di Franca D’Agostini e Maurizio Ferrera
[Pubblichiamo un estratto dal volume di Franca D’Agostini e Maurizio Ferrera La verità al potere. Sei diritti aletici, uscito per i tipi di Einaudi].
Per il pensiero liberale, una «politica della verità» è un’assurdità e un pericolo, il principio di una società dogmatica, paralizzata da un potere totalitario e ingiusto. È davvero così? La teoria sviluppata in questo libro rovescia l’ipotesi. Uno sguardo più attento al ruolo del vero e del falso nelle nostre vite ci fa capire che oggi il destino della libertà e della giustizia è inestricabilmente legato al concetto di verità. Ma si tratta di guardare alla verità in un modo diverso: considerando anzitutto il suo speciale potere in democrazia, in cui le credenze (vere, false, incomplete o distorte) dei cittadini orientano le stesse condizioni della vita pubblica. Contro la proliferazione del falso e dell’insensato, una nuova politica della verità deve tutelare, per tutti noi, il diritto alla verità non soltanto in relazione al bisogno di sapere, ma anche al bisogno di essere garantiti in quei beni e valori critici che si legano a un uso razionale delle conoscenze. Di qui l’idea di esaminare i nuovi bisogni che il nuovo ruolo del concetto di verità suscita nelle nostre vite, ed esplorare le condizioni per garantirne per quanto è possibile il soddisfacimento: da cui l’idea di diritti aletici, i diritti che si legano al nostro bisogno di verità, e che la politica e la legge devono salvaguardare.
Nella prima parte del libro, di Franca D’Agostini, si e cercato di avviare un’interpretazione del presente politico “dal punto di vista della verità”. L’interpretazione deve molto alla diagnosi degli antichi filosofi, secondo i quali i primi mali della democrazia dipendono dal modo (erroneo, irrazionale, fuorviante) in cui gli individui parlano e ragionano: l’inganno e l’autoinganno dominano il linguaggio e il pensiero della vita democratica. Ma mentre Platone e Aristotele potevano essere nemici della democrazia, noi non possiamo esserlo, e non soltanto per ragioni di scelta liberale. Forse non esistono perfette democrazie nel mondo, forse la democrazia in sé non è la migliore forma di governo, ma siamo di fronte a una progressiva e sempre più rapida democratizzazione dei processi sociali: la possibilità di sapere e di esprimersi, di comunicare, scegliere e deliberare, estesa a un sempre maggior numero di persone. Siamo dunque in certo modo “obbligati”, che lo vogliamo o no, a diventare democratici.
A partire da qui, si è cercato di sviluppare l’ipotesi nella prospettiva della filosofica antica, ma eliminandone le conclusioni antidemocratiche. Platone e Aristotele scoprirono nei dissesti del linguaggio pubblico la tendenza a usare male o a violare sistematicamente le ragioni del vero, del bello, del bene. A questi «concetti primi» affidarono la critica della cultura del loro tempo, e furono in particolare le ragioni spesso violate dell’alethes, il vero, a stimolare la nascita della filosofia come medicina del pensiero e del linguaggio.
La diagnosi è dunque semplice: in una democrazia (più precisamente per una umanità democratizzata) il primo potere con cui fare i conti è il potere del concetto di verità. Come si esprime questo potere? In quale modo possiamo usarlo senza danno? Uno sguardo più attento sul concetto di verità ci ha permesso di capirne la natura di funzione fondamentale, che guida i ragionamenti e le credenze, e il cui uso corretto è condizione di fiducia sociale e felicità pubblica. Ma anche funzione difettosa e insidiosa: abbiamo per lo più credenze la cui verità è parziale, e il nostro bisogno di usarle e pensarle categoricamente, cioè dogmaticamente, è la prima ragione di difficoltà. Ci ha anche permesso di capire che però proprio il concetto di verità come a-letheia, cioè procedura critica di dis-velamento dei pregiudizi e degli inganni, è la forza scettica che ci libera dal peso delle opinioni: le mezze verità che pretendono di essere verità assolute e categoriche e perciò entrano in guerra le une contro le altre.
Muniti di questo sguardo più attento sul potere della verità, è stato possibile esplorare i diversi modi in cui questo antico concetto (che usiamo normalmente, senza preoccuparcene più di tanto) agisce nella vita pubblica, e i bisogni-diritti che leghiamo al suo uso: il bisogno di ricevere informazioni corrette e non fuorvianti; il bisogno di saper giudicare le informazioni che si ricevono, e discriminare per quanto è possibile il vero dal falso; il bisogno che quel che si dice venga ascoltato e creduto, e che la verità venga riconosciuta pubblicamente; il bisogno di disporre di istituzioni che favoriscano e tutelino le conoscenze collettive. Infine: il bisogno di vivere in un ambiente culturale e sociale in cui questi bisogni siano riconoscibilmente soddisfatti, e in cui esista una diffusa consapevolezza circa la natura fondamentale del bene-verità. È questo, in una prima approssimazione, il «sistema» di diritti che leghiamo al potere dell’aletheia: la mancata attenzione nei loro riguardi o la loro sistematica violazione attivano la sfiducia e l’odio sociale.
