a cura di Valentina Toschi
Ciò che interessa a Carlo Bordini non è l’ordine ma il paradosso, e cercare di affermarlo è per l’autore una ricerca esistenziale oltre che poetica. Da giovane trascorre una vita travagliata, tra cambi di facoltà, crisi personali e viaggi. Tra 1962 e 1970 si dedica totalmente all’attività politica come membro del Partito rivoluzionario trotzkista, rinunciando ad ogni tipo di avere, persino alla scrittura. Con gli anni Settanta Bordini decide di abbandonare la militanza, per dedicarsi agli ambienti degli emarginati e all’insegnamento universitario. È di questo periodo l’opera prima Strana categoria, pubblicata in ciclostilato in proprio nel 1975. Nel 1981 pubblica Poesie leggere e Strategia. Del 1984 è la plaquette Pericolo, edita in una versione più breve rispetto all’originale, rifiutata in seguito dal poeta, e ripubblicata in versione integrale solo nel 2004. Nel 1995 pubblica Mangiare, nel 1999 Polvere e nel 2008 Sasso. Dopo anni di emarginazione letteraria, nel 2010 Carlo Bordini dà alle stampe I costruttori di vulcani, 1975-2010: un’opera nuova più che un’antologia poetica, che porta l’autore ad affermarsi all’interno dell’ambito letterario, e ottiene un riconoscimento che non era avvenuto nemmeno agli esordi, quando Franco Fortini e Enzo Siciliano dimostrano interesse nei suoi confronti.
Con il nuovo libro Bordini cerca di riorganizzare la sua opera poetica in modo sincronico, riproponendo le sillogi e i testi all’interno in modo saltuario, senza rispetto per l’ordine cronologico di pubblicazione. L’intenzione di fondo è quella di mettere in luce una peculiarità della sua scrittura, ovvero quella di essere un’opera aperta: i testi sembrano non concludersi, i versi vengono ripetuti ad anni di distanza, ad ogni fine corrisponde un nuovo inizio, ad ogni morte una rinascita. Ecco che Bordini si presenta non solo come il poeta della dissipazione interiore e dell’entropia, ma anche come il poeta della ricostituzione post-mortem.
1.
Partiamo dall’opera prima Strana categoria (1975). Nella poesia “Lettera a G” che apre la raccolta affermi: «ma la malintesa dottrina doveva essere / un modo per curare la frustrazione». Che cosa intendi di preciso con dottrina? È possibile che tu abbia provato a crederci per costruire un’altra realtà, con cui distoglierti da un mondo che ti era già sgradito? Se la vita politica è stata una rinascita, così come lo è stata la sua fine, non sarebbe corretto parlare di una vita all’insegna di plurime reincarnazioni?
Questa poesia di Strana categoria, che non per caso è stata messa all’inizio del libro, è un breve bilancio, appena abbozzato, ma già chiaro, del periodo della mia vita dedicato all’attività militante. Per dottrina intendo il marxismo in tutti i suoi sviluppi, fino al punto in cui era arrivato nell’organizzazione trotskista di cui facevo parte. Per me era chiaro, ormai, che l’adesione a una teoria rivoluzionaria era stata un modo per eludere o “curare” i miei propri problemi personali, e soprattutto la mia propria incapacità di affrontarli e di risolverli. Ed era anche chiaro che questa dedizione totale a un obiettivo, questo subordinare tutto a un obiettivo, con la perdita quindi di una parte della nostra umanità («essere umani Giuseppe / ci parve un tradimento»), non riguardava solo me ma anche molte altre persone. Quello che trovo interessante è la tua ipotesi di una auto illusione, di un “aver provato a crederci”. Ebbene, sì, hai ragione, e di questo ho parlato esplicitamente in Poema a Trotsky e in Memorie di un rivoluzionario timido. Ed è anche vero che la mia vita è stata una serie di reincarnazioni, di morti e rinascite in cui l’elemento dell’illusione e del sogno giocava una parte preponderante. E che la mia scrittura è in parte preponderante una descrizione di questo stato d’animo. Comunque, Strana categoria ha voluto essere un libro corale, che riguardava un «noi» e non un «io». Un libro ancora politico, in definitiva. Un libro che in qualche modo mostrava che l’illusione e l’incertezza era l’incertezza di tutti. Ed è per questo che ha suscitato un interesse.
