[Dal 1° al 25 agosto LPLC2 va in vacanza. In questi giorni ripubblicheremo alcuni articoli usciti da febbraio a oggi, con qualche sorpresa occasionale. Il post di oggi è uscito il 20 febbraio 2019. Buone vacanze!
È da poco uscito Trasparenza di Maria Borio, nella collana “Lyra giovani” di Franco Buffoni per Interlinea. Il puro, l’impuro e il trasparente sono le tre sezioni in cui è diviso il libro. Raccontano la trasparenza. Il trasparente è la sintesi, il puro e l’impuro sono la tesi e l’antitesi. La sintesi del mondo digitale è il grande vetro attraverso cui traspaiono il puro e l’impuro mescolati, l’umano e il non umano, la velocità e la prospettiva. L’uno altro limite dell’altro. Ecco una scelta di poesie.]
trasparente
se la verifichi, ma tutt’altro che una serena esplorazione
Amelia Rosselli
V
La coscienza separata dal corpo ha sentito il tempo pulirsi
nella casa come in una vasca una luce di fondale
i mobili flessi sono dita vegetali, il circuito elettrico sciolto
una polvere, una prospettiva, un filo incandescente
il tempo che è coincidenza, la storia di tutti e uno
trasparente fuori dal baricentro nell’acqua
senza peso, vive e vede.
***
Osservate, chiedete non alla forma
ma fuori a tutto il resto cosa sia,
questa scrittura o le unghie esili,
le biografie anonime o le parole anonime.
Mi dicono che può essere forma questo libro a schermo
dove vedi vite in frammento o luce stupita.
La forma è lo schermo come una casa azzurra,
statistica e figure, un ritmo che lega gli uomini
nella mia mente. La forma è, non è ciò che volete
io dia. È, non è il divenire. È disfarsi, a volte.
L’altro limite, solo l’immagine, mi hai detto, ma lo cancello
e lo riscrivo: lettere, vi dico, pensatele, in ogni lettera
guardate una parola come un piede di bambino
appoggiato alla mano della madre, quella mano
alla pancia e la pancia a un pensiero.
A volte seguo questo percorso perché una scena accada
e non sia forma sola, ma pancia, mano, piede
che non vedete, anche nelle immagini
disordinate nell’etere sempre vi seguo,
un aereo silenzioso che rientra nell’hangar
o il cieco che arriva all’ultimo segno del braille.
Mi hanno detto di nuovo di fermarmi sulla forma,
la forma che se scrivi o vivi non è mai lo stesso.
Con i pensieri come unghie lego vite
disunite a schermo.
***
1980
La provincia si è riempita di case nuove.
C’è una felicità. Non eravate ancora nati.
Le case salde di coppie eternabili.
Pensavamo che si espandesse per gru altissime
e alberi trapiantati l’anello di catrame
che terminava nel campo e il campo sereno
come di fronte a uno spettacolo. Dici
non eravate ancora nati, ma esisteva una forma
su cantieri e famiglie: le radici che forzavano,
il catrame, le gru montate, i figli nati,
uno per uno un’automobile, la felicità
come pelle nutrita di un rettile.
Una primavera calda vi taglia adesso
fra le buste della spesa e i bulbi nel cellofan:
ci taglia dove dico guardate il campo con le rovine
delle immagini, il tubo catodico spezzato.
Nel suono fermo della televisione
le case indietro si sbriciolano nel video:
le tiriamo fuori, allacciamo il tetto con il grano.
Senza noi invecchiate come non fossimo nati –
miniatura finita, acqua ragia, ologrammi
dentro tutto il paesaggio.
***
Del male
incagliato e invisibile:
l’ombra, la macchia vicino al polso, la macchia nell’odore, il vestito come il corpo, lo spettro che sale sulla chiazza di benzina, sulla calce, sull’erba, sugli escrementi degli uccelli e nei voli la migrazione che dispone schieramenti e collidono come asteroidi.
Del male che invece
brucia per cecità:
l’uomo diviso per se stesso, come capire che qualsiasi numero diviso per zero dà zero, e zero diviso per zero: zero. Ma questo non è la fine del mondo, perché la vita è propria di divisioni infinite. Ma l’uomo ha iniziato a pensarsi eterno dividendo: ogni uomo come un centimetro di spazio. Lo spazio si satura a mosaico, verità individuali spingono le une contro le altre, asteroidi dentro ogni cellula.
