paese straniero. Il presupposto, naturalmente, è il riconoscimento, che Gobetti è tra i primi a esprimere manifestamente, di un circuito di produzione ristretta in Italia, nel quale si sia generato l’interesse a tenersi al corrente su quanto si va producendo negli omologhi circuiti stranieri. Di qui il primato del «Baretti» nell’individuare Proust, Joyce o gli espressionisti tedeschi.
La consacrazione del romanzo torna sul problema del valore letterario, il cui riconoscimento questa volta è indagato non in riferimento a un autore o a un’opera, bensì a un genere letterario. La domanda di fondo è: perché il romanzo, un genere che avanguardie letterarie degli anni ’10 avevano messo al bando, torna al centro dell’interesse degli scrittori e dei critici più avanzati, che cominciano a farne il terreno privilegiato delle loro ricerche letterarie, conferendogli nuova legittimità. Ho provato a cercare la risposta nella struttura che il campo editoriale andava assumendo verso il 1930, ricostruendo le traiettorie delle principali collane di narrativa e provando a interpretare ogni loro titolo come una presa di posizione: ho potuto così rilevare una loro progressiva polarizzazione tra un circuito di produzione di massa (dalla biblioteca romantica economica Sonzogno alla nuova biblioteca amena Treves, dai gialli alla medusa Mondadori) e un circuito di produzione ristretta (dal genio russo Slavia ai narratori nordici Sperling & Kupfer, da biblioteca europea Frassinelli a letteraria di Bompiani), che tuttavia non impedisce ad alcuni editori di cumulare, nel modo più abile, profitti sia economici sia simbolici (Modernissima con scrittori di tutto il mondo, Mondadori con la biblioteca romantica o Treves con scrittori stranieri moderni). Ad avere un ruolo decisivo nella consacrazione del romanzo non sono le collane di narrativa commerciali, che esistevano da decenni, ma quelle che adottano, in misura maggiore o minore, la logica specifica della produzione ristretta, accumulando capitale specifico tanto per sé quanto per il genere letterario di cui si fanno mediatrici. In molti casi si tratta di collane legate a riviste d’avanguardia («Il Baretti», «Il Convegno», «Solaria»), che operano una selezione molto stretta (curata dai rispettivi direttori, che sono spesso scrittori o professori, come Borgese, Dàuli, Mazzucchetti o Farinelli), una marcatura di prestigio (affidando traduzioni e curatele a firme riconosciute come Deledda, Aleramo, Palazzeschi o Pavese) e una lettura molto orientata (attraverso prefazioni fortemente interpretative, e a volte tecniche, a cura di specialisti quali Cecchi, Bontempelli, Baldini o Spaini). Nel cosiddetto “decennio delle traduzioni” assistiamo peraltro solo a una fase della lunga lotta per la consacrazione del romanzo nel campo di produzione ristretta, avviata da Borgese intorno al 1920 e che fino agli anni ’60 non arriverà a sovvertire una gerarchia dei generi che, a causa dell’egemonia delle avanguardie consacrate (vociani, futuristi, rondisti, ermetici), vede perpetuarsi il primato della lirica, del saggio critico e della prosa d’arte.
Se l’azione consacrante delle collane d’avanguardia inaugurate intorno al 1930 contribuisce a legittimare nel campo di produzione ristretta un repertorio specifico del romanzo – che fra i tedeschi include Schnitzler, Döblin, Kafka e Kästner –, Un repertorio per il teatro di regia indaga la stessa questione nell’ambito teatrale. Qui la collana è una sola, teatro/teatro moderno di Rosa e Ballo, e le traiettorie prese in esame sono quelle del direttore editoriale della casa editrice, Ferdinando Ballo, e quella del direttore della collana, Paolo Grassi. Sono loro a costruire una rete di relazioni che si estende dal circolo milanese di «Corrente» alla cerchia romana di Bragaglia, per aggregare un gruppo di nuovi entranti disposti a prendere posizione nella lotta contro il teatro del grand’attore e per il teatro di regia. L’azione di questa avanguardia, per quanto provvisoria e poco organica, porta alla costituzione di due strutture che per anni avranno un ruolo centrale nel mediare teatro straniero in Italia: la citata collana teatro/teatro moderno, prova generale della più prestigiosa e longeva collezione di teatro Einaudi, che raccoglie e legittima un repertorio di testi per il nuovo teatro di regia, e il Piccolo Teatro di Milano, che di questa produzione drammaturgica, selezionata, marcata e interpretata secondo la logica autonoma e specifica del campo di produzione ristretta, sarà per decenni il tempio.
