cropped-warhol.jpga cura di Livio Boni e Andrea Cavazzini

[Dal 18 al 27 aprile LPLC sospende la sua programmazione ordinaria. Per non lasciare soli i nostri lettori, abbiamo deciso di riproporre alcuni testi e interventi apparsi all’inizio del 2012, quando i visitatori del nostro sito erano circa un quinto o un sesto di quelli che abbiamo adesso. È probabile che molti dei nostri lettori attuali non conoscano questi post. La seconda parte dell’intervista ad Alain Badiou è stata pubblicata il 29 febbraio 2012]

[Questa intervista è uscita nel numero 59 di «Allegoria»]

L.B. e A.C. Veniamo ora al suo secondo grande trattato filosofico, Logiques des mondes, uscito in Francia due anni fa.[1] Cominceremo con lo scartare un malinteso a cui potrebbe prestarsi il titolo stesso del libro, rispetto al principio «c’è un solo mondo» di cui abbiamo discusso precedentemente. Dal punto di vista filosofico l’affermazione dell’esistenza di un solo mondo non è affatto in contraddizione con la sua molteplicità immanente, poiché “mondo” funziona in questo caso come un trascendentale che permette alle differenze di dispiegarsi, mentre la negazione dell’esistenza di multipli differenti produce in realtà una serie di mondi chiusi. Non vi è dunque nessuna contraddizione tra l’assioma metapolitico «c’è un solo mondo» e la teoria dell’apparire in Logiques des mondes.

 A.B. Ovviamente no, come avete assai bene spiegato. Aggiungerei soltanto che «c’è un solo mondo» è un precetto politico, mentre il riconoscimento di mondi multipli, nel senso di trascendentali logici differenti, corrisponde a una descrizione di tipo filosofico.

 L.B. e A.C. In che senso la costruzione speculativa di Logiques des mondes fornisce un complemento fenomenologico alla sistematizzazione ontologica dell’Essere e l’evento?[2] Dobbiamo intendere tale complemento, già abbozzato nella sua Ontologia transitoria,[3] come un tentativo di prendere in contropiede certe letture gauchiste e miracoliste dell’evento?

 A.B. Sì, si passa infatti da una sistematizzazione ontologica (che cosa ne è del pensiero dell’essere in quanto essere, se lo si intende come pura molteplicità, o molteplicità senza-Uno?), ad una sistematizzazione dell’apparire, o della particolarità: che cosa ne è del pensiero delle molteplicità in quanto presenti e concorrenti alla composizione di un certo mondo in virtù delle loro relazioni reciproche? All’enunciato fondamentale di L’essere e l’evento – “l’ontologia è la matematica” – corrisponde quindi l’enunciato cruciale di Logiques des mondes – “la fenomenologia è la logica”. In questo nuovo quadro, più complesso, si può quindi concepire una teoria molto più fine di quanto non fosse possibile in un quadro puramente ontologico. In particolare, si può finalmente pensare l’evento come un’alterazione locale di una molteplicità data, e non solamente come rottura e cominciamento radicale.

 L.B. e A.C. Quindi, in questo spostamento da una teoria del soggetto “puro” come punto d’eccesso rispetto a una situazione data, ad una teoria dell’apparire degli oggetti e dei mondi come tracciato costitutivo di qualunque soggetto “trans-mondano” – spostamento dal piano onto-logico di L’essere e l’evento al piano onto-logico di Logiques des mondes – una delle conseguenze principali sembra essere la cancellazione della questione della “nominazione” dell’evento-soggetto, a vantaggio di quella del “corpo” come “incorporazione delle verità”…

A.B. In effetti, dopo L’essere e l’evento avevo bisogno, per evidenti ragioni di materialismo, di una traccia dell’evento che fosse inscritta nella situazione, che fungesse da punto d’appoggio per le sue conseguenze soggettive. Ho quindi ritenuto che quanto sussisteva dell’evento potesse essere assimilato ad un nome. Ad esempio, “Comune di Parigi”, o “Maggio ’68”. Questa soluzione non era soddisfacente, e numerosi critici me l’hanno fatto osservare assai presto, in particolare Lyotard. Essa presupponeva una denominazione, e quindi un soggetto-che-nomina, anteriore al soggetto portatore delle conseguenze dell’evento. Questa anteriorità del soggetto a se stesso conferiva all’evento una tonalità in effetti un po’ miracolosa. Il rimaneggiamento operato in Logiques des mondes pone fine a questa dualità del concetto di soggetto. La traccia dell’evento è ora interna al suo sito, cioè è oggettiva.

