di Durs Grünbein
[Dal 1° al 25 agosto LPLC2 va in vacanza. In questi giorni ripubblicheremo alcuni articoli usciti da febbraio a oggi, con qualche sorpresa occasionale. Il post di oggi è uscito il 12 febbraio 2019. Buone vacanze!
Pubblichiamo, per gentile concessione dell’editore, un saggio tratto dal volume I bar di Atlantide e altri saggi, a cura di Giulia Cantarutti e Silvia Ruzzenenti, appena uscito da Einaudi. Il libro raccoglie una selezione dei più importanti saggi di Durs Grünbein].
Verse was a special illness of the ear
W. H. Auden, Rimbaud
Al di là delle avanguardie
I manifesti letterari non esistono più. Non solo è passata di moda la parola, ma si esaurita anche la sfida che le era connessa ed è stato liquidato quell’egoismo estetico che spingeva singoli individui avventurosi o gruppi di adepti all’annunciazione programmatica in materia d’arte. Al pubblico il Diktat pronunciato da artisti e letterati come parti in causa è inviso quanto il servizio militare e la burocrazia. Gli uni e gli altri ne hanno tratto le loro conclusioni e si sono ritirati al sicuro nel proprio territorio. Alla mischia delle chiassose lotte per l’egemonia è subentrata l’industria dell’amministrazione professionale delle coesistenze, intonata dal lavoro quotidiano di promozione del prodotto, dalle recensioni e dalle giurie letterarie – una specie di ininterrotta Fiera del Libro di Francoforte.
Faccio il nome di questa località perché, come sempre, non è irrilevante il luogo da cui parla chi viene chiamato a rendere conto pubblicamente. Non posso quindi non fare cenno al palcoscenico su cui si svolgerà la lectio di oggi, è troppo carico degli orrori della storia per sorvolarlo. Che io debba presentare le mie idee sulla poesia proprio qui, dietro all’ex sede della IG-Farben, ha una sua amara ironia. Riuscite a immaginarvi un testimone come Paul Celan in questa situazione? C’è qualcosa di maligno nel mettere davanti agli occhi del poeta la lontananza della sua arte dalla realtà, la sua inutilità essenziale, convocandolo in un tale luogo del delitto. Prima ancora che apra bocca, l’architettura, nella sua fattualità brutale, mette a nudo quanto sia moralmente privo di conseguenze il suo vacuo poetare. Cos’altro se non un estetismo può essere una riflessione sulla poesia fatta nella centrale in cui un tempo si preparavano i documenti a sussidio dell’omicidio industriale di milioni di persone? Che la materia trionfi sull’uomo non è nulla di nuovo, qui però appare come in un’immagine da cartolina. Se è stata possibile una cosa del genere, allora sembra legittimo rimproverare alla poesia di essere inutile e di non contare nulla. La letteratura quindi ha luogo evidentemente in un bel mondo parallelo che può magari avere un segreto influsso sulla morale di alcune persone, ma resta impotente di fronte alle violente pratiche della storia. Questa impotenza era il contrassegno delle belle arti nel loro insieme: nella poesia trova la sua espressione più solitaria, più eloquente.
Ho pensato che sia meglio chiamare subito le cose con il loro nome anziché fornire un ulteriore eloquente esempio dell’ammutolire del ricordo. Permettetemi però ancora questa osservazione: non è strano che a Francoforte da un lato si voglia demolire la leggendaria Aula VI intitolata al filosofo che chiese in tutta serietà se dopo Auschwitz fosse ancora opportuno scrivere poesie mentre al contempo s’innalza al rango di Alma Mater un quartier generale sorto dalle peggiori fantasie orwelliane? Non si possono trarne conclusioni, temo. Chi però qui pensa all’ironia della storia è a metà strada verso una poetica del sarcasmo quale quella che mi detta il tono fino dai miei primi tentativi di scrittura.