Gli studi sono disposti in ordine cronologico, e salvo i primi due, che fanno da introduzione abbracciando nell’insieme un arco che va dal primo Ottocento al presente, si concentrano sugli anni 1900-1945. Per questo periodo in particolare, seguendo le traiettorie di autori, opere, mediatori, traduttori, editori, collane, compagnie teatrali, discipline accademiche e generi letterari, ho cercato di indagare alcune trasformazioni sistemiche che riguardano l’intero campo letterario, e di conseguenza tutta la letteratura tradotta: la genesi e la progressiva – benché non incontrastata – stabilizzazione di un circuito di produzione ristretta nel campo letterario (negli anni ’00), nel campo editoriale (anni ’10) e nel campo teatrale (anni ’20), l’istituzionalizzazione dello studio delle letterature straniere nell’università (a partire dagli anni ’10), la nascita di un interesse specifico per la narrativa tradotta nel campo editoriale e gli inizi della consacrazione del romanzo nel campo di produzione ristretta (anni ’30), l’affermarsi del teatro di regia (anni ’40). Da queste trasformazioni di vasta portata, che in alcuni casi equivalgono a vere e proprie rivoluzioni simboliche, dipendono fenomeni più circoscritti ma non meno rilevanti, dalla professionalizzazione dei traduttori, e in generale dei mediatori, alla genesi di nuovi habitus specifici di ciascuno di questi campi.
Nel condurre queste ricerche ho pensato spesso a quale lettore intendessi, consapevolmente o meno, rivolgermi. Un lettore specialista, sì, o più precisamente lettori che condividono l’illusio specifica degli studi umanistici: italianisti, germanisti, comparatisti, storici della letteratura o storici tout court. Ma non solo: molto spesso ho pensato ai produttori di oggi, a persone che conosco – editori, redattori, traduttori, scrittori, recensori, agenti letterari, insegnanti –, impegnate ogni giorno nelle complesse operazioni del selezionare, marcare, leggere, o, in una parola, del tradurre. È pensando a loro che mi sembra abbia un senso provare a ricostruire l’enorme lavoro collettivo necessario a individuare un autore, un’opera – senza troppo curarsi, in fondo, se siano italiani o stranieri –, a leggerli e farli leggere, a inserirli in questo o quel repertorio, a dargli cittadinanza nel corpus della nostra letteratura, e, mostrando quanto è stato fatto in passato, suggerire quanto sia possibile fare ancora[32].
Note
[1] Ci sono stati, naturalmente, tentativi di correzione e integrazione, che hanno riguardato la letteratura in lingua latina o in dialetto, quella degli italiani all’estero o dei migranti in Italia, ma non hanno messo in discussione la “grande narrazione” storico-letteraria né sul piano simbolico (si tratta cioè di opere e autori generalmente considerati ‘minori’) né sul piano pratico (rari, perché accademicamente poco remunerativi, sono gli studi a essi dedicati), proprio perché l’inconscio disciplinare resta strutturato da principi di visione e divisione elaborati in funzione del nation building. Un interessante tentativo di decostruire questa narrazione è invece il recente Atlante della letteratura italiana Einaudi (2010-2012), curato da Sergio Luzzatto e Gabriele Pedullà. Se ne veda la discussione in «Allegoria», 65-66, 2012, pp. 279-311, in particolare il contributo di Anna Boschetti.
