di Gianfranco Pellegrino e Marcello di Paola
[Proponiamo un estratto dal volume Etica e politica delle piante, appena uscito per i tipi di DeriveApprodi, ad opera di Gianfranco Pellegrino e Marcello Di Paola, e con contributi di Simone Pollo e Alessandra Viola].
La tecnica del bonsai impiega procedure per costringere certi generi di alberi a limitare drasticamente il proprio accrescimento naturale. Si usano fili metallici che costringono lo sviluppo della pianta, e si praticano potature periodiche alle radici e ai rami. Lo scopo del bonsai è largamente estetico: un albero che, in natura, raggiungerebbe venticinque metri d’altezza è magistralmente “ricreato”, per così dire, in un piccolo vaso di pochi centimetri, e vedere il risultato e immaginare la maestria richiesta dal processo procura, almeno a molti osservatori, un delizioso senso di stupore.
Non è chiaro se il bonsai, per quanto magistralmente condotto, non sia moralmente criticabile in quanto infligge sofferenza alla pianta, o ne costringe in maniera impropria il naturale sviluppo. Non è neanche chiaro se ci sia una qualche differenza fra potare ulivi e altri alberi per costringerli ad avere una certa forma in ridottissime dimensioni, come fa il bonsai, e potare ulivi e altri alberi per ottenere una migliore fruttificazione, come si fa in agricoltura. Né è del tutto chiaro se ci sia una differenza fra potare rami e potare radici.
Si potrebbe sostenere che l’olio ed altri frutti sono componenti essenziali per la nutrizione umana, laddove del piacere del bonsai si può facilmente fare a meno. La nutrizione umana prevale, si potrebbe suggerire ancora, sull’interesse (presunto) delle piante a seguire il loro naturale corso di sviluppo, ma il desiderio di affinare la propria maestria e di stupirsi di chi ama i bonsai non può prevalere sull’interesse (presunto) della pianta.
Ma questo vorrebbe dire che dovremmo fare a meno del tutto di piante ornamentali? In molti giardini, arbusti di bosso vengono potati in forme grottesche – conigli, anatre, e altre sagome riconoscibili: la cosiddetta “arte topiaria” – per suscitare interesse estetico nei fruitori. E che dire allora delle piante edibili? Nei campi, le piante di lattuga vengono coltivate per poi essere mangiate. Queste attività umane sono in qualche modo ingiuste verso le piante che ne sono oggetto, o sbagliate o biasimevoli, nello stesso modo in cui potrebbe essere ingiusto, sbagliato o biasimevole ingrassare animali e poi farli a pezzi per mangiarli?
Si potrebbe anche dire, d’altra parte, che gli interessi umani – interesse al cibo e al godimento estetico – in realtà si conciliano con gli interessi delle piante, dal momento che l’agricoltura e i vivai di piante ornamentali fanno nascere piante che altrimenti non sarebbero nate. Se a queste piante viene garantita una vita abbastanza buona – per esempio, se si fa in modo che le deviazioni rispetto al corso naturale del loro sviluppo non siano eccessive –, allora per loro è probabilmente meglio essere nate che non esserlo. E l’agricoltura e la produzione di piante ornamentali producono anche nuove specie di piante, accrescendo così l’ammontare di biodiversità sul pianeta – e si potrebbe sostenere che la biodiversità abbia valore in sé. Questo modo di ragionare potrebbe essere un modo di distinguere il bonsai dall’agricoltura e dall’attività vivaistica – sostenendo che le seconde siano accettabili, laddove il primo sia più controverso.
Ma, in realtà, la posizione più diffusa è semplicemente che le piante non abbiano interessi propri o valore in sé – e quindi che non ci sia differenza, né ragione etica di cercarne, fra bonsai, coltura orticola e produzione di piante ornamentali. Joel Feinberg afferma che «non è possibile trattare gli alberi né gentilmente né crudelmente». Le piante, continua Feinberg, sono come le automobili: si può dire che l’albero abbia bisogno d’acqua e che sia un bene per esso riceverla, come si può dire che la macchina abbia bisogno di benzina e che sia un bene per essa avere il serbatoio pieno; ma in realtà è il proprietario umano sia dell’albero sia della macchina che ha necessità che le due cose funzionino bene, che la macchina cammini e che l’albero produca frutti e ombra – e l’acqua e la benzina sono necessari perché ciò accada. Questa sembra la visione prevalente: è assurdo pensare che si possa essere crudeli verso le piante, così come sarebbe assurdo pensare che sbatacchiando un cuscino lo si stia trattando con crudeltà.