2.
Tutto ciò che ha a che fare con il tema della rinascita ha a che fare con la figura della donna. Ma le donne di cui parli spesso sono donne che si autodistruggono come l’uomo, o che distruggono l’uomo. Chi sono per te la donna e la ragazza? Come riesci a conciliare l’idea di una donna annientatrice ad un’idea di donna che può ancora generare la vita naturalmente?
Per avere una risposta esaustiva a questa domanda bisognerebbe consultare il mio psicanalista. Ma per schematizzare: la donna per me è la portatrice della vita, e in questo la donna si contrappone alla violenza imperante nel mondo che è prevalentemente di segno maschile. La guerra la fanno gli uomini. Il mondo, il genere umano potrebbe essere salvato (forse) soltanto da un rifiuto di quel tipo di violenza, e quindi da un atteggiamento di tipo femminile. Naturalmente questo credere nella salvezza individuale e collettiva ad opera dell’elemento femminile genera anche un sentimento di odio-amore e di delusione: la donna è spesso vissuta come quella che promette la felicità e non dà la felicità. L’aggressività nascosta delle donne esiste. L’amore si rivela spesso una delusione e una convenzione. Le ragazze? Le ragazze, infatti, sono l’utopia.
3.
E la dimensione infantile a cui ti riferisci ha a che fare con un ritorno al passato, ad un’età innocente della vita, o è anche in questo caso una rinascita?
Personalmente non sento il mito dell’infanzia, forse semplicemente per ragioni personali. Invece sento che tra la donna e il bambino c’è qualche elemento in comune, forse la dolcezza, forse la capacità di provare gioia, elementi che nell’uomo adulto non ci sono o in cui scarseggiano. In Polvere c’è una riflessione su una nuova vita che permetta alle ferite di ricompattarsi, una nuova vita in cui la dolcezza abbia un suo peso, una vita, insomma “femminilmente quieta”. Ammesso che sia possibile. Ma non si tratta di un ritorno all’infanzia. È una vita artificiale che bisognerebbe costruire, una nuova vita.
4.
Esistono due fasi poetiche della tua scrittura. La prima è eterogenea per contenuti e stile. Strategia (1981) è una raccolta di svolta e congiunzione con la seconda fase, in cui sembri raggiungere una maturità poetica: i testi seguono uno stesso tipo di discorso che si muove su due rette che si intersecano – il poetare oscilla tra momenti di lucida razionalità e momenti onirici. Tu come definiresti questa ricerca di equilibrio costante tra i due poli?
Con Strategia mi sono liberato dai temi politici di Strana categoria, sono uscito dal periodo di riflessione sulla mia esperienza politica. È come se la follia amorosa che caratterizza questo testo abbia bruciato tutto, mi abbia permesso di diventare una persona nuova. È stato un processo, a dir il vero, piuttosto doloroso. Ma anche prima, nella fase tra Strana categoria e Strategia, avevo cominciato a distanziarmi dal tono a volte verboso e retorico di Strana categoria, e lo avevo fatto tagliando moltissimo quello che scrivevo, cercando la brevità e la sintesi, e questo si è espresso nella plaquette Poesie leggere che, anche se uscì dopo Strategia, era stato concepito e iniziato prima. Quel tentativo di sintesi che andavo già cercando esplose dunque con Strategia, libro non perfetto ma felice.
Poi ho scritto Pericolo, che appartiene ancora alla prima fase, nel senso che è stato scritto subito dopo Strategia, ed è ancora un libro caratterizzato da un’esistenzialità debordante. Non inganni il fatto che lo abbia pubblicato più tardi e che la prima versione sia stata una versione mutila; il testo completo, pubblicato molto dopo, era in realtà stato scritto già nell’80, non molto tempo dopo Strategia. Ritengo Pericolo il testo migliore di questa prima fase, e, ancora, uno dei miei testi migliori, demente, profetico, mi permetto di dire, ed estremamente fantasioso, in cui, anche, i temi politici sono diventati immagini. È con Pericolo che si conclude la prima fase. Successivamente la poesia è rinata in me negli anni novanta; negli anni ottanta non ho scritto poesie ma alcuni testi narrativi (ho lavorato a lungo su quello che sarebbe stato Memorie di un rivoluzionario timido, ho scritto Gustavo) e sono stato assorbito dall’attività in Aelia Laelia, una piccola cooperativa editrice. Voglio anche sottolineare che i primi due libri di questa seconda fase, Mangiare e Polvere, contengono testi scritti contemporaneamente, e solo per ragioni editoriali divisi in due libri pubblicati con qualche anno di distanza tra loro.