[2] Mi riferisco qui a tendenze generali, rispetto alle quali non mancano eccezioni, anche in Italia. Per le mie ricerche, per esempio, hanno avuto grande importanza i lavori di germanisti come Mario Rubino (I mille demoni della modernità: l’immagine della Germania e la ricezione della narrativa tedesca in Italia tra le due guerre, Flaccovio, Palermo 2002; ma si potrebbe risalire indietro fino all’ancora valido studio di Lavinia Mazzucchetti, Schiller in Italia, Hoepli, Milano 1913), di italianisti come Valerio Ferme (Tradurre è tradire. La traduzione come sovversione culturale sotto il fascismo, Longo, Ravenna, 2002) o Francesca Billiani (Culture nazionali e narrazioni straniere: Italia, 1903-1943, Le Lettere, Firenze 2007), di traduttologi come Christopher Rundle (Publishing Translations in Fascist Italy, Lang, Oxford 2010), o di storici dell’editoria come Giovanni Ragone o Alberto Cadioli. Fondamentali sono stati, a livello internazionale, la discussione di ambito comparatistico innescata dallo studio di Pascale Casanova La République mondiale des lettres (Seuil, Paris 1999) e sintetizzata da Christoph Pendergast nella raccolta Debating World Literature (Verso, London 2004), così come le ricerche di storici come Michael Werner e Michel Espagne (in particolare il terzo volume di Philologiques dedicato a Qu’est-ce qu’une litterature nationale? Approches pour une théorie interculturelle du champ littéraire, Editions de la Maison des Sciences de l’Homme, Paris 1994).
[3] Itamar Even-Zohar, The Position of Translated Literature within the Literary Polysystem [1978], in Polysystem Studies, «Poetics Today», XI.1, 1990, pp. 45-46 (corsivo mio). A questa agenda si è dedicato un intero filone dei translation studies, da Theo Hermans a Gideon Toury, da Susan Bassnett a Anthony Pym, senza però arrivare a integrare la storia delle traduzioni nelle storie letterarie nazionali.
[4] Even-Zohar, The position of Translated Literature, cit., p. 46.
[5] Nelle pagine che seguono userò il concetto di letteratura nazionale senza problematizzarlo ulteriormente, pur essendo consapevole dei suoi limiti. Questo per tre motivi: primo, non è stato finora elaborato un concetto più efficiente, che permetta cioè di individuare un campo di studi altrettanto esteso nel tempo e nello spazio, e di conferirgli una relativa coerenza (parlare di “civiltà letteraria”, di “attività letteraria”, di letteratura “in lingua italiana” o simili è utile e stimolante, ma non costituisce una reale alternativa); secondo, gli studi italianistici, e non solo, sono ancora oggi nella loro quasi integrità impostati su questo paradigma, e rifiutarlo significherebbe privarsi del terreno comune su cui interloquire; terzo, l’oggetto di questa ricerca si è definito fin dall’inizio in rapporto al concetto di letteratura nazionale, e dunque rinunciarvi comprometterebbe il tentativo di produrre una visione relativamente nuova della storia letteraria. Va da sé che adopererò il concetto sempre in senso critico, intendendo la letteratura nazionale non come essenza ma come costruzione simbolica.
[6] Pierre Bourdieu, Les conditions sociales de la circulation internationale des idées [1990], «Actes de la recherche en sciences sociales», 145, 2002, pp. 3-8; cito da: Le condizioni sociali della circolazione internazionale delle idee, a cura di M. Santoro, tr. it. di G. Ienna, «Studi Culturali», XIII.1, 2016, pp. 71-72.
[7] Pierre Bourdieu, Le regole dell’arte. Genesi e struttura del campo letterario [1992], tr. it. di E. Bottaro e A. Boschetti, Il Saggiatore, Milano 2005. Per un rapido inquadramento cfr. Anna Badlini, Il concetto di campo per una nuova storiografia letteraria. “Le regole dell’arte” di Pierre Bourdieu, «Nuova rivista di letteratura italiana», XVIII, 2015, pp. 141-155, e la sezione, Pierre Bourdieu e la sociologia della letteratura, a cura di A. Baldini, «Allegoria» 55, 2007, pp. 9-85.