 L.B e A.C. Al di là delle complementarità sistematiche tra i suoi due grandi libri filosofici, un elemento inedito viene introdotto in Logiques des mondes: l’idea di una possibile logica delle tracce lasciate da un evento in un mondo configurato da un “trascendentale” interamente differente. Lei definisce questa traccia un «punto d’inesistanza»,[4] precisando che non bisogna confondere «il nulla e l’inesistenza», e attribuendo a quest’ultimo una funzione di “orientamento”. Potrebbe ritornare brevemente su questo punto? Ci inganneremmo forse considerando che qui si ha a che fare col vero punto di discontinuità con L’essere e l’evento?

 A.B. Voi interpretate del tutto correttamente questa discontinuità, nel solco di ciò che tentavo di dire rispondendo alla vostra domanda precedente: un progresso materialista. Tuttavia, non bisogna aver troppa fretta di dire che il trascendentale del mondo post-evenemenziale è “interamente differente” da quello del mondo che è toccato dall’evento. La trasformazione è all’inizio affatto locale: un elemento di un multiplo del mondo, il cui grado di apparizione nel mondo era praticamente nullo (minimo), acquista un’intensità d’esistenza assai grande (massima). Questo avviene secondo le misure trascendentali del mondo esistente. È solo poco a poco, nel lavoro delle conseguenze, che questa perturbazione finirà, oppure no, per comportare delle trasformazioni profonde del trascendentale stesso. Per utilizzare una metafora politica: non vi è una rivoluzione immediatamente globale, di cambiamento integrale del mondo. Vi è un processo complesso, punto per punto, che allarga fino alle dimensioni del mondo, e in un modo che non è mai necessario, il rovesciamento locale di un’intensità nulla in intensità massima («non siamo niente, saremo tutto»).[5] Attorno a questa traccia locale si costruisce il nuovo corpo soggettivo.

 L.B. e A.C. Recentemente lei ha ripubblicato presso Fayard, nella nuova collana da lei diretta con Barbara Cassin, il suo primo libro, Il concetto di modello, uscito originariamente da Maspero nella collana «Théorie» diretta da Louis Althusser.[6] Si tratta di una ricerca epistemologica che fa parte del «Corso di filosofia per scienziati» organizzato da Althusser; nella Prefazione a questa nuova edizione, lei rivendica la sua appartenenza alla corrente “strutturalista” nel senso che questa aveva assunto per il gruppo dei «Cahiers pour l’analyse», il cui progetto era quello di combinare la psicoanalisi lacaniana all’epistemologia storica francese (Canguilhem, Althusser stesso), al marxismo riletto da Althusser, e infine all’approccio “formale” e strutturale alle scienze umane (linguistica post-saussuriana, antropologia di Lévi-Strauss, studi di Georges Dumézil sull’ideologia indoeuropea, ecc.), il che, per alcuni animatori dei «Cahiers», doveva sfociare nella costruzione di una “logica del significante”, una sorta di teoria generale delle strutture (ci scusi di nuovo per le semplificazioni). Può dirci qualcosa sui suoi inizi epistemologici, e su quale fosse il suo rapporto a questi progetti?