5.
Sin dalla tua prima opera decidi di usare un linguaggio sperimentale, ricorrere all’accostamento metonimico, alla tecnica del montaggio o del collage. Perché?
Mentre facevo una ricerca mi imbattei in una serie di articoli che, su un giornale dell’Ottocento, descrivevano l’occupazione napoleonica dell’Italia. Li misi in versi, facendo gli opportuni tagli, perché mostravano con stupefacente chiarezza quello che era avvenuto.
L’uso nella mia poesia di linguaggi estranei (spesso settecenteschi e ottocenteschi, oppure di linguaggi tecnici, burocratici, o di testi pubblicitari) ha la funzione di denudare il linguaggio. Fuori del suo contesto naturale, in cui risulta quasi inavvertito, il linguaggio rivela la sua verità, il suo ridicolo, il suo orrore, la sua irrealtà, la sua assurda comicità, il suo significato profondo. Penso appunto a Appunti sulla guerra, a Materia medica, oppure a certe frasi che punteggiano Poema inutile. O, a volte, l’uso del linguaggio estraneo crea un senso di irrealtà, come se si trattasse di voci fuori campo, come nel caso di Pericolo e di Descrizione di un mattino d’estate.
6.
Il soggetto sembra non avere un’identità organica, ma sembra essere piuttosto un insieme di immagini, idee e sensazioni in continuo smottamento. L’Io sgorga dalla pagina come un qualcosa di non definito e le diverse sensazioni si riflettono nella scrittura nel momento stesso in cui sono vissute.
Questa non è una domanda ma un’affermazione di lettura ed io non ho nessuna risposta da dare. È vero che c’è questo continuo smottamento di immagini di stati d’animo ed anche di riflessioni, ma il mio tentativo è sempre stato quello di comporre, con questo insieme eterogeneo e primigenio e spesso istintuale, un’unità. Se ci sono riuscito non posso dirlo io. Ma nella tua domanda precedente mi sembra di capire che tu pensi che questo tentativo sia, sotto certi aspetti, riuscito.
7.
Nell’intervista rilasciata per Rai News, sostieni di aver sempre cercato di raggiungere finali forti. Sembra invece che alla fine ci sia sempre un qualche tentativo di chiusura esplosiva, che si tramuta puntualmente in un congelamento del verso. La tensione sembra non raggiungere mai una definizione, e a volte ricomincia da capo, chiudendo le sezioni o i singoli testi in modo circolare.
Questa domanda è molto interessante, e mi spinge a riflettere. Vediamo le cose nei dettagli, considerando non solo la poesia ma anche la narrativa. Strategia, Pericolo, Susanna hanno finali forti, in cui si sente chiaramente l’odore del dramma; il problema è che io voglio essere drammatico ma non melodrammatico, e mi dibatto quindi in questa lotta tra due opposti. Il melodramma ha un suo peso nel DNA italiano, beato chi non sente questo peso; chi lo sente combatte una lotta continua contro se stesso. Stravinsky diceva che Verdi poteva essere paragonato al Monte Bianco: aveva le vette più eccelse e gli abissi più orrendi. Il melodramma è la caduta del dramma in questi abissi. Io sento il pericolo di cadere dentro questi abissi e cerco di evitarlo. Un libro che amo molto e che considero un capolavoro è Il Gattopardo; là il dramma c’è, il finale è veramente drammatico, ma non cade mai nel melodramma. Non so se questo risponde in parte alla tua domanda.
