Ancora per Silvia Romano e per chi ha seguito il suo sogno
di Nicoletta Vallorani
Pensare obliquo, rubrica a cura di Nicoletta Vallorani
Le parole del dolore sono le più difficili. Pochi scrittori e pochissimi artisti riescono a trovarle, senza sfilacciarne i contorni nelle derive gemelle del sensazionalismo e del melodramma. “Nessuna colpa” è il mantra di chi è pronto a dimenticare. “Nessuna responsabilità” diventa il modello per una protesta inoffensiva. E il tempo cancella persino “La natura insanabile dell’offesa” di cui diceva Primo Levi, nella banalità harendtiana di un male che, tristemente, si ripete. Così, tra l’indicibile Shoah e l’altrettanto indicibile naufragio del 18 aprile 2015 nel Mediterraneo, le indicibilità si sommano e si moltiplicano, e molte sono mute, dall’eccidio armeno alle stragi recenti in Ruanda e al silenzio assordante di un’Africa devastata. Nel Territorio Comanche di queste guerre reali e simboliche, i sogni si infrangono. Portavano il nome di Giulio Regeni e del suo desiderio di documentazione frainteso per spionaggio o di Antonio Megalizzi, che voleva diventare giornalista ed è morto per caso; di Valeria Solesin, che voleva studiare il ruolo della donna tra famiglia e lavoro e infine di Silvia Romano (che continuerò a citare, finché non si sa/fa qualcosa), sparita perché ha sognato di riscattare i vulnerabili. Piccole storie, temporaneamente regalate a un clamore di stampa che poi si è spento, in un silenzio formalmente indotto – ma non sapremo mai se è vero – dalle necessità diplomatiche e di presunte trattative segrete.
Però io non credo che dobbiamo rassegnarci. Un argine esiste, come esiste qualcuno che può raccogliere quel che resta dei sogni. Dovremmo pensarci noi che di “trovare le parole” tentiamo di occuparci, noi che pretendiamo di dare un nome alle cose, sperando un giorno di capirle. È questo che facciamo, e se non serviamo a questo, siamo inutili. Parlare di poesia, letteratura, fotografia, opera d’arte mi pare riduttivo e fuorviante: una panacea utilissima a neutralizzare la potenzialità dell’espressione artistica.
Noi raccogliamo i sogni, o quel che ne resta, per riavviare il flusso del tempo. In modo scientificamente fondato, è questo che fa Cristina Cattaneo, con piena consapevolezza a partire dallo spartiacque che è per lei la data del 3 ottobre 2013, la notte del primo grande naufragio nel Mediterraneo. Nel suo Naufraghi senza volto, Cattaneo si racconta a partire da lì e senza risparmio, descrivendo il modo in cui è arrivata a concepire l’autopsia come un tentativo di trovare l’invisibile. L’identità perduta, i desideri coltivati, le ragioni del viaggio migrante, le tracce di una famiglia che ha bisogno di sapere anche che il sogno del loro congiunto si è spento. La “ambiguous loss” – l’espressione tecnica che Cattaneo usa per definire la morte presunta ma non provata – innesca spesso in chi resta una patologia reale. Essa crea una difficoltà che solo la restituzione del corpo, reale o simbolica, può sperare di risolvere, ma nel caso dei naufragi nel Mediterraneo, “il problema era – scrive Cattaneo – di un’enormità inimmaginabile”.
Sono parole diverse, seppure analoghe quelle di Mario Badagliacca sulla medesima questione. Video giornalista e fotografo documentarista, Badagliacca ha un sito web che restituisce, pur nel suo splendore, solo una parte del carico politico e dell’intensità del lavoro che svolge nei suoi progetti, lungo vari confini del mondo. In Frammenti (2013), il fotografo sceglie Lampedusa come osservatorio sulla migrazione. Lo interessano in modo particolare gli oggetti abbandonati nei relitti delle barche e raccolti dai volontari dell’associazione Askayusa. In una soffitta in penombra, davanti a scatoloni di “cose”, Badagliacca estrae pezzi di vite degli altri, riepilogandone i sogni in un vasetto di brillantina o, in un depliant arabo con sopra la torre di Pisa, oppure in un vasetto di kajal e nelle stoffe lacere ormai vuote di corpi. Tra borracce, bottiglie e biberon, torna intermittente una quotidianità spezzata dal viaggio e poi dall’annegamento, tutto questo riscattato dalla foto riuscita di un oggetto come fosse una persona.
Nella letteratura, ci sono storie analoghe, voci di bambini che ritrovano uno spazio narrativo. Come quella del quindicenne bambino soldato che ha le corde vocali tagliate e dunque può solo pensare la sua storia invece di raccontarla con la sua voce, in Song for Night (2007). Chris Abani è un maestro nel raccontare il dolore. La forza della poesia che già si respirava nel suo Becoming Abigail (2006) torna qui nella vicenda di un’altra entità vulnerabile: un ragazzino incaricato di sminare i campi e che del suo mestiere dice di non essere stato scelto perché molto intelligente o molto scaltro, ma solo perché molto leggero e con remote possibilità di crescita in un luogo in cui mangiare rappresenta un evento improbabile. “My mother named me My Luck” racconta il piccolo narratore, che di questa ipotetica fortuna citata nel suo nome non riscontra traccia. Eppure My Luck non smette di sognare e non evita di innamorarsi e di coltivare speranze.
In parte, sebbene in una cifra completamente diversa, la sua voce ricorda quella del piccolo protagonista di Dreaming Jewels (1950), il bellissimo romanzo distopico di Theodore Sturgeon ristampato in italiano, nel 1997, da Adelphi (e ritradotto da G. P. Calasso): un evento per un romanzo appartenente alla tradizione della fantascienza. In Cristalli sognanti, il piccolo Horton, maltrattato prima dal suo patrigno, il giudice Bluett, e poi dal proprietario del Luna Park (Monetre) ricorda molto My Luck, non solo nella sua straordinaria vulnerabilità, ma anche in una resilienza che si imparenta con la medesima impossibilità di rinunciare al sogno.
Così il sogno resta. Le parole – nel senso lato del termine, dunque come segni, di qualunque tipo – consentono che esso passi di mano in mano e non muoia. Ed è a noi che spetta raccogliere i sogni.
Pensare obliquo, rubrica a cura di Nicoletta Vallorani
Altri articoli della rubrica
1. Indossare le parole, 25.2.2019
2. Suoli senza diritto, 27.3.2019
3. Negli interstizi della storia. Per Silvia Romano, 29.5.2019
[Immagine: Mario Badagliacca, Frammenti (2013), particolare].