Torno al punto di partenza: i manifesti in nome dell’arte poetica non esistono più. Ma non solo: non esistono più, e già da molto più tempo, poetiche intese a fissare norme e stabilire parametri. Negli ultimi centocinquant’anni il manifesto letterario era divenuto il sostituto di una poetica sottoposta alle condizioni della modernità. È la sua versione abbreviata, accelerata e soprattutto fortemente lobbystica: poetica come pamphlet e piano strategico. Per lo meno in questa forma pare ora avere ormai fatto il suo tempo, come la sua veneranda precorritrice. Ciò che una volta sconvolgeva e metteva sottosopra la percezione delle cose, oggi viene presentato al grande pubblico nelle antologie come pure in retrospettive, neutralizzato dal punto di vista della storia dell’arte. Simbolismo e Espressionismo, Imagismo e Acmeismo, Surrealismo o Lettrismo e così via (parlo di correnti letterarie) si sono ridotti a magiche formule artistiche di ieri, nomi di marche per prodotti che nessuno fabbrica più e il cui prezzo salirebbe alle stelle nelle aste di Christie e di Sotheby se si trattasse di quadri e disegni. Il nucleo centrale della modernità classica si è spento. L’ultimo –ismo si è perso per strada in un qualche momento della seconda metà del ventesimo secolo. Un grande conoscitore della scena letteraria come il romanista Hugo Friedrich non aveva forse già lanciato il suo avvertimento negli anni Cinquanta? Constatava che la lirica del ventesimo secolo, per quanto alta fosse la qualità di alcuni dei suoi esponenti, come concedeva riferendosi ai suoi poeti prediletti, non aveva creato più nulla di radicalmente nuovo. Da allora, mi sembra, lo sconcerto per tale giudizio è semmai aumentato. Una figura come quella di Paul Celan smaschera però questo genere di bilanci in blocco come ignoranza crassa.
Ci sono stati e ci saranno sempre dei vertici, opere liriche singolari al di là delle avanguardie. Tuttavia la scissione critica denunciata ne La struttura della lirica moderna non si è più potuta eliminare del tutto. Da una parte l’ammirazione per i modernisti classici, l’intatto stupore per gli effetti scioccanti e per le rivoluzioni formali che hanno conservato la loro freschezza sino ad oggi; dall’altra la riduzione perfino delle loro invenzioni più spettacolari alla comune provenienza stilistica da Baudelaire, Rimbaud e Mallarmé, i tre apostoli dell’espressione artistica moderna nella lirica europea. Come unire le due cose?
Certo, chi iniziava a scrivere poesie nella seconda metà del secolo scorso poteva farlo senza che valutazioni di questo genere lo toccassero minimamente. Non foss’altro perché nel frattempo lo sviluppo aveva compiuto salti così vistosi che non c’era più tempo per questioni di discendenza. Era appena apparso il volume dello studioso della lirica moderna, temerario bilancio conclusivo sulla modernità plagiatrice nell’arte poetica, quando a livello internazionale iniziò un’esplosione tale di forze nuove in tutte le arti che le diagnosi sulla loro stagnazione, il loro tradizionalismo e epigonismo vennero come soffiate via. Ora erano la fotografia, il cinema d’autore, la nuova pittura con l’arte informale e l’Espressionismo astratto, le arti multimediali e concettuali, anche il giornalismo critico a fare segnare il passo alla poesia che sotto il loro influsso modificò le proprie forme fino all’irriconoscibilità. Il tono si era radicalmente raffreddato, era tornato ad essere più sobrio, come ai tempi dei poeti della metropoli dell’età di Weimar: sobrio al punto da fare apparire romantico persino il pathos dell’oggettività coltivato dalla Neue Sachlichkeit.