Per Feinberg c’è una distanza morale incolmabile fra piante e umani (e altri animali). Ecco un esempio chiaro di ciò che egli ha in mente. La tecnica del bonsai, elaborata in Giappone, ha origini cinesi: essa deriva da una tecnica chiamata penzai o penjiing. Nella tradizione cinese c’è un’altra tecnica, detta del Loto o del Giglio d’oro: essa consiste nel deformare i piedi delle donne, tramite fasciature, in maniera da mantenere la pianta del piede fra i sette e i dodici centimetri. Anche in questo caso la pratica ha scopi estetici: un piede piccolo viene considerato sinonimo di bellezza muliebre. Eppure, la reazione a questa pratica da parte di coloro che sono estranei alla cultura cinese (e anche di moltissime persone cinesi) è nettissima: si tratta di una forma di tortura crudelissima e assolutamente non giustificabile. La chiameremmo una mutilazione, anche se tecnicamente non ci sono asportazioni né cesure. Ma diremmo, per analogia, che il bonsai, che effettivamente pratica mutilazioni, è una forma di tortura degli alberi? Non è chiaro – e se anche lo dicessimo non lo diremmo certamente con lo stesso grado di turbamento morale.
Eppure le piante – ben più di automobili e cuscini – sono state e sono una presenza continua, prevalente ed essenziale, per quanto discreta, nella vita della specie umana e di tutte le altre specie animali che vivono sul pianeta Terra. Le piante superiori costituiscono oltre l’80% della massa eucariotica, o della biomassa visibile, del pianeta Terra – gli esseri umani sono lo 0,01% dell’intera biomassa del nostro mondo. Se i vegetali non avessero colonizzato la Terra, la vita animale e umana non sarebbe stata possibile: le sostanze organiche di cui sono composti animali ed esseri umani sono interamente prodotte dalle piante.
Il mondo in cui viviamo e che conosciamo, lo stesso regno animale a cui apparteniamo, esiste perché le piante hanno colonizzato il pianeta. Le piante sono apparse circa 450 milioni di anni fa, quando la Terra era avvolta da alte concentrazioni atmosferiche di biossido di carbonio di origine vulcanica, che producevano temperature elevatissime, tempeste e tifoni e altri fenomeni violenti – un ambiente in cui molte delle specie oggi viventi sul nostro pianeta, incluso Homo sapiens, non avrebbero potuto svilupparsi. La comparsa delle piante – la comparsa di foreste – produsse l’assorbimento di una gran quantità di biossido di carbonio atmosferico, che venne utilizzato per creare ossigeno e sostanza organica, producendo così le condizioni necessarie per la nascita della vita animale terrestre.
Un infinito numero degli oggetti utili per noi umani deriva dalle piante: cibo, legna, vestiti, carburanti, medicine e molto altro. Sono le piante che, grazie alla fotosintesi, producono ossigeno, elemento indispensabile per tutta la vita animale – collegando così Sole e Terra e istituendo una sorta di eliocentrismo biologico (gran parte della vita dipende dal Sole). Sono le piante che aiutano a limitare l’inquinamento prodotto dalla vita organica degli esseri umani, assorbendo e degradando molti degli scarti inquinanti da noi prodotti. Sono le piante ad essersi fossilizzate in carbone, petrolio e gas naturale, che sono ancora le nostre fonti principali di energia. Dalle piante deriva tutta la materia organica prodotta interamente per via biochimica – la produzione primaria –, e si tratta di una quantità enorme (più di 100 miliardi di tonnellate di carbonio vengono fissate dalle piante ogni anno). Senza le piante – senza la fotosintesi che avviene nel cloroplasto – la Terra sarebbe come Marte o Venere: una palla di roccia fluttuante nello spazio. E se le piante si estinguessero, senza la fotosintesi e l’ossigeno che ne deriva, proprio quello sarebbe il destino della Terra: diventare come Marte o come Venere.