La seconda parte del libro, di Maurizio Ferrera, ha chiarito che i diritti aletici da noi proposti vanno considerati come nuovi poteri (o almeno proto-poteri) volti a controbilanciare le correnti sempre più an-aletiche (disattente e indifferenti al concetto di verità) o anti-aletiche («la verità è dispotica, fonte di conflitti, dobbiamo sbarazzarci del concetto…») che in modo implicito o esplicito si sono oggi infiltrate nel dibattito pubblico e politico. Non si tratta di mettere in questione la libertà di espressione e critica, o la sovranità del cittadino-elettore. Il nostro è piuttosto un richiamo a ricordare il legame tra verità e libertà («la verità vi farà liberi», come si dice in Gv. 8,32).
Il nucleo centrale del liberalismo è la «demo-protezione», quello della democrazia il «demo-potere». Entrambi presuppongono il diritto (e prima ancora la capacità) di far valere il vero nei confronti delle autorità che ci governano, di chieder loro di non ingannarci, e di proteggerci dall’inganno e dall’errore. Il liberalismo democratico ha in questo senso una profonda e dimenticata anima aletica, a cui occorre oggi dare più spazio e visibilità.
Accogliendo i diritti aletici all’interno del nostro perimetro di garanzie, il liberalismo si affranca dai suoi paradossi. Tali diritti funzionano infatti come argini contro il falso, la manipolazione, la distorsione delle credenze, non per motivi genericamente morali o «virtuocratici», ma come condizione pratica di sopravvivenza di una politica razionale. Il rispetto della verità, l’attenzione al suo “potere”, non sono in contrasto con il dettato liberale, sono le condizioni stesse della sua attuazione.
Rispetto alle consuete metodologie di analisi, la prospettiva così delineata ci consente di spostare l’attenzione verso la cornice generale entro cui si dipana l’intero discorso pubblico. La cornice che orienta, spesso in modo implicito e sottile, l’uso della funzione-verità e la direzione in cui si esercita il suo rilevante potere, per molti aspetti costitutivo rispetto alla sfera politica. Il principio di tolleranza, le libertà liberali e quelle democratiche vengono, per così dire, “dopo”: regolano le dinamiche e i comportamenti che stanno dentro la cornice generale. Se questa non e pervasa da un ethos aletico (e, noi aggiungiamo, senza il sostegno concreto di veri e propri diritti aletici), tolleranza e libertà non bastano da sole affinché il mercato delle idee selezioni di volta in volta la verità – come diceva Mill – nelle sue incessanti collisioni con l’errore.
Sul piano pratico, l’obiettivo-quadro di una nuova politica aletica dovrebbe essere quello di “educare alla verità”. Si tratta di un’espressione impegnativa, che può far alzare più di un sopracciglio fra i liberali. Ma che perde ogni possibile sapore illiberale se ci si attiene alla considerazione del concetto di verità che ha ispirato questo libro: l’uso corretto (veridico) di quella funzione mentale che inevitabilmente si attiva quando parliamo e ragioniamo. La sfida della educazione alla verità appare particolarmente seria oggi in Italia. Nel nostro paese scontiamo una scarsa presenza e una debole legittimazione delle istituzioni aletiche; un contesto culturale insufficientemente predisposto all’uso di fonti informative di qualità, scelte in base alla loro capacita di dirci il vero. L’immagine antica dello «stile italiano» come inguaribilmente afflitto dalla coltivazione della menzogna (anche per una interpretazione fuorviante del dettato machiavellico) ha ancora qualche ragione di legittimità, e si conferma in un sistema educativo che non ha metabolizzato il passaggio dal modello elitario d’istruzione a quello di massa, ed è appesantito dalla trasmissione di saperi codificati a discapito della formazione di competenze trasversali, quelle che abilitano a parlare, ragionare, valutare in modo corretto e veridico. In breve: a vivere concretamente il rapporto tra liberta e verità.
[Immagine: I que es la veritat?, iscrizione in catalano all’entrata della Sagrada Familia, Barcellona].