Al completo disarmo retorico del linguaggio dei reduci di guerra (Gunter Eich, Peter Huchel) fece seguito nei più giovani il rigoroso ripensamento dell’aspetto comunicativo del linguaggio poetico (Enzensberger, Rühmkorf o, all’Est, Heiner Müller e Volker Braun). Come nell’onnipresente Bertolt Brecht, la metafora divenne una funzione dell’algebra lirica. Ora la poesia era definitivamente regolata sulla normale temperatura corporea. E questo era un movimento che aveva coinvolto l’Europa intera, dalla Scandinavia alla Sicilia, anche al di là dei confini dei sistemi politici nell’est e nell’ovest, in analogia alle forme architettoniche in vetro e cemento armato che andavano assomigliandosi internazionalmente. Tipico dell’atteggiamento di quegli anni è un verso di Pier Paolo Pasolini nel suo lungo poema-autoritratto Who is me, ripetuto più volte, come una formula di scongiuro: «perché tu non mi leggessi come si legge un poeta». Il bardo dell’epoca industriale era un Anti-Orfeo dichiarato. Non voleva essere confuso con un uccello canterino, una lingua d’angelo, un tenore da belcanto. La rivoluzione dei media elettronici lo aveva portato a ripensare l’aspetto funzionale-pragmatico del suo lavoro. Si annoverava nel team degli ingegneri del linguaggio, per dirla con Stalin; faceva ora un uso puramente tecnico, libero dalla sublimità, del watt lirico. Allo stile artificioso ed elaborato delle élites poetiche europee, di cui ogni paese aveva la propria scuola nella propria lingua nazionale, era subentrato il “parlato” autoriflessivo dell’uomo medio sociologico: un idioma lavato chimicamente che faceva apparire come remoti arcaismi le vaghe fantasticherie, le malinconie e i pretenziosi estetismi dei progenitori. Chi avrebbe potuto ancora proclamare alto e sonoro come un tempo Baudelaire che la poesia è l’antidoto al vizio della banalità? Retrospettivamente si può anche parlare di impoverimento dell’espressione: all’epoca fu avvertita, e di conseguenza dichiarata, come conquista democratica, come potenziamento della velocità di reazione, del fiuto politico, della vigilanza intellettuale. La poesia ora era superattuale, aperta a quasi ogni tema, una cloaca minima di tutti i problemi sociali. Era diventata però anche il pasto quotidiano consumato in fretta, la lirica un metabolismo per digerire in permanenza il banale. Il verso, che una volta era stato un aristocratico piacere dello spirito, nato dalla nostalgia di riuscire sgraditi, di brillare e di confondere, fece presto comunella con tutto ciò che gli capitava a tiro. In questo consisteva la sua nuova indistruttibilità, ma forse anche il suo maggior deficit. In seguito la «poesia concreta» cercò di distruggere con l’esperimento sistematico ogni residuo metafisico che fosse sopravvissuto nella parola poetica. Il verso come testimone di un’esistenza singola venne sacrificato all’abile gioco verbale e alla sua elaborazione linguistica. In tal modo veniva fatta saltare in aria la cerchia del sublime in poesia, nel senso di uno Stefan George, ma anche ad esempio di un Wallace Stevens: via libera alla versificazione come inconcludente gioco di società di tanti dilettanti. Da quel momento sarebbe stato pretendere troppo che uno dovesse cambiare la propria vita solo perché certi passi di un’opera d’arte gli avevano guardato dentro. La letteratura era tornata ad essere il più bello dei passatempi e la poesia il suo raffinato programma di contorno. Adesso quasi nessuno avrebbe potuto sottoscrivere la frase di T.S. Eliot, summa di una vita poetica piena, ricca di azzardi, segnata da crisi e catastrofi secondo cui l’esperienza di una poesia è l’esperienza di un attimo e al contempo quella di una vita intera: «The experience of a poem is the experience both of a moment and of a lifetime».
La valenza delle parole a seconda della posizione
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La poesia è magia del soggetto (Subjektmagie) come evento linguistico. Fino a ieri il suo presupposto era ciò che la filosofia del giorno d’oggi ha definito retrospettivamente, come dato di fatto, Altsubjekt, soggetto in senso antico: dunque il singolo individuo che s’impone e interessa come tale, un carattere, un essere con una biografia esemplare, le cui euforie e crisi erano esemplari come lo erano la sua esperienza vissuta e le sue opinioni. Nell’ars poetica di Orazio, che fra le poetiche tramandateci dall’antichità è l’unica scritta dal punto di vista della pratica poetica, è questo soggetto a costituire il fattore decisivo, accanto alla poesia stessa e alla sua tecnica: è lui la concreta forza della natura che dirige ogni cosa. La poesia deve le maggiori spinte al suo sviluppo a singole psiche foriere di tempesta, a viandanti, profeti, alchimisti verbali, artificieri e neurotici dell’espressione. In epoche di indebolimento o dissoluzione dei soggetti molti indizi inducono a ritenere che la poesia si riduca interamente al puro evento verbale. Prima d’allora continua a pungerci con i suoi segnali soggettivi, sottili e profondi come punture di spillo – che agiranno, s’intende, sempre solo localmente.
