di Andrea Agliozzo

 

«… but she felt that he was staring at the high, hard wall which stood between himself and his past»

James Baldwin, Another Country

 

1. Introducendo Profezie e realtà del nostro secolo (1965), l’antologia di testi di autori quali Sartre, Adorno, Fanon, Lévi-Strauss, Foucault ecc., Franco Fortini anticipava una critica a quel «controllo dell’oblio» che, a circa vent’anni di distanza, affilerà con precisione in un articolo pubblicato sul «Corriere della Sera» il 24 febbraio 1982. Fin dal secondo paragrafo della sua prefazione, Fortini individuava nel «meccanismo della dimenticanza» il vero strumento di controllo del potere egemonico, l’arma totale che «soccorre sempre la causa peggiore»; e lo poneva in relazione all’organizzazione delle lotte sociali: «non per nulla» – dichiarava in chiusura – «uno dei massimi problemi dei movimenti di emancipazione è riuscire a stabilire una continuità di memoria fra le generazioni degli oppressi».[1]

 

Dieci anni prima, Herbert Marcuse (altro autore ospitato in due sezioni di Profezie e realtà del nostro secolo) definiva l’omogeneo fluire del tempo come «il più naturale alleato della società nel suo intento di conservare legge e ordine, posizioni conformiste e istituzioni che relegano la libertà nel campo delle eterne utopie».[2] Contro la tendenza ad arrendersi al tempo, a dimenticare ciò che è stato e ciò che potrebbe essere, Marcuse identificava, come compito «più nobile» del pensiero, il «restaurare i diritti del ricordo, quale veicolo di liberazione».[3]

Il rapporto tra passato di classe, presente sociale delle lotte e orientamento dell’azione politica del soggetto viene collocato al centro di due conferenze presentate da Didier Eribon nell’aprile 2008, in occasione della consegna del «James Robert Brudner Memorial Prize» – successivamente rifiutato – dell’Università di Yale. I due testi assumevano un taglio teorico e miravano a rispondere alla domanda «che pensare?», prima ancora di formulare una risposta alla tormentata questione «che fare?». Nel primo dei due interventi, intitolato «The Dissenting Child: A Political Theory of the Subject», Eribon indagava in particolare lo spazio dell’infanzia e la costruzione del soggetto minoritario in relazione al carattere performativo della memoria e alle trasformazioni storiche e politiche del discorso di classe, insistendo sull’impossibilità di scindere il presente e il futuro delle lotte dal passato sociale inscritto nella forma e nel corpo di ogni soggetto. Di fronte a una metamorfosi radicale tanto degli ethos quanto delle referenze intellettuali della sinistra – metamorfosi che avrebbe permesso alle destre populiste di assorbire e risemantizzare il discorso della classe operaia («non si parlò più di sfruttamento e di resistenza, ma di “modernizzazione necessaria” e di “rifondazione sociale”, non si parlò più di rapporti di classe, ma di “vivere insieme”, non si parlò più di destini sociali, ma di “responsabilità individuale”») –, Eribon suggeriva la possibilità di superare la scelta di una singola lotta contro differenti modalità di dominazione, per rifondare un blocco comune di opposizione, consapevole al contempo dei conflitti interni ai movimenti di emancipazione, di critica e di rivendicazione. «The Dissenting Child» poneva il lettore davanti a questioni fondamentali all’interno del dibattito sulle identità e sulle soggettività:

 

Se ciò che siamo si situa all’intersezione di molteplici determinazioni collettive, e dunque di molteplici “identità”, di molteplici modalità di assoggettamento, perché stabilirne una piuttosto che un’altra come fulcro della preoccupazione politica? Certo, si sa che ogni movimento ha la tendenza a imporre come primordiali e prioritari i suoi principi specifici di divisione del mondo sociale. Ma se è vero che sono i discorsi e le teorie che ci fabbricano come soggetti della politica, non abbiamo allora il compito di costruire discorsi e teorie che ci permettano di non trascurare nessun aspetto, di non lasciare fuori dal campo della percezione o fuori dal campo d’azione nessun ambito dell’oppressione, nessun registro della dominazione, nessuna assegnazione all’inferiorità, nessuna vergogna legata all’interpellazione ingiuriosa? Teorie che ci permettano anche di essere pronti ad accogliere ogni nuovo movimento che vorrà portare sulla scena politica problemi nuovi e parole inascoltate e inattese?[4]

 