Eccezion fatta per l’ultimo paragrafo, che dopo sì alto volo stramazza nel banale e finisce per scaricare le colpe su chi? ma sulla scuola, perbacco! – eccezion fatta per l’ultimo paragrafo, questo articolo mi ricorda la teglia di alette di pollo che mia madre chiamava “vorrei volare”. Un po’ meno filosofi greci e un po’ più esempi concreti, di grazia. Giusto per quelli che non si sentono abbastanza atletici per inseguire i diritti aletici.
Il mio commento è piuttosto rozzo, praticone. Non oso addentrarmi nei meandri filosofici della questione per stupidità e incompetenza. Però non riesco a non tacere un dubbio.
La difesa dei diritti aletici è interna a un dibattito filosofico che vede da un lato i liberali che temono derive totalitarie nella definizione della verità, dall’altro la koiné post-nietscheana della fine della verità e della volontà di potenza. Il dibattito è interessantissimo ma astratto (la frase NON è ironica, l’aggettivo “astratto” NON è polemico).
Infatti mi è assai poco chiaro in quali azioni concrete dovrebbe tradursi l’obiettivo-quadro dell’educazione alla verità. Definito come lo trovo definito alla fine di questo estratto, mi pare indistinguibile dall’ennesimo carico da novanta sulla scuola, che sembra essere diventata il luogo di risoluzione di tutte le contraddizioni politiche, sociali, economiche: più educazione, più educazione, più educazione.
Chi altri oltre alla scuola dovrebbe farsi carico della difesa dei diritti aletici, ove ci sia chi non li rispetti? Un tribunale internazionale? Una commissione di saggi? Tutti abbiamo bisogno di più verità. Ok. Ma visto che il nostro mondo è strutturalmente costruito ormai intorno alla non-verità, chi e con quali mezzi e autorevolezza combatte la non-verità? Basta pensare che l’educazione dell’opinione pubblica produrrà da sé, senza bisogno di controlli forti, questa difesa dei diritti aletici?
Non credo che il problema siano la teoria liberale o la teoria post-nietschena. Quelle sono “solo” teorie. Si rischia di incorrere nello stesso errore di quelli che nel Novecento pensavano di fare la rivoluzione semplicemente correggendo la teoria marxista dai suoi tralignamenti positivistici o rozzamente materialistici.
Il problema è una lotta “pratica” contro le manifestazioni di un potere economico e simbolico (una volta si sarebbe detto strutturale e sovrastrutturale) che si costituisce per essenza sulla menzogna e sulla labilità della verità. Mi pare che questo elemento di realismo politico manchi in questa analisi. Ma, ripeto, sono ignorante in materia, e magari mi sbaglio.
Mi piacerebbe però almeno avere una risposta sulla questione pedagogica: non basta demandare alla scuola e criticarne per l’ennesima volta l’attardarsi in forme di sapere inutili. Mi spiace doverlo dire con questa franchezza, ma è una solfa che schiaccia gli insegnanti in una condizione di impotenza e di senso di inadeguatezza enormi, perché è una solfa che viene da parte di chiunque, con buone e pessime intenzioni. Chiederei agli autori di non contribuirvi anch’essi, visto che hanno a cuore una faccenda tremendamente seria, politica.
Il mio commento (e il mio nick) è idiota.
Perché spaventarsi di fronte a questa giustissima interessantissima e astratta perorazione?
Si parla di educazione, non si deve tradurre ‘scuola’: quanta fretta!
mi sembra che il termine sia più ampio e in questa sede astratto, appunto.
lasciamolo così, come un’ispirazione.
A tradurlo in ‘realismo politico’ ci penseranno i sogni liberi che ci vorremo concedere.
@aletta di tacchino. Accolgo le osservazioni e le obiezioni per la parte che risponde al mio commento. Tuttavia si parla di scuola, alla lettera, non di generica educazione, di sistema formalizzato dell’educazione: “si conferma in un sistema educativo che non ha metabolizzato il passaggio dal modello elitario d’istruzione a quello di massa, ed è appesantito dalla trasmissione di saperi codificati a discapito della formazione di competenze trasversali, quelle che abilitano a parlare, ragionare, valutare in modo corretto e veridico”.
@Daniiele Lo Vetere. ‘Sistema educativo’ : secondo me, coinvolge tutta la società. E se intende altro il passaggio dalla teoria alla pratica è talmente stretto da risultare inutile: trovo davvero insensato immaginare una trasformazione culturale come quella auspicata sulle spalle di scuola e insegnanti. Per altri ma ancora più solidi motivi immaginarla invece frutto di una riforma ‘politica’. Per ora possiamo accontentarci di fare dei sogni, a riguardo, come ho già scritto. Grazie della risposta.