 A.B. Ho subito accolto il  programma strutturalista con entusiasmo, anche perché ero da  sempre affascinato dalle discipline formali, matematiche e logiche. Mi sembrava che si tentasse di dotare l’antropologia di una forza nuova, che l’avrebbe sottratta all’empirismo. Vedevo anche la possibilità di fornire alla politica un orizzonte teorico più stabile, più compatto, meno debitore di un rapporto opportunista alle situazioni. E, infine, mi sembrava che si aprisse un nuovo cantiere filosofico riguardante la dialettica. Quest’ultima era, all’epoca, o ridotta in maniera scientista e assai debole a “leggi dialettiche” applicabili ad ogni realtà, naturale o storica (è la via staliniana), oppure ricondotta alle forme sottili, ma nettamente idealistiche, dell’ermeneutica hegeliana. Ricollocando la questione ad un livello più formale, sostenendo la prova del sapere matematico e delle logiche contemporanee, pensavo che si sarebbe fatto progredire notevolmente il pensiero dialettico, che io concepivo come pensiero rivoluzionario. Ho dunque accettato il rischio di una deriva scientista (o “pitagorica”, come mi rimproverava Althusser), senza, credo, perdere di vista lo scopo finale: un rinnovamento dell’accompagnamento filosofico della convinzione politica (ed anche artistica o scientifica).

 L.B. e A.C. Nel corso del suo intero percorso, lei si è sempre richiamato a Jean-Paul Sartre come «maestro assoluto» (così lo definisce nelle Logiques des mondes); tuttavia, questa “filiazione” sartriana sembra un po’ contraddittoria rispetto alla “filiazione” althusseriano-epistemologica, in particolare per quanto riguarda la teoria, elaborata da Sartre nella Critica della ragion dialettica, di un soggetto dell’azione collettiva, che si concepirebbe con difficoltà in un quadro di pensiero althusseriano (come lei stesso ricorda in un testo dedicato a Sartre in occasione della sua morte e recentemente riedito nel Petit panthéon portatif).[7] Potrebbe dirci qualcosa su questo nodo apparentemente contraddittorio del suo percorso?

 A.B. Beninteso, ho dovuto allontanarmi parecchio dal mio maestro… Tuttavia, voglio insistere su due punti. Innanzitutto, al di là della tentazione scientista percepibile alla fine degli anni Sessanta, ho conservato il tema del Soggetto, di un reale del Soggetto, contro la sua riduzione althusseriana all’ideologia o all’immaginario. E poi, direi che la mia opera, a partire dagli anni Ottanta, tratta appunto delle condizioni (assai complesse!) della libertà. Certamente, il mio Soggetto non è una coscienza, e la mia libertà non è il modo in cui il Nulla “buca” l’Essere, dimodoché l’articolazione dei due non può essere quella che propone Sartre. Ma che in definitiva, per me, una verità sia sempre sotto la forma di una libera incorporazione soggettiva è sufficiente ad attestare una fedeltà a Sartre.

 L.B e A.C. Un altro suo riferimento costante è Lacan, il che è per noi particolarmente interessante: innanzitutto perché un legame tra un filosofo e la psicoanalisi, essenziale quanto il suo con Lacan, sarebbe impensabile nella “lunga durata” della cultura filosofica italiana; e poi perché oggi anche in Francia la filosofia universitaria ci sembra tendenzialmente dominata da un disagio, o addirittura da una rimozione, rispetto al rapporto tra psicoanalisi e filosofia. È come se i filosofi cercassero di rassicurare se stessi sull’autonomia, tutto sommato abbastanza pacifica, della propria disciplina, negando i legami intessuti dalla filosofia francese con l’impresa freudiana rivitalizzata e riscritta da Lacan. Secondo lei, e a partire dal suo percorso, quali sono le relazioni possibili, ed eventualmente feconde, tra filosofia e psicoanalisi? In quale modo l’intelligenza della psicoanalisi è indispensabile ad un percorso filosofico?

A.B. La psicoanalisi propone una teoria del soggetto liberata dalla riflessività cosciente, e una teoria della libertà che la subordina alla verità: ciò che è in causa nella cura è in effetti la verità del soggetto, in quanto verità in-saputa. Lo spostamento dei sintomi apre un nuovo rapporto del soggetto a ciò di cui esso è capace, e quindi crea nuove libertà. Tutto ciò nutre la mia filosofia dal principio alla fine, poiché il suo centro è il legame tra processo d’incorporazione soggettiva e avvento di una verità. La psicoanalisi permette di lottare in pari tempo contro la fenomenologia religiosa, che fa del soggetto una mezza-misura tra la coscienza e l’anima, e contro lo scientismo cognitivista che fa del soggetto una semplice finzione. Infine, la psicoanalisi permette di cogliere appieno il ruolo della sessualità nella costruzione soggettiva, e pertanto di illuminare in modo totalmente inedito il problema dell’amore, il quale è, da Platone in poi, una delle condizioni generiche della filosofia. Ecco perché l’ho detto e lo ripeto: una filosofia contemporanea deve assolutamente attraversare Freud e Lacan.