2. Basterebbero le prime pagine di Écrits sur la psychanalyse (Fayard, 2019) per riassumere gli snodi del lavoro di Eribon, orientato da più di trent’anni all’elaborazione di una teoria sociale, storica e politica del soggetto e dei processi di soggettivazione. Nella prefazione al suo ultimo volume, Eribon traccia le linee di un percorso intrapreso alla fine degli anni ottanta con le interviste a Dumézil, Lévi-Strauss e Gombrich, seguite da una monografia dedicata al filosofo e amico Michel Foucault (1989). Un percorso che segna una svolta decisiva nel 2009 con la pubblicazione di Retour à Reims, tradotto per Bompiani nel 2017 e da poco riadatto per il teatro da Thomas Ostermeier, che a ottobre porterà il suo allestimento italiano al Piccolo Teatro di Milano. L’epilogo di Retour à Reims, da cui la citazione riportata sopra è tratta, viene elaborato a partire dall’intervento di «The Dissenting Child», che rappresenta in un certo senso il centro attorno al quale si addensano le domande sollevate negli scritti precedenti e successivi della produzione di Eribon, dalle Reflexions sur la question gay (1999) a La société comme verdict (2013), fino ai Principes d’une pensée critique (2016), che Fayard ristampa adesso in una nuova edizione, in concomitanza con l’uscita del volume di scritti dedicati alla psicanalisi.

Come le opere che seguono o precedono il suo «ritorno a Reims», anche i Principes d’une pensée critique si inseriscono all’interno di un movimento discorsivo contrassegnato dall’esplorazione delle strutture sociali attraverso un’auto-analisi che rifiuta l’Edipo e la famiglia nucleare, servendosi piuttosto di categorie storiche e sociali per indagare le soggettività, individuali e collettive. Al pari delle altre raccolte dell’autore, i Principes d’une pensée critique sono prossimi a «un’autobiografia trasfigurata in analisi storica e teorica, o [a] un’analisi storica e teorica ancorata a un’esperienza personale».[5]

 

Lo stile dell’enunciazione eredita in buona parte una forma di ibridazione già sperimentata in Retour à Reims, dove la combinazione dei piani della scrittura autobiografica e del saggio di sociologia serviva a condurre un’esplorazione articolata del sé e delle strutture sociali della classe operaia, milieu d’appartenenza dell’infanzia e dell’adolescenza di Eribon a Reims. Il volume è sorretto da una struttura geometrica che veicola un significato coerente al modello teorico impostato dall’autore per la ricerca: dai due saggi iniziali della prima parte, consacrata alla Teoria del soggetto (questo il sottotitolo, poi eliminato, di Retour à Reims), Eribon vira verso uno studio oggettivo delle norme e dei diritti, intercalato da due capitoli dedicati in maniera più esplicita alla teoria critica (Être convoqués. Théorie des ensembles pratiques, pp. 93-128; La voix absente. Philosophie des états généraux, pp. 129-157). L’ultimo dei sei capitoli – Vies hantées. Subjectivité, sexualité, créativité, pp. 191-222 – marca una curvatura della materia verbale verso il saggio iniziale (non a caso intitolato Dates de naissance. Récits de soi et ontologie du présent, pp. 17-53), riproducendo così, nella struttura del volume, la strategia del ritorno che caratterizza gran parte del lavoro teorico di Eribon. Vies hantées funziona inoltre come spinta retroattiva che riafferma l’impossibilità di separare il soggetto individuale dalle esistenze del passato e del futuro che infestano (hantent) le vite del presente. Se la conclusione di Retour à Reims era stata elaborata sulla spinta di «The Dissentig Child», la raccolta dei Principes viene parallelamente stabilizzata da Vie hantées, il secondo dei due testi presentati a Yale («Haunted Lives : AIDS and the Future of Our Past»). La simmetria dei due epiloghi conferma il rapporto speculare tra Retour à Reims e i Principes, facendo del secondo una sorta di commento a margine del primo. Motivo portante di entrambi i lavori rimane il nesso inscindibile tra lotte sociali, memoria storica degli oppressi e traiettoria biografica.

 

3. La corrispondenza tra scrittura autobiografica del ritorno e teoria critica del soggetto viene spesso ricordata nei sei contributi del volume, scanditi dalla necessità di condurre un’indagine del proprio sé in quanto sé sociale – una «socio-analyse» – quindi un’indagine sulla propria famiglia, la propria storia e, nel caso specifico dell’autore, sulle trasformazioni della classe operaia. Quest’ultimo punto era già stato indagato da Eribon nelle pagine di Retour à Reims, dove, accanto a una riflessione sulla costruzione sociale della sessualità, aveva fotografato e interrogato la parabola di una parte consistente dell’elettorato francese dal PCF al Front National.