Ci viene facile ridurre le piante a sfondo e palcoscenico anche e forse proprio perché la gran parte degli ambienti in cui viviamo – anche in città, anche nelle nostre case – sono composti per lo più da piante. Ogni habitat – umano e animale – è anche habitat di piante. E la distruzione o il degrado degli habitat delle piante non può che avere conseguenze significative anche per gli animali e gli umani. Eppure, si può dire senza esagerazione che persino le scienze naturali abbiano in qualche modo snobbato le piante. La biologia contemporanea, esemplarmente, si è concentrata soprattutto sugli animali e, ciò che è epistemologicamente più notevole, ha generalmente sposato un’impostazione zoomorfica e zoo-centrica del vivente – incoraggiando inavvertitamente un giudizio di valore implicito che attribuisce agli animali – quelli umani in particolare – maggior valore rispetto al resto della natura.
Insomma, il ruolo e l’importanza delle piante nella vita umana è stato abbastanza trascurato. Questo, come detto, è in parte dovuto all’onnipresenza delle piante (paradossalmente), in parte alla differenza ontologica fra essere pianta ed essere umani, che rende molto più arduo per gli umani comprendere l’essere pianta che non comprendere l’essere animale, ed in parte anche a una scarsa comprensione della differenza fra la scala temporale della vita in generale – compresa la vita vegetale – e quella della vita specificamente animale. Ad esempio, si dice che le piante sono immobili: e invece la più recente botanica, e soprattutto la neurofisiologia delle piante, ci suggeriscono che le piante si muovono, si adattano all’ambiente in modo strategico, hanno forme specifiche di intelligenza, consapevolezza e azione (come vedremo nel 3.3.). Solo, lo fanno in maniere e su scale temporali non facilmente comprensibili dagli esseri umani.
Le piante hanno semplicemente intrapreso un percorso evolutivo differente. Tendiamo spesso ad assumere che l’evoluzione sia anche una sequenza di livelli di sviluppo, pensando così che alcuni esseri siano più evoluti, per così dire, di altri. In realtà, ogni organismo è egualmente evoluto, almeno nel senso di ‘adattato ai suoi ambienti e circostanze’. Tendiamo a pensare che gli organismi che si muovono siano più evoluti di quelli che non si muovono, poiché i primi fanno cose che i secondi non sanno fare. Ma ovviamente questa lettura è scorretta e fuorviante: gli organismi che non si muovono non hanno bisogno di muoversi. Sviluppando la fotosintesi, le piante non hanno avuto bisogno di spostarsi alla ricerca di cibo, ma si sono rese energeticamente autonome – garantendosi l’energia chimica necessaria alla sopravvivenza per mezzo della sola luce del sole. Gli animali, invece, obbligati alla predazione per nutrirsi, si sono trovati costretti al movimento. In virtù di questa loro storia evolutiva, le piante sono diventate i primi produttori di energia sul pianeta e i suoi più efficienti convertitori. Le piante regalano al resto del mondo vivente, sotto forma essenzialmente di ossigeno e cibo, quasi tutto quel che prendono dall’energia solare. Esse sono, di fatto, energia solare in tessuto cellulare. Anche in questo sono diverse dagli umani – superpredatori che consumano a ritmo crescente ed in modo largamente inefficiente risorse non rigenerabili, creando scarti che spesso non sanno riutilizzare.
Quando non sono state consegnate al ruolo di sfondo inerte o palcoscenico, le piante sono state assimilate a non-piante: sono state antropomorfizzate, oppure viste come rappresentazione o incarnazione di caratteristiche o valori umani, o animali. Nel canto XIII della Divina commedia, ad esempio, Dante e Virgilio si trovano in un bosco selvaggio e inospitale. Dante sente dei lamenti; immagina ci siano delle anime nascoste fra la vegetazione. Su invito di Virgilio, spezza il ramo di un arbusto. Ne escono contemporaneamente parole e sangue umano: la pianta è l’anima di Pier delle Vigne, macchiatosi di suicidio. Nell’Inferno dantesco, essere trasformati in un vegetale e subire il dolore della pianta quando viene privata di rami e foglie dalle Arpie è il destino di chi si toglie la vita. Dice Pier a Dante: «Perché mi scerpi? / non hai tu spirto di pietade alcuno? / Uomini fummo, e or siam fatti sterpi» (vv. 35-37). La sofferenza della pianta conta qui solo come vettore di sofferenza umana, e di sofferenza di umani specialmente manchevoli per di più: coloro che si sono sradicati dal mondo, che hanno potato la propria stessa vita. La pietà di Dante è invocata, e sarebbe stata appropriata, solo perché la pianta è in realtà un uomo: se Dante parlasse solo di una pianta, nel canto XIII non ci sarebbe nulla di “infernale”. Lo scempio della pianta, in ultima analisi, è del tutto oscurato dallo scempio di uno spirito umano, il quale a sua volta ha fatto scempio biologico di sé, come se la sua vita non fosse più che una vita di pianta, e parimenti estirpabile.