 L.B. e A.C. Nella Prefazione alla riedizione del Concetto di modello lei afferma di aver abbandonato la sua primaria vocazione epistemologica per “servire il popolo”, cioè per entrare in un periodo di militanza maoista. Un’altra cosa di cui molti oggi amerebbero credere che la filosofia possa fare a meno è il rapporto con l’agire politico, o addirittura con la militanza aperta e dichiarata. Ci dica qualcosa della sua azione all’interno del movimento maoista e dell’impatto che ha avuto sul suo pensiero più propriamente filosofico.

 A.B. La filosofia, quindi il filosofo, deve esperire le proprie “condizioni generiche”. Il filosofo deve essere un militante, un conoscitore delle scienze e delle arti, un amante… La filosofia universitaria, ridotta alla sua stessa storia, o specializzata sotto la forma di una “filosofia di…”, non può sostenere le sfide della contemporaneità. Sono stato un appassionato militante maoista, ho appreso cosa significa l’uguaglianza politica con gente venuta da ogni parte, come partecipare attivamente alla formazione di un nuovo corpo collettivo, come essere più grande di tutto quanto sia possibile immaginare di se stessi. Lo slancio teorico si alimenta di questi momenti eccezionali, cerca di conservarne e trasmetterne la forma.

L.B e A.C. Questa fase più direttamente militante della sua attività ha portato a un dissidio con Gilles Deleuze, riguardo temi sia filosofici che più esplicitamente politici. Deleuze è oggi un punto di riferimento cruciale per numerose correnti politiche e culturali italiane: esiste un senso comune, spesso un gergo, deleuziano, in particolare nei gruppi che fanno riferimento a Negri, ma anche ben al di là di essi, tanto che la cultura politica “radicale” italiana sembra poter favorire l’avvento del “secolo deleuziano” invocato da Foucault. Su cosa verteva il vostro dissidio politico, e quali ne erano le poste in gioco filosofiche, prolungate ben al di là della congiuntura degli anni Settanta?

 A.B. Vedete, non credo che Deleuze si sia interessato granché alla politica. Non era molto militante, e la politica di cui parla non è altro che la forma delle inflessioni della vita collettiva. Osserverei ad esempio che in Che cos’è la filosofia? vi sono tre figure del pensiero: l’arte, la scienza e la filosofia. La politica brilla per la sua assenza. Quando gli ho posto esplicitamente questa domanda, Gilles mi ha risposto in sostanza che la politica non era un regime separato, ma che era presente ovunque. Qui c’è una divergenza capitale. Per me la politica è un pensiero distinto, per nulla identico all’arte, o all’amore, o alla scienza, ed essa ha una storia propria, delle sequenze che definiscono la natura dei problemi che le appartengono, dei tentativi fatti per risolverli, delle impasses, ecc. Di tutto questo, in effetti, Deleuze e i suoi successori non si curano affatto. In Negri, ad esempio, si passa direttamente dall’ontologia alla politica attraverso vaste categorie (“Impero”, “moltitudine”, ecc.) che non sono altro che variazioni sul tema di un reale a doppia faccia, potere costituente/potere costituito. Sullo sfondo, c’è la convinzione che la politica sia la potenza della vita, e che l’emancipazione sia l’invenzione di nuove “forme di vita”. Senza contare che questo monismo vitalista sfocia in effetti in una sorta di esaltazione paradossale del capitalismo come potenza, di cui l’emancipazione non è che il rovescio, immediatamente mobilizzabile. Donde l’ottimismo costante dei deleuziani, in una situazione in cui, per me, i problemi contemporanei della politica non sono ancora neppure formulati chiaramente. E anche un feticismo della tecnologia, con tutte queste glosse sull’“intelligenza collettiva” inscritta negli strumenti moderni della comunicazione… Tra tutto questo e ciò che io penso, vi è, temo, un autentico abisso.