[8] Con l’eccezione del saggio sopra citato, Pierre Bourdieu non si è occupato di letteratura tradotta. Ma sulle basi da lui gettate si sta sviluppando, soprattutto in Francia, un’innovativa sociologia della traduzione: si vedano in particolare i lavori di Gisèle Sapiro, L’Importation de la littérature hébraïque en France: entre communautarisme et universalisme, «Actes de la recherche en sciences sociales», 144, 2002, pp. 80-98, Translation and the field of publishing. A Commentary on Pierre Bourdieu’s “A Conservative Revolution in Publishing” from a Translation Perspective, «Translation Studies», I.2, 2008, pp. 154-167, e i due volumi da lei curati Translatio. Le marché de la traduction en France à l’heure de la mondialisation, CNRS, Paris 2008 e Les Contradictions de la globalisation éditoriale, Nouveau Monde, Paris 2009. Si vedano inoltre i due numeri tematici degli «Actes de la recherche en sciences sociales» curati dalla stessa Sapiro e da Johann Heilbron nel 2002, Traduction: les échanges littéraires internationaux (144) e La Circulation internationale des idées (145), il saggio di Joseph Jurt, Traduction et transfert culturel, in De la traduction et des transferts culturels, a cura di Ch. Lombez e R. von Kulessa, L’Harmattan, Paris 2007, pp. 93-111, gli atti del convegno L’Espace culturel transnational, a cura di A. Boschetti, Nouveau Monde, Paris 2010, e i quattro volumi dell’imponente Histoire des traductions en langue française (XV-XX siècle), a cura di Y. Chevrel e J.-Y. Masson, Verdier, Paris 2012-2018. Una prima sintesi teorica è contenuta in Constructing a Sociology of Translation, a cura di A. Fukari e M. Wolf, Benjamin’s, Amsterdam/Philadelphia 2007.
[9] Bourdieu, Le regole dell’arte, cit., p. 317.
[10] Sul concorso di logica politica, logica economica e logica letteraria nella produzione di traduzioni cfr. Johan Heilbron, Towards a Sociology of Translation. Book Translations as a Cultural World System, «European Journal of Social Theory» II.4, 1999, pp. 429-444.
[11] Pierre Bourdieu, Questions de sociologie, Minuit, Paris 1980, pp. 113-114 (tr. it. di Anna Boschetti).
[12] Bourdieu, Le regole dell’arte, cit., p. 303.
[13] Ivi, pp. 304-305.
[14] Ivi, p. 240.
[15] Bourdieu, Une revolution conservatrice dans l’édition, cit., p. 3 (trad. mia).
[16] Si vedano i primi due principi per una storia della traduzione enunciati da Anthony Pym: 1) «translation history should explain why translations were produced in a particular social time and place. In other words, translation history should address problems of social causation»; 2) «the central object of historical knowledge should not be the text of the translation, nor its contextual system, nor even its linguistic features. The central object should be the human translator, since only humans have the kind of responsibility appropriate to social causation. Only through translators and their social entourage (clients, patrons, readers) can we try to understand why translations were produced in a particular historical time and place» (Method in Translation History, Routledge, London 1998, p. 11).
[17] Bourdieu, Le regole dell’arte, cit., p. 242.
[18] Bourdieu, Le regole dell’arte, cit. p. 237. La pubblicazione di un testo tradotto partecipa alla riproduzione dell’illusio, l’«adesione collettiva al gioco che è contemporaneamente causa ed effetto dell’esistenza del gioco»: «l’artista che fa l’opera è lui stesso fatto, in seno al campo di produzione da tutti coloro che contribuiscono a “scoprirlo” e a consacrarlo in quanto artista “noto” e riconosciuto».
[19] Sul concetto di “problematica” e sull’avanzamento del tempo letterario si vedano Bourdieu, Le regole dell’arte, cit., pp. 307-319 e Pascale Casanova, Le Méridien de Greenwich: Réflexions sur le temps de la littérature, in Qu’est-ce que le contemporain?, a cura di L. Ruffel, Defaut, Paris, 2010, p. 113-145.
[20] Cfr. Alberto Cadioli, Letterati editori, Il Saggiatore, Milano 1995, che si occupa in particolare di Papini, Prezzolini, Debenedetti e Calvino.
[21] Citato in Gian Carlo Ferretti, L’editore Vittorini, Einaudi, Torino 1992, p. 46.
[22] Italo Calvino a Antonella Santacroce, 22 aprile 1964, in I libri degli altri, a cura di G. Tesio, Einaudi, Torino 1991, pp. 465-66.
[23] Even-Zohar, Polysystem Studies, cit., p. 17: «Di norma il centro del polisistema coincide con il più prestigioso repertorio canonizzato».
[24] Bourdieu, Le regole dell’arte, cit., p. 338.
[25] Ivi, pp. 338-339.
[26] Della Metamorfosi di Kafka, per non menzionare che un caso estremo, esistono 24 traduzioni, a loro volta pubblicate e ripubblicate in almeno 54 edizioni.
