[Pubblichiamo un estratto dalla prefazione al volume ll fantasma della memoria. Conversazioni con W.G. Sebald (Treccani), a cura di Lynne Sharon Schwartz, con testi di Tim Parks, Eleanor Wachtel, Carole Angier, Michael Silverblatt, Michael Hofmann, Joseph Cuomo, Ruth Franklin, Charles Simic, Arthur Lubow. Prefazione all’edizione italiana di Filippo Tuena. Traduzione di Chiara Stangalino].
Un dialogo con un fantasma e l’apparizione dell’inconsapevole oca
di Filippo Tuena
Una buona metà dei testi qui raccolti è stata redatta e pubblicata o trasmessa via radio prima del 14 dicembre 2001, data in cui Winfried Georg Sebald perì in un incidente stradale dovuto, pare, a un mancamento mentre guidava la sua auto.
L’altra metà dei contributi è stata resa nota in una data successiva a quell’evento, certamente sull’onda dello sgomento, e forse per questo gli autori – giornalisti, scrittori, critici – che hanno raccolto gli interventi di Sebald o commentato la sua opera sembrano tutti intrattenere un’impossibile conversazione con un morto, con uno spirito tornato dall’oltretomba anche se, almeno le trascrizioni di interviste, dovrebbero sottolineare l’hic et nunc del testo, il suo Dasein (questo è quel che è accaduto quel giorno e non quel che proviamo oggi). Ma la consuetudine con la morte che rende i libri di Sebald così dolenti travalica la pagina scritta e nonostante la piacevolissima ars affabulatoria dello scrittore si ripercuota in quelle conversazioni, sembra davvero che quegli incontri siano condotti consapevolmente sul limite estremo, sull’orlo dell’abisso.
Alcuni intervistatori sono in grado di svelare i misteri sebaldiani, altri sottolineano con la devastante incompletezza della scrittura quel che non sono riusciti a recuperare del pervicace e ossessivo sistema narrativo di Sebald, ma tutti sembrano davvero penetrare le nascoste vene della superficie della terra e giungere agli inferi dove soggiornano, ignare del presente e smemorate del passato, le anime dei defunti. E la figura di Sebald emerge finalmente all’interno del paesaggio oltretombale nel quale hanno agito i personaggi dei suoi libri; finalmente congruente con l’animo ombratile che contraddistingue sia autore che personaggi.
È in quest’atmosfera che il lettore si trova ad assistere al colloquio con Sebald, quasi rispettando le regole dell’oltretomba omerico. Il defunto ignora quanto accade nel mondo sovrastante; le sue considerazioni non riguardano il presente che ci appartiene e rimangono circoscritte al passato che lentamente e inesorabilmente svanisce, salvo per quei lacerti – argomento e sostanza dei suoi libri – che hanno superato la nebbia della dimenticanza e si sono trasformati in pietre angolari di un edifcio solidissimo fatto di scrittura, immagini e memoria, poiché tutto in queste pagine rimanda a un tempo trascorso che si vuole riportare in vita attraverso il grimaldello dello stile.
S’è detto della morte violenta di Winfried Georg Sebald, ma si dovrebbe altresì dire della persistenza di W.G. Sebald, ovvero di come la maschera dietro la quale scriveva i suoi libri sopravviva all’uomo che la calzava. La verità è che noi italiani non riusciamo a liberarci dall’idea che W.G. Sebald sia uno scrittore quasi completamente postumo.
In Italia esordì da Bompiani, nelle belle traduzioni di Gabriella Rovagnati, con Gli anelli di Saturno nell’ottobre nel 1998, già preceduto da una certa notorietà internazionale. Ammetto che quella prima edizione mi sfuggì. M’imbattei in lui più di un anno dopo, ai primi del 2000, quando ancora Bompiani pubblicò in una sciatta edizione Gli emigrati, un tascabile con sovraccopertina segnata da un singolare incidente tipografico, una sorta di refuso macroscopico (che a detta di alcuni comportò il passaggio di editore da Bompiani ad Adelphi).
Se sulla sovraccopertina campeggia il titolo Gli emigrati, traduzione corretta dell’originale Die Ausgewanderten, sulla copertina del libro, in incongruente diversità, appare un imprevisto Gli emigranti, dove l’inserimento di quella “n” sfalsa completamente il significato del titolo e di conseguenza anche delle vicende che sono narrate nel libro. Dunque, il refuso non suggerisce l’esperienza di persone che si sono trasferite altrove e che lì hanno germogliato o si sono estinte lasciando tracce più o meno evidenti o significative del loro percorso terreno, ma con quel titolo il libro sembrerebbe avere per argomento coloro che “stanno emigrando”, che ancora non hanno raggiunto il loro luogo di destinazione; che sono in corso di trasferimento e non possono, per quel motivo, mettere radici, costrette come sono all’andare. Le quattro storie che compongono il volume invece parlano dello struggimento di personaggi sradicati, altrove disposti, quasi come fossero cadaveri ancora in vita e relegati in terra straniera, abbandonati in un luogo altro, in contatto e in contrasto col nuovo paesaggio che li avvolge e li imprigiona e ne stravolge la natura. E quando avviene che sia concesso un ritorno in patria questo si trasforma davvero in un pellegrinaggio lugubre che termina con una cerimonia funebre.
Il fatto che solo due testi siano stati pubblicati in Italia con Sebald in vita ha fatto sì che a ogni nuova uscita l’inquietante immagine di un flaneur dell’oltretomba abbia sempre più preso piede, sino a radicarsi indissolubilmente con la sua scrittura. E dunque, un po’ come i suoi personaggi “emigrati” anche W.G. Sebald percorre terre estreme e inospitali ogni volta che i suoi testi – che provengono anch’essi da quell’oltretomba – vedono la luce uscendo dall’oblio dell’inedito.