 L.B. e A.C. Negli anni Ottanta, nel pieno del trionfo di quella che si potrebbe chiamare una contro-rivoluzione capitalista, lei pubblica un libro che si segnala per la sua inattualità, Théorie du sujet.[8] Certi commentatori, come ad esempio Bruno Bosteels, hanno suggerito che la continuità del suo lavoro rispetto a questo primo tentativo sistematico sia più stretta di quanto sembrerebbe a prima vista. Potrebbe dirci qualcosa su questo libro che da qualche parte lei ha definito il suo «primo libro di filosofia»?

 A.B. Si tratta chiaramente di un libro di transizione, e in quanto tale assai complicato, anche nello stile, ancora segnato da tic lacaniani. In fondo, si trattava per me, alla luce dell’esperienza militante maoista, di dividere l’eredità strutturalista. Da un lato una visione strutturale propriamente detta, che chiamo “algebrica”, e di cui Mallarmé è il referente, basata sulla teoria della causa evanescente (o dell’oggetto piccolo a come causa del desiderio in Lacan); il concetto fondamentale di questa visione è quello di mancanza. Dall’altro, una visione dinamica, che non chiamo ancora evenemenziale, ma “topologica”, il cui referente è il marxismo rivoluzionario riveduto da Mao; il concetto fondamentale di questa visione è quello di eccesso. Tutto si basa dunque sulla combinazione, in un processo concreto, tra la mancanza e l’eccesso, e sulle disposizioni soggettive che vi corrispondono: dal lato della mancanza, l’angoscia e il Super-io; dal lato dell’eccesso, il coraggio e la giustizia. Tutto ciò compone una visione molto complessa della soggettività politica, molti tratti della quale si ritrovano nelle mie opere posteriori.

 L.B. e A.C. Nel corso degli anni Ottanta si assiste al trionfo della sinistra mitterrandiana. I maestri dei decenni precedenti, tentati per un momento di collaborare col potere socialista, restano presto delusi, e vengono congedati cinicamente non appena esprimono delle prese di distanza. Si assiste al trionfo dell’ideologia della modernizzazione, all’apologia del mercato, ad un atlantismo appena mitigato da un europeismo ostentato, alla liquidazione del marxismo e di qualunque radicamento della sinistra negli ambienti operai, alla separazione consapevolmente orchestrata tra lavoratori “nazionali” e “immigrati”. I “pensatori” di riferimento diventano Jacques Attali, Pierre Rosanvallon, François Furet o Marcel Gauchet, che si accaniscono a liquidare e diffamare tramite campagne mediatiche i vari Foucault, Deleuze, Bourdieu, ecc. È l’epoca dei diritti dell’uomo, del moralismo antitotalitario dei “Nouveaux Philosophes”, che stabiliscono i nuovi codici del dibattito politico e intellettuale, e questa situazione perdura, anche se il consenso soffocante comincia a mostrare qualche crepa. Qual era la sua posizione all’epoca del mitterrandismo trionfante, in questo panorama ideologico molto ostile a tutto ciò che lei afferma? E in che misura quell’epoca è in continuità con l’era del «piccolo Sarkozy»?

 A.B. In quell’epoca stavo in uno scantinato, con alcuni amici, intellettuali o operai! Sono stato ostile a Mitterrand dal primo secondo, e avevo previsto la contro-corrente reazionaria cui avrebbe offerto una sponda. Ho subito compreso che i “nuovi filosofi” non erano altro che i nuovi cani da guardia dell’ordine capitalistico in piena restaurazione mondiale. Avevo visto che, lungi dall’essere un evento liberatore, il crollo del socialismo da caserma in URSS non era che la morte di un cadavere, le cui conseguenze sarebbero state ancora più nefaste di quanto non lo fosse stato il suo sussistere cadaverico sotto Brežnev. Considero gli anni Ottanta come l’equivalente di ciò che furono, all’inizio del diciannovesimo secolo, gli anni della Restaurazione tra 1815 e 1830. Sullo sfondo di questa Restaurazione, lo ripeto, vi è il fallimento della Rivoluzione Culturale. Proprio come sullo sfondo dell’espansione imperialista tra il 1871 e la carneficina del ’14-’18 vi è il fallimento della Comune. Ma alla fine siamo sopravvissuti, abbiamo lavorato, inventato. Come all’inizio del ventesimo secolo ci dirigiamo senza dubbio verso la guerra. È allora tempo di ricordare ciò che disse Lenin: «O la rivoluzione impedirà la guerra, o la guerra provocherà la rivoluzione».