Adottando una forma particolare di saggio, Eribon intende dunque ricavare nei Principes i determinismi sociali che producono i soggetti e le soggettività ed esercitano i loro effetti sul corpo e sulla mente di ogni individuo fin dalla sua nascita (e in un certo senso, precisa l’autore, ancor prima che il soggetto venga al mondo). La possibilità di rientrare nella propria biografia rappresenta un momento imprescindibile di costruzione di una teoria critica orientata all’azione politica. Scrivere di sé significa «lanciarsi nella sfida infinita di un “ritorno” a sé stesso» che rivela le sue potenzialità critiche «nei casi dei “transfughi”, degli esiliati e dei déplacés di ogni genere, quando il “ritorno” a sé stessi, concepito come una “introspezione” storica e sociologica, accompagna […] il ritorno reale, fisico e mentale a quello che un tempo era il “mondo natale”, con il quale più o meno interamente è avvenuta la rottura» (Principes, p. 55).

Un doppio movimento di reciprocità accompagna il discorso autobiografico – e critico – di Eribon: a una presa di distanza radicale dal luogo di origine – così prossima alla fuga, al rifiuto, se non addirittura al tradimento – segue un ritorno necessario verso i luoghi d’appartenenza, provocato il più delle volte da un evento traumatico (la morte del padre, nel caso di Ritorno a Reims). Questa generale piegatura della materia verbale accomuna l’autore a figure come Annie Ernaux o Édouard Louis, arrivando a costituire insieme a loro una sorta di gruppo o scuola, gravitante attorno ai motivi della honte e del ritorno quali motori produttivi che permettono di aprire uno spazio di riflessione pagato col prezzo di uno strappo brutale con i codici e con i gesti del luogo natale (a loro volta costruiti sulla base di spinte e controspinte egemoniche). Ricavando la sua forza dall’esperienza vissuta, la teoria critica diventa di conseguenza una lunga «odissea della riappropriazione»[6] che trova nella vergogna (honte) l’energia produttiva delle soggettività, da riconvertire e da utilizzare come mezzo attraverso il quale prendere coscienza dei meccanismi che strutturano il reale. La restituzione del processo di soggettivazione tramite la scrittura è definita non a caso una «honto-biographie» (Principes, p. 144), elaborata a partire dall’insulto istituzionalizzato come «verdetto sociale». Gli esempi di questo processo di scrittura del sé attraverso la vergogna e il verdetto vengono individuati nelle opere letterarie di autori come Assia Djebar e Violette Leduc, o ancora Annie Ernaux e, soprattutto, Jean Genet. Quest’ultimo viene osservato da Eribon in controluce con la lettura di Sartre, che nel suo Saint Genet aveva sondato i meccanismi della vergogna e della disperazione a partire dalla stratificazione biografica degli eventi traumatici dello scrittore francese, riconvertiti in orgoglio e affermazione del sé attraverso un’improvvisa riapertura della storia: una rottura di quell’«istante fatale» che altrimenti lascerebbe il soggetto alla mercé del suo verdetto, affidandolo alla monotonia del tempo.

Riconosciuta e al contempo distanziata, estraniata e ricondotta al suo contesto, la forza negativa del verdetto ha per Eribon il potere di attivare un percorso di conoscenza e di analisi sociale; a patto però di essere riconvertita in un movimento che porti a stabilire il significato dello spazio entro cui il processo di soggettivazione si inscrive. Per dirla con le parole dell’autore: «costruire una teoria sociale del soggetto richiede la ricostruzione dell’insieme dei verdetti che s’impadroniscono di noi alla nostra nascita e contribuiscono a definire ciò che siamo e ciò che saremo» (Principes, p. 32). Lo spazio sociale viene di conseguenza definito come l’insieme di tutti i verdetti che producono le soggettività, fondate su una tensione tra libertà e necessità radicata nel passato e nella storia, e implicita in ogni processo di scrittura letteraria. Teoria critica e soggettività stanno pertanto in rapporto reciproco con fuga e ritorno materiale dal e nel luogo, nella classe e nella cultura d’origine, ponendosi come vettori costitutivi del lavoro di ricerca di Eribon.