Anche Polvere nella versione tradizionale ha un finale forte, a differenza di quella alternativa che non ce l’ha perché mentre quella tradizionale è drammatica, quella alternativa è elegiaca. E’ interessante come questo cambiamento dipenda unicamente da un diverso modo di spezzare un verso, o meglio, parte da là, in realtà le due versioni di polvere sono due universi paralleli, il che dimostra la giustezza del concetto che basta il volo di una farfalla per far cambiare tutto, e il fatto che si tratti di due universi paralleli dimostra i misteriosi legami tra la poesia e la scienza, come anche il fatto che la poesia è un frattale (cosa di cui parlai in un autoritratto che mi fece fare Fabrizio Fantoni sulla rivista di Luigia Sorrentino)
Ma per non divagare e tornare alla domanda, devo dire che anche Gustavo ha un finale forte, dato che il vero finale è quello del sogno di Gustavo, un finale decisamente drammatico, mentre il resto del libro sono titoli di coda. E anche il finale di Poema a Trotsky è decisamente forte. Anche Poema inutile ha decisamente un finale volutamente forte.
Cosa ho capito in fondo da questo ragionare con me stesso? Credo di aver capito che considero un libro, o un testo poetico lungo, come un’unità in cui privilegio quasi sempre finali drammatici. Ma nelle poesie brevi questo non avviene, e hai perfettamente ragione, Valentina, quando parli di sospensione, implosione e congelamento. Come si spiega questo? Secondo me si spiega col fatto che considero un libro, o un testo lungo, come un tutto unico, all’interno del quale possono esistere vari toni, non necessariamente “forti” o drammatici, ma che alla fine di questo percorso, come ogni “romantico”, cerco il dramma. E in tutto questo processo di composizione, nel cercare un tutto unico, ha, naturalmente, molta importanza il montaggio, basato sull’idea che una singola poesia non rappresenta soltanto sé stessa, ma una delle note con cui è costruito una sorta di testo sinfonico.
8.
In Millenovecentosettantatre presente in Strana categoria (1975) sostieni: «essere saggi non basta / occorre / una nuova sintesi». Una volta a Roma mi hai detto «Non possiamo più essere classici». Questo verso citato ha a che fare con il consiglio che mi hai dato? Cosa potrebbe essere per te una nuova sintesi e come si fa a superare il passato?
Le avanguardie storiche hanno distrutto l’idea che l’arte potesse essere armonia. La stupenda bellezza della classicità è fuori dalle nostre vite. Tempo fa andai a Berlino a vedere la nuova architettura che hanno creata lì e pensavo continuamente: ma il Pantheon è meglio. Non ci voleva molto, perché il Pantheon è una meraviglia della classicità mentre la nuova architettura di Berlino è piuttosto tronfia, è una semplice brutta e maldestra esibizione. L’armonia delle grandi civiltà: ci sono certe costruzioni del periodo aureo dell’islamismo che sono di una bellezza eccezionale. Oggi non dico che non si possano fare cose bellissime, si possono fare, ma non possono avere l’armonia e l’equilibrio della classicità, devono avere un equilibrio diverso. In questo senso da più di cento anni l’arte non è più sinonimo di armonia.
L’idea che sia necessaria una nuova sintesi proviene dalla constatazione che negli ultimi centodue anni (1917-2019) tutti i tipi di realizzazione del socialismo, in qualsiasi parte del mondo e in qualsiasi forma, sono falliti, e che il mondo capitalista si sta autodistruggendo. Quale può essere una nuova sintesi? Non lo so, so solo che deve essere nuova, e che non può essere quella di un tempo, e che c’è poco tempo per trovarla.
9.
Io credo che tu sia riuscito a raggiungere una sintesi, intesa come momento dell’in sé e per sé, di sincronizzazione sullo stesso piano di tutte le tue vite passate. Vedo molto di questa in Poema inutile (2008) in cui costruisci un mosaico della tua esistenza: riprendi i diversi stilemi del tuo modus poetandi, versi già editi e i temi di tutta la tua opera in versi passata.
Spero che questo sia vero. Poema inutile, tra l’altro, formato da mille dettagli che formano qualcosa come un puzzle o come un mosaico, è simile, come struttura, a Pezzi di ricambio, che è un libro in prosa composto soprattutto di frammenti.