 L.B. e A.C. Sarkozy: di che cosa è il nome? è il quarto volume della serie Circonstances, che riunisce interventi su temi d’attualità che richiedono un lavoro filosofico di “sblocco”. Ciò non ha mancato di suscitare polemiche assai aspre – in particolare Circonstances III, il cui titolo era Portées du mot “juif”.[9] Questo tema non è meno scottante in Italia che in Francia. Vuole dirci qualcosa sulla sua posizione in proposito?

 A.B. Le mie Circonstances si propongono proprio lo scopo di avviare delle vivaci polemiche sull’uso delle parole (“terrorista”, “democrazia”, “umanitario”, o anche “arte contemporanea”) e di prender posizione rispetto a decisioni statali precise, come la legge che impedisce alle liceali di portare un foulard sulla testa, l’invio di truppe in Afghanistan, ecc. In questo quadro io e Cécile Winter ci siamo chiesti come subentrasse esattamente, nel dibattito politico e “democratico” contemporaneo, il predicato comunitario “ebreo”. Abbiamo allora riunito degli studi, alcuni dei quali vecchi di vent’anni, e ne abbiamo scritto di nuovi. Tutto ciò per trasmettere la nostra convinzione: l’uso politico della parola “ebreo” è oggi, specialmente in Francia, reazionario, asservito all’esistenza di uno Stato semi-coloniale, contemporaneo alla Restaurazione capitalista, legato alle categorie nefaste di Occidente e “valori occidentali”, che coprono come una foglia di fico la brutalità dell’egemonia americana. Tutto questo non aveva nulla a che fare con chicchessia sotto qualsivoglia predicato, ma unicamente con la strategia d’impiego di una parola nel campo ideologico. Aggiungo che quest’uso è estremamente nefasto, non solo per gli ebrei reali, ma anche per l’avvenire di Israele, che dovrà pure un giorno divenire un magnifico Stato binazionale. Il tumulto scatenato da questa messa a punto, tranquilla e segnata dal sigillo dell’evidenza, le ingiurie stupide rovesciate dai pennivendoli dell’ordine stabilito, sono nell’ordine delle cose. Siamo felici di esserci esposti in questo modo. È appunto questo lo scopo della serie Circonstances.

 L.B. e A.C. Quali sono i suoi progetti attuali e futuri? Sappiamo che sta lavorando ormai da qualche anno ad una ritraduzione della Repubblica di Platone il cui titolo sarà Traité du communisme…!

 A.B. Visto che credo che l’universalità sia quella delle verità, quale che sia il sito della loro produzione, ritrovo evidentemente il Platone delle Idee, o delle verità eterne. Ho dato vita ad una sorta di ciclo platonico. Innanzitutto, il mio seminario mensile presso l’École Normale Supérieure, che ha per titolo: Pour aujourd’hui: Platon! e durerà senza dubbio tre anni. Poi sto scrivendo la sceneggiatura di un film, La vie de Platon, che intendo realizzare un giorno. Infine, e soprattutto, proporrò della Repubblica una traduzione integrale, che chiamo una “ipertraduzione”. Dapprima, attraverso il più ravvicinatamente possibile il testo greco, non lasciando nulla in ombra, affrontando le difficoltà sintattiche e semantiche, finché tutto non mi sia chiaro; poi propongo il mio proprio testo, a volte estremamente prossimo all’originale, a volte molto più distante.