 

4. La necessità di elaborare una teoria politica del soggetto si inscrive entro le frontiere di una domanda determinante per l’autocoscienza – «perché fuggire?» ¬– volta a rintracciare le cause di un distacco mai limitato alla singola dimensione biografica, ma esteso sul terreno della storia e dei rapporti sociali (contro una vulgata di thatcheriana memoria, per Eribon non esistono gli individui, ma la società che li informa):

 

L’approccio critico deve svilupparsi come un’elaborazione sistematica dell’inconscio sociale strutturato, tra le altre cose, dalle appartenenze di classe, ma anche da tutte le appartenenze legate alla forza al contempo oggettiva e performativa delle categorizzazioni sulle quali riposa il funzionamento gerarchizzato del mondo sociale. La psicanalisi sociale di questo inconscio, costituita da sedimenti depositati nel corso della storia personale, e dunque collettiva, nella mente degli individui in funzione degli ambienti sociali nei quali sono stati socializzati, o delle identità che sono state date loro come habitat del loro essere-al-mondo, in particolare attraverso la nominazione ingiuriosa e l’assegnazione di categorie stigmatizzate, è uno dei principali mezzi, una delle principali risorse di cui dispone la critica per disfare le evidenze della doxa del mondo nel quale noi viviamo e la complicità tacita che ciascuno di noi, giorno dopo giorno, volente o nolente, gli accorda (Principes, pp. 11-12).

 

Riconosciute le esigenze della propria fuga, il soggetto può ricostruire, mediante il suo ritorno, i significati della distanza e le stratificazioni di un universo politico introiettato nella propria biografia; nonché affrontare il punto originale a partire dal quale la soggettività si sviluppa e continua a formarsi, sulla base di strutture sedimentate che lo abitano e per mezzo delle quali prende spazio e parola nel mondo. Il passato sociale e di classe risulta per questo inscindibile dalla costruzione e dalla comprensione di ogni soggettività, depositato e portato alla luce attraverso i gesti e le cadenze del corpo di chi lo abita. Scrive su questo Édouard Louis, nelle pagine finali del suo ultimo Qui a tué mon père:

 

La storia della tua sofferenza porta nomi e cognomi. La storia della tua vita è la storia di queste persone che si sono succedute per abbatterti. La storia del tuo corpo è la storia di questi nomi che si sono succeduti per distruggerlo. La storia del tuo corpo accusa la storia politica.[7]

 

Il modo di occupare uno spazio e di interagire con il mondo riflette un sistema di leggi indirettamente espresse dal corpo, dalle posture e dai gesti, che superano il controllo del soggetto sul proprio linguaggio e sul proprio pensiero, e impongono l’attraversamento critico e la messa in luce di un sistema di norme introiettate e passate sotto silenzio. Norme che la teoria critica ha il dovere di districare ed elaborare. I gesti trascendono per Eribon l’educazione familiare, l’Edipo (un Edipo che per l’autore è eterocentrico ed etnocentrico, in aperta polemica con il discorso lacaniano), per inserirsi in una dimensione più ampia di costruzione sociale: tra tutti, lo spazio della scuola e del sistema educativo (la cui critica è fortemente debitrice del lavoro di Bourdieu); ma anche il rapporto tra centro e periferia urbana e, soprattutto, tra gruppi sociali e classi. Le pause, le cadenze, i gesti del corpo – così come le pause, le cadenze, i gesti del corpo sociale di cui il soggetto fa parte – restituiscono una forma che viene mantenuta come elemento naturale e pacificato di una storia progressiva. L’assimilazione delle differenze e dei conflitti entro una linea temporale omogenea, priva di salti o di fratture, neutralizza la capacità di elaborare alternative rispetto a un pensiero globalizzato, che invita viceversa gli uomini a dimenticare «un migliore passato e un futuro migliore», per dirla ancora con Marcuse.

 

5. Nella sua teoria critica del soggetto, orientata al riconoscimento delle forme e dei verdetti sociali, Eribon insiste inoltre sulla necessità di riconoscere e mantenere attiva la contraddizione. La più generica – e certo problematica – dialettica tra dominanti e dominati (i cui confini risultano meno netti e i vettori quasi mai unidirezionali, inseriti come sono nella contemporanea geopolitica dei rapporti globali) viene estesa, nei Principes, in due spazi complessi: sia nella relazione tra i diversi gruppi minoritari; sia tra le voci che il ricercatore sceglie volontariamente di far parlare, imponendo loro un atto di violenza compiuto attraverso il processo di scrittura. Esemplare risulta su quest’ultimo punto l’episodio raccontato da Eribon della madre, lettrice e al contempo protagonista del suo Retour à Reims, che nel dialogo con il figlio-autore rivela lo scarto tra chi detiene i mezzi (economici e culturali) per scrivere la violenza, e il soggetto – oppresso e al contempo oppressore – di quella violenza socializzata: «mi metteva a disagio» – confessa Eribon – «scrivere libri che lei non riusciva a leggere, che parlavano di cose di cui non sapeva nulla e di cui non aveva la minima idea» (Principes, p. 80). Questo sentimento di distanza – che successivamente verrà definito, più che imbarazzo, vergogna (honte) – trasforma il transfuga in un nemico di classe per chi resta, rivelando una dissociazione in un certo senso costitutiva del processo di scrittura (e di soggettivazione) di Eribon:

