di Matteo Terzaghi
[È uscito da poco per Quodlibet La Terra e il suo satellite di Matteo Terzaghi, libro composto di brevi prose narrative e saggistiche idealmente riconducibili alla forma del tema in classe, sul modello dei Temi di Fritz Kocher di Robert Walser. I quattro capitoletti qui pubblicati rappresentano una delle voci che attraversano il libro.]
Un funerale sorprendente
Ieri mattina il signor direttore ci ha fatto convocare nel suo ufficio e dopo qualche spiegazione ci ha accompagnato al funerale del padre del nostro professore di latino. Il professore di latino ha pochi allievi nella nostra scuola e, ha detto il direttore, siamo tutti i suoi pupilli, la qual cosa ci ha molto sorpreso perché noi in verità lo vediamo sempre nervoso e insoddisfatto del nostro rendimento.
Il bidello ci aspettava al volante del furgoncino. Il direttore è salito davanti, noi dietro e via, siamo partiti a tutta velocità. Si capiva che il direttore temeva di arrivare in ritardo, però avvicinandoci alla chiesa dopo aver parcheggiato abbiamo fatto in tempo a sentire gli ultimi rintocchi della campana mortuaria.
Finita la messa siamo usciti sul sagrato e ci siamo tenuti in disparte per fare spazio alla gente, ai preti e ai becchini con la bara. È lì che abbiamo visto il nostro professore di latino piangere e singhiozzare, stringersi forte ad altre persone, uno spettacolo che ci ha alquanto stupiti, tanto più che indossava il solito vestito grigio scuro e la solita cravatta marrone, gli mancava solo la cartella con i libri e i quaderni. Alla fine poi ci è venuto incontro, ha fatto un lungo respiro e ci ha raccomandato di volere bene ai nostri papà, di parlare con loro, ascoltarli ed essere sempre ubbidienti perché nemmeno loro vivranno per sempre e presto o tardi anche noi dovremo separarcene.
Mentre ci parlava in questo modo, si è tolto i grossi occhiali di corno per asciugarsi le lacrime e si è pulito il muco che gli colava dal naso. Sul fazzoletto c’erano, ricamate in azzurro, le sue iniziali. Senza occhiali, la faccia rotonda e spelacchiata del nostro professore, più pallida del solito e tutta ricoperta di chiazze rosse, era praticamente irriconoscibile e sembrava quella di un bebè che si è appena scolato una bottiglia di latte caldo.
Dopo il discorso si è rimesso gli occhiali e, posandoci una mano sulla spalla, ci ha guardato negli occhi uno a uno, a lungo, voleva ringraziarci. Noi non sapevamo cosa fare, forse avremmo dovuto recitare un Rosa rosae rosae…, la prima declinazione, oppure un Amicus amici amico…, la seconda declinazione, ma niente, anche perché c’era sempre il rischio di sbagliare e mandarlo su tutte le furie, il che oltre tutto in quella situazione sarebbe stato imbarazzante anche per lui. Abbiamo tenuto la testa bassa, siamo risaliti nel furgoncino e ci siamo ritrovati a scuola.
L’aula di scienze
Nell’aula di scienze c’è uno scheletro che ci fissa con le sue orbite vuote.
La mia domenica
Domenica abbiamo preso la macchina e siamo andati a vedere un terreno. I nostri genitori erano molto eccitati. Noi bambini volevamo rimanere a casa. Succede così quasi tutte le domeniche, sempre la stessa storia. Loro dicono che abbiamo fatto tanti sacrifici e che ora finalmente, grazie al prestito con ipoteca, possiamo realizzare il nostro sogno. Noi diciamo che il nostro sogno è rimanere a giocare con gli amici dei palazzoni. Loro dicono che quando avremo costruito la casa, ognuno di noi avrà una camera tutta per sé e potremo fare quello che vogliamo, anche invitare gli amici dei palazzoni, accendere il fuoco e fare un accampamento in giardino.
Il terreno che siamo andati a vedere ieri era circondato da altri terreni e c’era il problema di sapere dove iniziava e dove finiva. Perciò, dopo che nostro padre ha fermato la macchina sul bordo della strada, nostra madre ha preso il comando della spedizione e, aiutandosi con i fogli che teneva in mano, ci ha indicato dove metterci per segnare gli angoli. Io, mio fratello, mia sorella e il papà facevamo i paletti, era il nostro compito. Serviva per visualizzare il terreno. “State fermi che dobbiamo visualizzare il terreno”, diceva la mamma. Poi ha detto: “Ecco, ora potete muovervi, abbiamo visualizzato abbastanza”.
Mia sorella è andata in macchina a leggere, mio fratello ha cominciato a vagare nei dintorni, mentre io sono rimasto a guardare mamma e papà che continuavano a lavorare d’immaginazione. Parlavano come se il cantiere fosse già avviato e i muri si alzassero da soli. A un certo punto li ho visti che si staccavano da terra, salivano i gradini di una scala a due rampe, si affacciavano dal balcone e mi salutavano con le mani, tenendosi abbracciati.
Quando poi si trattava di ripartire, mio fratello era scomparso, anche a chiamarlo non rispondeva, e perciò siamo dovuti andare a cercarlo. Ci siamo divisi uno di qua e uno di là, ma alla fine lo abbiamo trovato vicino alla macchina e nonostante le sue spiegazioni non siamo riusciti a capire dov’era andato a cacciarsi.
Una volta in macchina i nostri genitori hanno ricominciato a parlare del terreno, a elencarne pregi e difetti e a confrontarlo con altri terreni: più stretto, più largo, la pendenza, la vista, il sole, i rumori, la distanza dalle scuole e dai negozi, il prezzo al metro quadrato, la zona più o meno prestigiosa eccetera, e allora mia sorella ha sbuffato come sa fare lei e ha chiesto se non si poteva cambiare argomento, dopo di che nessuno ha più osato dir nulla e abbiamo ascoltato la radio in silenzio.
Così ho trascorso la mia domenica e più o meno nello stesso modo, credo, trascorrerò la prossima e quelle dopo ancora. In conclusione, mi chiedo se questa casa-sogno dei nostri genitori verrà mai costruita, forse è destinata a rimanere soltanto una fantasmagoria, anche perché una notte che mi sono alzato per andare in bagno li ho sorpresi che facevano i conti con la calcolatrice, lei in vestaglia e lui in pigiama, e sembravano spaventati.
Il bidello Gianni
Una volta ha voluto giocare a calcio con noi ma a un certo punto gli è volata via una scarpa. Allora noi siamo andati a cercarla tra i cespugli e abbiamo trovato un ombrello. Era un ombrello tutto storto e con la tela strappata, ma lui si è illuminato e ha detto: “Il mio ombrello, ecco dov’era finito!” e senza pensare più alla scarpa che gli mancava ci ha salutati e se ne è andato via con l’ombrello sottobraccio, come in un film di Charlot.
[Immagine: Il personaggio di Antoine Doinel in Les Quatre cents coups di François Truffaut (1959)].