Il mio proposito è quello di materializzare l’esistenza assolutamente contemporanea di questo libro, di fargli dire, dal suo interno, che noi oggi esistiamo con lui. Diciamo che innesto questa contemporaneità di Platone, quale io la vedo, sul testo che ci è pervenuto. Donde un albero ad un tempo antico e nuovo. La pubblicazione è prevista per il 2010, col titolo Du commun(isme).

Ho altri tre progetti, in formato più ristretto. Innanzitutto, pubblicherò presto un Secondo manifesto per la filosofia, vent’anni dopo il primo. Poi, l’anno prossimo, sempre in virtù del mio interesse per i rapporti tra il pensiero dialettico e gli sviluppi della logica formale, conto di far uscire un libretto, più tecnico, dal titolo Les trois négations. Vi sarà un Circonstances 5, che verterà, a partire dalla Comune di Parigi, dalla Rivoluzione Culturale e dal Maggio ’68, sulla nozione equivoca di fallimento storico. Aggiungiamo per finire, e per far numero, che nel gennaio prossimo uscirà un libretto dedicato a Wittgenstein[10].


[1] A. Badiou, Logiques des mondes. L’être et l’événement 2, Seuil, Paris 2006.

[2] A. Badiou, L’essere e l’evento, trad. di G. Scibilia, Il Melangolo, Genova 1995; ed. or. L’Étre et l’Événement, Seuil, Paris 1988.

[3] A. Badiou, Ontologia transitoria, trad. di A. Zanon, Mimesis, Milano 2007 (ed. or. Court traité d’ontologie provisoire, Seuil, Paris 1998), che fa parte, insieme a Metapolitica (trad. di M. Bruzzese, Cronopio, Napoli 2003; ed. or. Abrégé de métapolitique, Seuil, Paris 1998), e all’Inestetica (a cura di L. Boni, Mimesis, Milano 2007; ed. or. Petit manuel d’inesthétique, Seuil, Paris 1998) della trilogia del 1998, sorta di transizione tra L’Étre et l’Événement I e II.

[4] «Inexistance», modellato sul neologismo di Jacques Derrida «différance», tradotto talvolta con ‘differanza’.

[5] Verso del testo francese dell’Internazionale, che in effetti non è all’indicativo futuro ma al congiuntivo esortativo: «soyons tout».

[6] A. Badiou, Il concetto di modello, trad. di G. Lanzi, Jaca Book, Milano 1975; ed. or. Le Concept de modèle, Maspero, Paris 1969, nuova ed. Le Concept de modèle. Introduction à une épistémologie matérialiste des mathématiques, Fayard, Paris 2007.

[7] A. Badiou, Petit panthéon portatif, La Fabrique, Paris 2008. Il volume raccoglie una dozzina di omaggi ai pensatori scomparsi che più hanno contato per Badiou, da Sartre a Derrida.

[8] A. Badiou, Théorie du sujet, Seuil, Paris 1982, reédition Fayard, Paris 2008.

[9] A. Badiou, Portées du mot «juif». Circonstances, 3, Lignes-Leo Scheer, Paris 2005.

[10] Sono appena usciti in Francia il Second manifeste pour la philosophie, Fayard,  Paris 2009 e L’Antiphilosophie de Wittgenstein, Noos, Caen 2009.

[Immagine: Andy Warhol, Falce e martello (1976) (gm)]

5 thoughts on “Sovvertire la chiusura del presente. Intervista ad Alain Badiou/2

  1. Non è una filosofia, è un “pastiche” filosofico che vorrebbe assomigliarle.

  2. @rino genovese

    Badiou è un autore controverso e difficile da seguire in certe contorsioni. Però quello che di lui ho letto nasce da uno sforzo autentico di pensare e sovvertire la doxa. Forse ci vorrebbe più fiducia nei suoi confronti, più ascolto.

  3. Finalmente ha ammesso che prima confondeva l’evento con l’avvento divino.
    Ora deve capire che l’immanenza non può accettare e piagarsi a rappresentanze universalistiche ideologiche, aggiustamenti ideali complessivi (il farsi una ragione consolatoria e contemplativa) ma solo contagiare.
    “Solo” contagiare e idealisticamente poco, ma materialisticamente il contagio infetta e trasforma tutto, dal corpo, alla coscienza fino alle cose.

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