 

Quello a cui lei mi aveva permesso di accedere, in quanto donna delle pulizie e poi operaia in fabbrica quando ero bambino e adolescente, aveva scavato un abisso tra me e lei, separati soltanto da un tavolino su cui erano poggiate le nostre tazze di caffè. Ed era come se entrambi ne prendessimo improvvisamente coscienza in quello stesso istante (Principes, p. 83).

 

Il conflitto e la contraddizione non riguardano soltanto il rapporto io-altro in un contesto intimo o familiare, ma si estendono a un’intera visione del mondo e alla programmazione dello spazio politico dei movimenti di lotta e di emancipazione. Come risposta alle tensioni che attraversano il soggetto in fuga, Retour à Reims tenta di tracciare «una cartografia – parziale, certo – dei campi di battaglia» (Principes, p. 60). Il saggio autobiografico di Eribon diventa per questo prossimo a un manifesto di guerra. Allo stesso modo, e in maniera del tutto complementare, i Principi si oppongono a una prospettiva durkheimiana di un’integrazione auspicabile per tutti i soggetti sociali in un ordine politico pacificato nelle categorie di «coesione sociale» o di «legame sociale (Principes, p. 60). Essi insistono viceversa sulla necessità di rifiutare un discorso conciliante che neghi o assimili la dominazione, l’oppressione, lo sfruttamento (nel suo ampio spettro d’azione), dunque l’accettazione del mondo così com’è. Il paradigma del transfuga risulta in questo senso fecondo: il suo spostamento rispetto al luogo d’origine – prodotto da un’esperienza che Eribon chiama «le clivage du moi» – permette di porre in movimento una forza come meccanismo di auto-analisi e di socioanalisi (Principes, p. 61). Questa dissonanza discorsiva – una sorta di dialettica in movimento – non può che compiersi come scarto sia rispetto alla storia e al passato del soggetto (la famiglia, il luogo d’origine, la classe); sia in relazione alle voci di un presente vissuto da coloro che rimangono.

Il passato biografico consente al contempo di leggere le stratificazioni sociali delle lotte; ma anche le contraddizioni e le tensioni tra movimenti, gruppi o “identità” minoritarie, ovvero la probabilità dei movimenti di entrare in conflitto tra loro. Tali contraddizioni devono essere assunte come fondamento di tutte le azioni politiche di trasformazione sociale – una sorta di «paradosso insormontabile», come lo ha definito Joan Wallach Scott [8] – dal momento che, scrive Eribon, siamo «tutti situati all’incrocio di diverse identità sociali, di diverse storie, di diverse inscrizioni storiche e potenzialmente politiche» (Principes, p. 50).

La sfida di una azione politica resta quella di mediare le istanze di rivendicazione in una teoria sociale cosciente dei paradossi costitutivi di ogni prassi di gruppo e al contempo lontana da ogni forma di pacificazione – o peggio, di naturalizzazione delle differenze. L’«intersezionalità» proposta da Kimberlé Crenshaw[9] si presenta in questo senso come una tra le nozioni più efficaci elaborate nel campo delle lotte sociali, ma al contempo tra le più problematiche, dal momento che essa continua a costruirsi senza sosta rispetto al passato e alla memoria, ovvero rispetto alle rappresentazioni politiche anteriori che non scompaiono del tutto nel presente, ma che anzi vanno assunte come momento dialettico di un movimento ininterrotto, sempre pronto ad accogliere nuove istanze di rivendicazione e di critica.