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Questo sarebbe il nocciolo della mia poetica che procede sperimentalmente: la teoria del senso locale delle parole. Il valore d’oscillazione e il valore posizionale della parola legata nel verso si condizionano reciprocamente. Si potrebbe dire che il valore posizionale è al tempo stesso anche il gradiente del senso locale delle parole: la loro nostalgia di un significato stabile per l’individuo che spera con il loro aiuto di ancorare la propria esistenza nel tempo e nello spazio. Come per le variabili nelle equazioni matematiche, nella poesia conta la singola parola. Una parola in più o in meno e la sua posizione nel contesto possono decidere il corso della vita, le simpatie personali. Ogni parola ha un suo preciso tempo di ingresso in scena. I poeti sono persone che hanno interiorizzato come compito vero della loro arte l’emergere delle parole al momento giusto. Il che non significa che siano sempre all’altezza di questa esigenza massima, però hanno almeno un’idea della cosa.
Tutto sta nel fare risuonare la parola al posto giusto nel verso, non troppo presto, non troppo tardi. Il valore posizionale risulta dal contesto semantico nella poesia, dalla sua architettura semantica, ma anche, dato che ogni poesia è al tempo stesso un evento drammatico, dalla sua drammaturgia, vale a dire dalla struttura interna che è progettata in funzione della massima efficacia possibile delle parole. Il valore posizionale si determina quindi tanto semanticamente e contestualmente ccome anche prosodicamente e solo in seconda linea grammaticalmente. La parola nella poesia fiorisce raggiungendo la piena grandezza e il pieno effetto solo nel campo elettrico del contesto preciso.
L’alfabetizzazione fa sì che le parole ci appaiano tutte ugualmente vicine, ugualmente lontane e disponibili in ogni momento non appena si padroneggi l’ortografia. Fino a quel momento però restano meri vocaboli. Il loro vero significato lo acquistano solo alla luce dell’esperienza. Nella vita ognuna di esse riceve il suo senso effettivo solo in un preciso momento e solo allora viene per così dire messa a fuoco. La poesia inscena il momento in cui avviene la comprensione personale di ciò che la lingua ha voluto dire da sempre. Baudelaire lo esprime così: «C’è nella parola, nel verbo, qualcosa di sacro che ci impedisce di farne un gioco d’azzardo. Maneggiare sapientemente una lingua vuol dire praticare una specie di stregoneria evocatoria».
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Il principio espressivo più lontano dalla faciloneria è il verso. È il principio di gran lunga più refrattario alla vacuità e alla caducità di tutto ciò che viene detto, quello con il più alto grado di resistenza nei confronti dell’usura di tutti i significati. Non vi è mezzo migliore del verso per acuire il linguaggio, in un atto di massima concentrazione, in modo che sprizzi scintille e riveli se stesso. È infatti sempre la lingua che passando per le vie traverse del soggetto desideroso di esprimersi, rivela qualcosa su se stessa, sulla sua intima struttura cellulare, sulla sua storia e origine, l’opera collettiva dei suoi modi di dire e delle sue regole.
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Della rima. Di tanto in tanto la rima irrompe attraverso la lingua, guizza nel cervello di questo o quel poeta. Ciò avviene però in modo involontario: la rima non la si cerca, si trova. A volte parte come un colpo sparato nel silenzio. O è quel coboldo dai modi inurbani che gioca con le sincopi e fa le sue burle con le consonanti.
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Il futuro della poesia è nella frase.
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C’è l’ondeggiare dei principi di sviluppo – dissoluzione della forma, ripristino della forma, trasformazione della forma – e c’è la continuità della tradizione poetica che attraversa tutto quanto. L’immagine nata dalle distruzioni continua a rimanere immagine. Al di qua dei decreti e manifesti ha continuato ad esistere attraverso i secoli il dialogo tra singoli parlanti che si riconoscono per il fatto di aver qualcosa da dire. Ogni dogmatismo della modernità letteraria, anche il più ludico, suscita prima o poi una voce di protesta. «Oh, questo idiota alfabeto dei colori di Rimbaud!», lamenta Ossip Mandel’štam pensando alla copertina monocromatica dell’edizione di Puškin nella libreria dei suoi genitori. Si riferiva a Voyelles, il pezzo di bravura di una sinestesia lirica in cui Rimbaud per ognuna delle vocali A, E, I, O, U accende un fuoco d’artificio di colori e produce così un senso di vertigine con il solo turbine delle metafore. Sorprendentemente tutto ciò continuava ad avvenire nelle forme di Petrarca e di Shakespeare. La pirotecnica frastornante di Rimbaud viene dall’ordinata batteria di un sonetto classico. La sua modernità attingeva la propria forza dall’ibridizzazione. Da allora i poeti non hanno lasciato nulla di intentato nel regno dell’espressione per sbalordirci con stranezze, superlativi, estremismi e bizzarrie. Un filo rosso sottile si allunga però attraverso le poesie genuine, le poche che hanno saputo far giungere il loro messaggio naturale contrabbandandolo attraverso tutte le rivoluzioni formali. Credo che il nuovo, mai udito prima non sarà più da cercare nell’estetica della poesia ostentata nei manifesti: ora si mostra nelle strutture minute dei versi.