A questo proposito voglio dire che un amico poeta mi disse una volta: tu cerchi il disordine. Io gli risposi: no, io parto dal disordine e cerco l’ordine. Naturalmente l’ordine che si trova partendo dal disordine più caotico è un ordine relativo, in cui i singoli tasselli, anche se si cerca, con essi, di delineare una figura coerente, mantengono in buona parte il caos da cui sono nati.
Questo variare di temi e di toni può sembrare molto “moderno”, ma non credo che lo sia così tanto. Se prendiamo la musica romantica, ad esempio il secondo movimento della settima di Beethoven, troviamo che esso è pieno di salti inaspettati in cui l’armonia e l’arbitrio si mischiano e si compensano.
Amo molto Poema inutile, così come amo Pericolo, anche se in genere si dice che il mio testo migliore sia Polvere, o, per alcuni, Assenza, uno dei miei testi più recenti. Ma in Poema inutile e in Pericolo sento maggiormente l’esistenza e il pulsare della mia vita. Non so però se Poema inutile rappresenti davvero una sintesi o un punto di arrivo.
Tra l’altro voglio aggiungere che mentre scrivevo Poema inutile non sapevo assolutamente dove stava andando, ma sapevo che da qualche parte sarei arrivato. Accumulavo frammenti senza sapere dove mi avrebbero portato. E infatti, alla fine, è venuto fuori un qualcosa che dà un significato complessivo a tutto il testo.
10.
La ricerca di una sintesi per te è una prerogativa esistenziale, un momento di affermazione e di negazione allo stesso tempo, cioè un paradosso. Sembra che Pericolo (2004) esprima in modo evidente come la vita sia una costante ricerca di equilibrio, lo stesso a cui sembri voler andare incontro nel momento in cui scrivi. Ma questo ordine non può essere raggiunto, sostieni infatti: «non ho mai cercato invece di trattenere tutta la realtà in uno schema, per questo non ho il mal di testa». Se la contraddizione è una linea di confine tra il vero e il falso, e il pericolo un avvertimento, cosa significa per te affermarla?
Pericolo è un poema sulla depressione, scritto in una fase di depressione assai grave. I suoi versi sono lunghissimi, a volte abnormi; l’idea del ritmo che mi è venuta in mente quando ho cominciato a scriverlo, e che mi ha accompagnato fino alla fine, è quella del tuono, del tuono di alta montagna, questo modularsi assai lungo di suoni che sembrano non finire mai.
La lunghezza dei versi dà l’idea di questa immobilità dolorosa perché senza sbocchi, e insieme pensosa. Ciò che lo caratterizza è il passaggio continuo da un tema all’altro; è come un ripercorrere vari gradi della sofferenza e insieme della consapevolezza; la sua struttura è dunque certamente quella di una via crucis.
Se gli ultimi versi di Strategia erano quelli di una folle maniacalità, e quindi completamente e “assurdamente” verticali, qui avviene il contrario: i versi sono orizzontali come l’immobilità. In esso sono descritti i diversi gradi di sofferenza e di stati maniacali e allucinatori.
Il pericolo che dà il titolo al testo e che è descritto nel primo punto è il desiderio, il “caro pericolo” che provoca sofferenza, che si identifica con la tortura, che è necessario sfuggire e che si ripresenta continuamente.
Nel punto I del testo c’è un breve ritratto del poeta Ferruccio Brugnaro. Lui non lo sa. Non gliel’ho mai detto.
Per quel che riguarda la contraddizione, rimuginare sulla contraddizione ed esibire la contraddizione, propria e altrui, è un modo per mostrare quello che c’è dietro la realtà apparente delle cose. È anche un atto politico. E, naturalmente, anche terribilmente esistenziale. (E in questo caso credo che sia opportuno citare il vecchio slogan: il personale è politico). Io ho cercato di definire questo atteggiamento con un termine abbastanza impreciso: iperverità. È stato molto più preciso Guido Mazzoni in una frase del saggio introduttivo al mio Difesa berlinese che mi permetto di citare: “Esistono opere fondate su un principio di coerenza e opere che poggiano sulle proprie contraddizioni. Le opere di Bordini appartengono al secondo tipo: trasformano le contraddizioni in momenti di verità”. Aggiungo che la mia non è solamente una ricerca di verità ma che c’è un piccolo animale che mi accompagna costantemente: il senso di colpa.