 

6. Il nucleo del lavoro di Eribon (stimolato dal deplacement della fuga) corrisponde in definitiva alla difesa della memoria contro un potere che – per tornare a Fortini e a Marcuse ¬– gestisce l’oblio e recide i contatti con il passato. Memoria che, come si è detto, oltrepassa i confini biografici e permette di ricostruire le coordinate di una storia collettiva fatta di oppressioni e di dominazioni. A conclusione del primo saggio dei Principes, l’autore riconosce il valore potenziale dell’apertura e della convergenza delle lotte, individuando nella contraddizione uno strumento indispensabile per la ricerca, se attivato all’interno di tensioni materiali e di rapporti col tempo e con il passato:

 

Esiste una contraddizione strutturale nella politica. È un fatto di cui possiamo rammaricarci. Ma non è forse la somma di tutte queste tensioni, di tutti questi processi divergenti, che, rendendo impossibile la globalizzazione chiusa in sé stessa, permette a nuove voci, a nuove parole, a nuovi soggetti politici… di emergere? E alla politica di opposizione e al pensiero critico di ricominciare sempre da capo? (Principes, p. 53).

 

Se da un lato le questioni sollevate nelle sei conferenze raccolte nei Principes permettono di attivare una sorta di «interpellazione» rivolta al pubblico (complice in questo il carattere orale dei sei testi); dall’altro, i numerosi interrogativi aperti producono talvolta incertezza nel lettore, che vede l’argomentazione piegarsi su sé stessa in un movimento circolare che fatica a convertirsi in una puntuale proposta di azione politica, proprio nel momento in cui l’autore ne dichiara l’esigenza. Il discorso di Eribon si rivela efficace nell’accurata analisi dei processi sociali o nella genealogia del soggetto e del presente mediante la ricostruzione della propria stratificazione biografica, ma rischia di attenuarsi nel momento in cui si tratta di indicare le matrici strutturali dell’oppressione (chi la fonda? per garantire quale egemonia?). Numerose sono le categorie interpretative che rimangono valide – su tutte, la vergogna e l’insulto come motori produttivi della soggettività –, stimolate da una scrittura ibrida che insiste sulla necessità di scovare gli interstizi in cui si annidano le contraddizioni più profonde del nostro vivere insieme; e soprattutto, gli effetti che tali contraddizioni hanno sulle nostre personali biografie. Su quest’ultimo punto si innestano le potenzialità politiche di una scrittura honto-analytique che, nella sua capacità di veicolare la storia non soltanto nei suoi contenuti ma anche nelle forme (una tradizione che, è bene precisare, reitera gli stessi meccanismi di oppressione), si offre come strumento di memoria socializzata, pronta per essere riconvertita, da chi saprà giovarsene, in una critica dialettica e mai conclusa ai processi di produzione delle forme della realtà materiale.
Chiarire il significato di parole come «memoria» e «avvenire», attraverso – ma non solo ¬– una soggettività come ritorno, pone l’urgenza di definire i modelli possibili di lotte che i soggetti e i movimenti possono e devono scegliersi. È anche attraverso l’elaborazione di quel passato biografico e sociale che diventa possibile aprirsi a un futuro programmato nel presente, mediando dialetticamente un conflitto che, oltre a coinvolgere specifiche norme e poteri, si incardina sulle polarità di memoria e oblio, vergogna e orgoglio, passato e futuro sociale.

 

Note

[1] Franco Fortini, Profezie e realtà del nostro secolo, Laterza, Bari 1965, p. VIII.

[2] Herbert Marcuse, Eros e civiltà, Einaudi, Torino 2001, p. 244.

[3] Ibidem.

[4] Didier Eribon, Retour à Reims, Fayard, Paris 2009 (tr. it. di Annalisa Romani, Ritorno a Reims, Bompiani, Milano 2017, pp. 212-213).

[5] Ivi, p. 20.

[6] cfr. Pierre Bourdieu, «L’odysée de la réappropriation», Awal. Cahiers d’études berbères, n° 18, 1998 (articolo citato da Eribon in Principes, p. 142).

[7] Édouard Louis, Qui a tué mon père, Seuil, Paris 2018 (tr. it. di Annalisa Romani, Chi ha ucciso mio padre, Bompiani, Milano 2019, p. 63).

[8] Joan W. Scott, Only Paradoxes to Offer: French Feminists and the Rights of Man, Harvard University Press, 1996 (tr. fr. La Citoyenne paradoxale. Les feminists et les droits de l’homme, Paris, Albin Michel, 1998; citato da Eribon in Principes, p. 49).

[9] Kimberlé Crenshaw, «Mapping the Margins: Intersectionality, Identity Politics, and Violence against Women of Color», Stanford Law Review, vol. 43, no. 6, 1991, pp. 1241–1299 (citato da Eribon in Principes, pp. 49-50).

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