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Ogni poesia è un disegno unico, una miniatura musicale in virtù della formula che le è insita – formula che un Hölderlin ha chiamato il calcolo regolato da leggi. Pur con sempre nuovi accordi, un’infinita possibilità di combinazioni, la poesia non può negare la sua vicinanza alla semplice composizione strumentale. Non arriva al suono pieno dell’orchestra. Resta legata al principio della voce solista.
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L’evidenza sensibile della poesia si deve ad un ultraillusionismo dello spirito. Le poesie si leggono per così dire a occhi chiusi. Da analogie e metafore il lettore ricostruisce un mondo alla luce del suo cielo interiore. Nella poesia legge in se stesso.
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La poesia traspone la lingua in uno stato onirico in cui essa meditando si accerta delle realtà che assediano. Le poesie sono voli ad alta quota della coscienza, giri extra che un pilota innamorato compie sopra la terra, dopo che tanto tempo addietro è stata occupata da tutti gli altri.
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In complesso la poesia è una perifrasi della vita umana. Al di là delle cosiddette avanguardie di un tempo si è aperto un ampio campo. Ora si può ricominciare dall’inizio, ognuno per suo conto. Per chiunque abbia la stoffa del poeta, l’orologio è puntato sull’inizio. La vecchia affermazione di Hegel secondo cui la poesia è l’arte delle arti non ha ancora perso del tutto il suo significato. Il gioco della poesia non solo non si è esaurito, esattamente come non sono svaniti la ricerca della felicità, il senso degli affari e l’amore sessuale, non solo appare con massima vitalità all’altezza del suo tempo nelle sue idee e problemi, ma in questo gioco rimane sempre anche un surplus, una tacita provvista di riserva per il futuro. Ogni verso riuscito è come l’arco da cui il pensiero scocca come una freccia, e il lettore può seguirlo a lungo e da questo errare dello sguardo ritorna con la psiche stranamente arricchita.
La poesia è la cattiva coscienza della letteratura. Tra coloro che hanno il potere in letteratura nessuno sa esattamente che uso farne: tutti ne hanno un po’ paura o la evitano. C’è l’editore colto, di larghe vedute, che, quanto mai ligio agli obblighi, si tiene sempre nella sua scuderia uno o due lirici, strigliati in segreto da un consulente editoriale. A volte li si fa uscire e questi fieri animali vengono presentati a un pubblico di esperti che valutano professionalmente i loro pregi. A tale scopo è stata nel frattempo introdotta la giornata mondiale della poesia. Poi c’è l’eminente critico di giornale che in una recensione su doppia colonna riversa magnanimo le sue lodi di grande sottigliezza sui loro volumetti oppure ruotando il polso con infinita nonchalance, li condanna. In ogni caso, si tratta sempre di decisioni totali: dannazione eterna o adozione a vita. Per inciso, proteggere un poeta è ben visto, è una dimostrazione di sensibilità che non costa nulla e si scommette volentieri su cavalli dei cui punti di forza i più hanno solo idee vaghe. Per finire: c’è anche l’accademico che spera di assicurarsi una modesta esistenza mettendosi in luce con una monografia su uno di questi autori difficili.
Dietro a tutto sta però la poesia come amichevole absolutum del linguaggio, la meno appariscente di tutte le opere d’arte, quella meno dispendiosa, – la singola prossima poesia, nata libera, imprevedibile.
[Immagine: Durs Grünbein. Foto di Vangelis Patsialos].
” Mercoledì 2 giugno 1999 – Non ho ancora deciso se la fortuna del termine « valenza » dipende dal fatto che è una specie di femminile di « valore » oppure dal fatto che è uguale al nome di quella località piemontese conosciuta da tutti – soprattutto dalle donne – per essere la città dove si fanno le cose d’oro. “.