Dante non inventa dal nulla questo modo di vedere: la fonte prossima dell’episodio, dichiarata al v. 48, è nell’Eneide virgiliana, dove nel III canto Polidoro ha una sorte simile a quella di Pier delle Vigne (ritorneremo su Virgilio nel § 3.4.). Nella cultura occidentale le piante sono state l’alterità più nettamente definita ed insistita: esseri viventi come noi umani, eppure privi di tutto ciò che rende la vita animale umana (e animale generalmente) tale – senza movimento, senza intelligenza, senza razionalità, senza spiritualità, senza sentimenti, senza sensibilità. Lo stato in cui un corpo umano perde ciò che lo rende riconoscibilmente umano viene chiamato ‘coma vegetativo’ – il tormento vissuto da Pier delle Vigne e Polidoro è quello di essere ridotti in un coma vegetativo pur rimanendo coscienti, sentendo dolore e avendo consapevolezza: vivere ed essere trattati da piante ma senza il conforto dell’incoscienza vegetale, rimanendo umani. Se essere animali può essere una tentazione, la tentazione di abbandonarsi a vizi bestiali (ancora in Dante: «fatti non foste a viver come bruti», XXVI, v. 119), essere ridotti al rango di piante è un incubo, e la punizione acconcia per coloro che hanno rinnegato il valore del dono divino più grande, ricevuto nella sua forma più perfetta – la vita umana.
Lo sciovinismo antropologico/antropocentrico (e più generalmente zoo-logico/zoo-centrico) che impera su gran parte della filosofia morale e politica dall’antichità ai giorni nostri non ammette un valore delle piante in quanto tali. Per gli esseri umani è molto più facile identificarsi con gli animali che con le piante, la cui fisiologia risulta difficile da comprendere (l’antropomorfismo e lo zoomorfismo vanno facilmente insieme). L’apparente immobilità delle piante, la loro apparente mancanza di differenziazione, il loro essere apparentemente inermi e inette, rendono le piante poco salienti per i sensi degli esseri umani – facilitando così anche la scomparsa della vita vegetale dall’orizzonte dell’etica e della politica.
Quest’oblio è ingiustificato in sé e costituisce anche un problema urgente per l’etica dell’ambiente. Se non si dà valore alle piante, perché le si ritiene prive delle caratteristiche necessarie a generare valore (come l’autocoscienza, l’intelligenza, la capacità di provare sensazioni ed emozioni, di agire, di esercitare la volontà), allora non si potrà dare valore alla natura inanimata, cioè agli ecosistemi e al mondo naturale nel suo complesso, dichiarando così il fallimento di ogni tipo di etica dell’ambiente non fondamentalmente antropo- o zoo-centrica. Nella pratica, alcuni degli atteggiamenti più rapaci e noncuranti nei confronti della natura potrebbero ben derivare proprio dal nostro rifiuto o incapacità di aprirci alle piante e al loro valore, e addirittura alla stessa ipotesi che abbiano valore. Una buona quota della attuale crisi ecologica, possibilmente la più subdola e insidiosa, potrebbe risultare riconducibile a questa incapacità o rifiuto, e spiegabile attraverso il prisma delle nostre relazioni irrisolte con le piante. Se si dà valore alle piante si è sulla buona strada per dare valore alla natura tutta, inclusa tutta quella inanimata; e non solo come un insieme indistinto, ma come un ricettacolo di diversità e di specificità e particolarità inesauribile. Una visione del genere terrà conto, per esempio, del fatto che gran parte della natura è roccia, acqua, e piante: la vita animale si attesta, in proporzione, solo al quarto posto – la “nazione delle piante”, come la battezza Stefano Mancuso, è di gran lunga la più popolosa.