[27] Non sempre, infatti, ho potuto ricostruire le traiettorie di mediatori e opere e contestualizzarle nelle tensioni del momento in modo esaustivo, soprattutto perché la storia del campo letterario italiano è ancora in gran parte da scrivere. Si vedano, per questo, almeno i lavori di Riccardo Bonavita, Anna Boschetti, Davide Dalmas, Fabio Andreazza, e in particolare le ricerche di Anna Baldini, della quale è in programma in questa collana il volume Movimenti di capitale. Avanguardie, conflitti e regole dell’arte nel campo letterario italiano (1903-1943).
[28] Anna Baldini, Daria Biagi, Stefania De Lucia, Irene Fantappiè, Michele Sisto, La letteratura tedesca in Italia. Un’introduzione 1900-1920, Quodlibet, Macerata 2018. Si vedano anche: Letteratura italiana e tedesca 1945-1970: campi, polisistemi, transfer / Deutsche und Italienische Literatur 1945-1970: Felder, Polysysteme, Transfer, a cura di I. Fantappiè e M. Sisto, Istituto Italiano di Studi Germanici, Roma 2013, e Lavinia Mazzucchetti. Impegno civile e mediazione culturale nell’Europa del Novecento, a cura di A. Antonello e M. Sisto, Istituto Italiano di Studi Germanici, Roma 2017.
[29] In questo mi è stato di ispirazione il libro di Fabio Andreazza, Identificazione di un’arte. Scrittori e cinema nel primo Novecento italiano, Bulzoni, Roma 2008.
[30] Se la “genesi” del campo letterario in Italia è da datarsi all’inizio del Novecento, come suggeriscono anche gli studi di Roberto Pertici (Appunti sulla nascita dell’«intellettuale» in Italia, postfazione a Christophe Charle, Gli intellettuali nell’Ottocento. Saggio di storia comparata europea, il Mulino, Bologna 2002, pp. 308-346) e di Anna Baldini (Avanguardia e regole dell’arte a Firenze, in La letteratura tedesca in Italia. Un’introduzione 1900-1920, cit., pp. 23-56), sarebbe fuori luogo usare il concetto di campo per l’Ottocento, e ancor più per i secoli precedenti. In questo Bourdieu è rigoroso (cfr. Le regole dell’arte, cit., p. 464, nota 1). Tuttavia, se la strutturazione di un campo di produzione ristretta non si può collocare prima della data in questione, è pur vero che il concetto di campo – che, occorre sempre ricordare, è uno strumento, non un’essenza – consente di osservare gli effetti di logiche socio-simboliche specifiche, ovvero relativamente autonome, anche in assenza di un’autonomia strutturale. Per questo mi è parso utile parlare di campo, seppur con parsimonia, anche per la prima fase della traiettoria italiana del Faust.
[31] Cfr. M. Sisto, Gli editori e il rinnovamento del repertorio, in La letteratura tedesca in Italia. Un’introduzione, pp. 57-89. La successiva storia della letteratura tradotta in Italia consiste in gran parte delle manovre per introdurre nel perimetro di questo repertorio consacrato dalle avanguardie, attraverso nuove strutture riconosciute come legittime, autori e opere ancora sconosciuti oppure noti da tempo ma proprio per questo associati alla produzione di massa. Per rimanere ai tedeschi, tra i nuovi possiamo annoverare Wedekind, Rilke, Döblin, Kafka, Brecht e più tardivamente Thomas Mann; tra i già noti Hölderlin e Hoffmann; mentre alcuni autori molto popolari nell’Ottocento, come Schiller e Heine, nonostante gli sforzi di svariati mediatori non hanno mai ottenuto la piena consacrazione in questa nuova forma specifica, e tuttora il loro prestigio è appannato da un velo di inattualità.
[32] «We do translation history in order to express, address and try to solve problems affecting our own situation», è il quarto principio enunciato da Pym (Method in Translation History, cit., p. 12).
[Immagine: Betta Gancia, Light-Drawings, 2017].
mi sembra un ottimo lavoro e suggerisco di leggerlo (al di là delle opzioni metodologiche e degli specifici oggetti di studio) accanto al recente Edoardo Esposito, “Con altra voce. La traduzione letteraria tra le due guerre” (Donzelli 2018), recensito p.es. da Gianfranco Petrillo nel numero 16 della sua «Rivistatradurre.it»