Evitare sia quest’oblio, sia l’assimilazione delle piante a qualcos’altro, potrebbe essere una prima buona mossa per facilitare un atteggiamento diverso, verso le piante e non solo. Un’etica e una politica delle piante potrebbero essere parti necessarie e rinforzi utili per un’etica e una politica dell’ambiente generalmente più efficaci. Bisogna però andare al di là dei nostri sensi e al di là dei nostri più tradizionali criteri etici: bisogna vedere la vita delle piante anche nei suoi aspetti più nascosti, più distanti dalla nostra vita animale, e considerarne gli aspetti di valore con metodica apertura mentale.
Questo libro intende contribuire a quest’impresa, dando al lettore un quadro della discussione filosofica sullo status concettuale, morale, e politico delle piante.
[Immagine: © Dan Matthews, Vegetal Distorsions, particolare].
Una prospettiva molto interessante, quella proposta. Ridimensionare l’antropocentrismo dovrebbe essere la linea guida per l’istituzione di una nuova civiltà rinnovata nei valori e nelle intenzioni, per quanto tale prospettiva sia sempre più rinnegata dalla dittatura consumistica che richiede l’impiego spesso irrazionale delle risorse del pianeta, fino alla loro predazione. Occorre riflettere e libri come questo servono. “Nella pratica, alcuni degli atteggiamenti più rapaci e noncuranti nei confronti della natura potrebbero ben derivare proprio dal nostro rifiuto o incapacità di aprirci alle piante e al loro valore, e addirittura alla stessa ipotesi che abbiano valore.”
Molto bello, e molto, molto interessante. Grazie per l’anticipazione. Un libro sicuramente da leggere. Questo spostamento dei confini dell’etica è importante e inquietante allo stesso tempo. Bisogna avere il coraggio di affrontarlo.
” 28 aprile 1994 – Penso spesso alle piante, alla vita che fanno. Innanzitutto noto che non possono muoversi. Anche in presenza di un disagio, o di una minaccia, sono forzate a restare lì dove affondano le loro radici, in quell’esiguo brandello di terra dove sono nate. Nessuno ha mai dimostrato che le piante vogliano andarsene, d’accordo. Ma pensate davvero che non lo farebbero quando vedono avvicinarsi un piede distratto, una ruota spavalda, o quando vento, pioggia, gelo le aggrediscono, stremandole, martoriandole? Il vento è il peggio di tutto. Inevitabilmente verticali come sono, soffrono le turbolenze dell’aria, che, quando non le schianta, le obbliga comunque a un ondeggiare penoso, continuo, snervante. Sbattute di qua e di là, dai capricci del Signor Vento, quando la loro aspirazione sarebbe di stare diritte e basta. In questa troppo lineare, troppo solipsistica, troppo ovvia aspirazione di vita consiste d’altronde il più grave difetto delle piante, tutta, in nuce, la loro disgrazia. Vogliono solo crescere, andare in su, stare sotto un sole possibilmente benigno, placidamente fotosintetizzandosi, da un anno all’altro secondo il ritmo sempre uguale dei mesi e delle stagioni. Vogliono, quando è il momento, fiorire, facendosi il più possibile belle. E qui entrerebbe il discorso degli insetti, della riproduzione assolutamente soft delle piante. In ogni caso il problema delle piante è riuscire a diventare almeno albero. Una volta albero le cose vanno un po’ meglio, le probabilità di durare si accrescono. A farsi albero ci provano quasi tutte, o, se potessero, ci proverebbero. In ogni caso la situazione, nella sostanza, non cambia: un po’ più in grande, è sempre la solita vita, che molti di noi sicuramente giudicano noiosa. Va a capirle, le piante. E poi le piante non parlano. Per le piante grasse è un po’ diverso, ma non tanto. “.
“Vissero i fiori e l’erbe, / Vissero i boschi un dì.”
Poetico, d’accordo, e polemico; ma forse le driadi e amadriadi dei greci erano più che begli ornamenti retorici; le metamorfosi (le Metamorfosi) indicano un confine estremamente fluido, e non necessariamente una punizione. L’Antichità mi pare insomma un po’ meno rigidamente antropocentrica.
In epoca moderna credo che l’unico modello di natura che estende il carattere di soggetto non solo a animali e piante, ma anche alle rocce ecc. sia quello romantico – un modello che non è passato.
Spero che il libro abbia la risonanza che merita.
“Gli alberi adulti delle foreste primarie dispongono le fronde in modo da garantire uno spazio di rispetto tra loro. Gli scienziati la chiamano ‘distanza di timidezza’ e interessa soggetti appartenenti a una stessa specie. Questo distanziamento, osservato per la prima volta ai tropici, deriva da una modalità di comunicazione a tutt’oggi misteriosa.”
Gilles Clément, Breve storia del giardino. Quodlibet, Macerata 2012. p. 68
” 21 ottobre 1984 – Le piante. La sintesi clorofilliana. la festa degli alberi. Il verde. Annaffiare. Le radici. La chioma. Le fronde. I rami. L’albero. Genealogico. “.
“Fiori e piante non possiedono un volere cosciente. Non provano vergogna a mettere in mostra i propri organi genitali”.
Samuel Beckett, Proust and Three dialogues with Georges Duthuit, London, John Calder, 1989 p. 88
“Nella pratica, alcuni degli atteggiamenti più rapaci e noncuranti nei confronti della natura potrebbero ben derivare proprio dal nostro rifiuto o incapacità di aprirci alle piante e al loro valore, e addirittura alla stessa ipotesi che abbiano valore.”
Nessun organismo vivente si preoccupa degli altri organismi viventi che non siano suoi diretti discendenti. Non si capisce dunque perché l’essere umano avrebbe dovuto fare altrimenti. Tutti gli organismi sono rapaci, solo che l’essere umano ha non solo sviluppato la teconologia atta a dominare, ma possiede anche una coscienza che lo fa desiderare in maniera maggiore rispetto agli altri organismi. Ed essendo più forte si prende più spazio e risorse. Poi a ben vedere il dominio è un’illusione. Non dominiamo un bel nulla, abbiamo la meglio temporaneamente.
Così come è un’illusione l’idea di smettere il principio antropocentrico. Parlare di crisi ecologica è precisamente un antropocentrismo, dal momento che il concetto di crisi è pienamente umano. Non c’è la crisi in natura. Se c’è un problema per l’ambiente è precisamente per i nostri interessi, perché stiamo cominciando a viverci male, dal momento che siamo aumentati fortemente di numero. Cosa che è sempre successa. Se l’uomo ha colonizzato tutto il pianeta è perché sviluppandosi non c’era più posto neanche per sistemi di vita umani basati sulla caccia e raccolta. L’antropocentrismo può essere falsificato solo sul piano concettuale, nelle sue fallacie, ma non certo sul piano morale.
L’idea di dare valore alla natura tutta è una tale sciocchezza che solo i pazzi possono praticare, gente come i jainisti descritti in Pastorale americana di Roth. Qualunque organismo vivente vive a discapito di altri, possiamo solo scegliere quali trattare meglio e quali no.
Ovviamente non esiste un’etica o una politica delle piante. Etica e politica sono questioni umane. Dunque tutt’al più parlerei di un etica (umana) che contempli fra l’altro la responsabilità nei confronti dell’ambiente, e dunque anche piante e animali nelle varie interazioni ecc. Quanto al fatto che non si sia mai data importanza al ruolo delle piante né si sia considerato il loro valore, mi pare un’affermazione senza prove. Tutto il contributo delle piante alla vita sulla terra è noto e studiato e detto e ridetto, lo sanno anche i bambini. Senza dire che l’elenco di questi meriti che si fa qui nell’articolo mi pare niente più che un discorso sulla loro utilità, più che altro. Come dire: cerchiamo di non distruggere le nostre risorse (cosa che niente ha a che vedere con l’etica delle piante, ma piuttosto con la prudenza e lungimiranza economiche). Gli atteggiamenti rapaci verso le piante dipendono dal modo in cui si è organizzata la nostra rapace (e non lungimirante) economia; non certo dal fatto che “non ci apriamo” alle piante. L’antropocentrismo non ha impedito che in vari momenti storici siamo stati rapaci anche verso altri umani, come si sa. E ancora non si è smesso.
E aggiungerei che è antropocentrismo anche questa bella trovata di parlare di “etica delle piante”, preferendo un “bel discorso” in cui figurare da eroi salvatori del mondo, a uno che analizzi i modi e il perché (non psicologici) delle nostre pratiche economiche predatorie.