Del male che guardandoci
facciamo bruciando:
l’incandescenza fonde i ricordi, fondono la vita avanti un passo.
Del male che la polvere
secca può coprire:
il cimitero con il nido delle rondini sopra la trave e il libro dei nomi, le date di nascita, le date di morte, l’ostinazione a dividere lo spazio in quadrati di nomi, ogni centimetro un centimetro, una voce probabilmente eterna vicino al mare che arriva di notte e divide tutto per zero, morti di guerra e vivi.
Del male che la rondine del nord
non riconosce:
il suo petto bianco brucia nell’angolo d’ombra, nel verso che assottiglia lo spazio dei nomi trasformandoli in sassi e pagliuzze, cose di materia dura, prove, nell’inerzia e nella lotta, prove nel becco vive.
Del male che dividi per zero
e mai zero diventa:
la volontà si prolunga – sul libro dei nomi in un cimitero di guerra; del male che raccontano e del male che esiste, del male che non si fa invisibile – in zero.
Piantato nel midollo di una donna che vuole essere uomo, di un uomo che vuole essere donna, di identità che sarà quando potremo dividere tutto per zero, zero per zero, le rondini nello zero quando dalla costa migrano
all’altro zero incorruttibile.
***
Esposti 1
Il presente è verde umido, la bocca di Bilbao e la sua vena
come quando i sentimenti in ognuno camminano filtrati.
L’esperienza ha tappe e arresto: la ripresa dell’auto nella pioggia,
quello a cui tendiamo per passione depositata – come chi osserva
il bosco, chi in un video toglie architettura agli anni, chi disegna
un bambino esposto sopra una madre giovane.
Il bambino di Llarroque ha il sesso nudo e rosa,
ma potrebbe essere una rete accecante
– l’arte insiste ancora sulla natura… – e per la natura
cerchiamo cose che siano esposte come le madri le pensano.
Davanti al Guggenheim di metallo un cane altissimo di fiori
è una statua anonima, esposta, in cerchio. L’estremo
su una parete altissima raccoglie l’erba e con quella il video
in un altro spazio – una scena che ora si consolida, ora si espone,
ora diventa dura. Ogni Cristo infante sorrideva…
Tra le statue lignee del medioevo basco
sembra una parola mal compresa, un assedio.
***
Accoglienza
I
Si raccontano, una faccia nell’altra.
C’è il pane fresco sul banco, asciutto,
il suono di cose toccate. Dispone
pezzi in fila – le mani sembrano terra,
le unghie sono tagliate fin dentro la carne.
Le storie scomposte in sagome
fanno corto circuito. Attraverso
il vetro appare reale solo la forma
delle magliette made in china.
Come dire posto per accoglienza?
Il cielo preme su tutti, scivolano fuori
dalle magliette i corpi.
II
Parlare, sentire: entriamo, compriamo
due chili di pane – parlare, sentire
mani calde, gli occhi geologici. Sembra
di attraversarsi, noi nella mattina soli
dal banco al vetro alla strada…
Le aste traslucide attraverso i vetri
sono rami – e il vento
le apre, li chiude.
III
Il nome inizia con la a e finisce con la h
suona una cosa calda, di lievito
ed è vero – la distanza esiste meno
di prodotti che di etnia. La cosa esplode.
Il vento comprime tutti,
finisce con la h, come si soffia.
IV
Sembriamo serpenti, curve, lingue mescolate.
Passiamo attraverso un posto immaginario.
È una sfida, come il ragazzo della favola
nascondeva la volpe tra ascella e fianco.
Il cielo preme su tutti, le solitudini esplodono.
Il posto intorno è vero – i serpenti solo suono.
***
Atmosfera
Ogni respiro è una piccola morte
o forse come dire le mani sulla pancia
vuota di una donna che dentro vuole
un figlio. Ogni respiro si ferma quando
pensiamo al futuro di una generazione
in stanze condivise, contratti condivisi
le mani sul diaframma alto e basso,
se alto dire saremo, se basso dire
la pancia esile a cui nessuno fa caso,
quanto sia vera, quanto il desiderio
sia posto come quello del palazzo
piantato da anni vicino al fiume,
l’appartamento che tiene vite multiple,
o quello sulla riva dei platani tranquilli
della famiglia delle anatre che sceglie
libera dove farsi la casa. Noi ascoltiamo
il ritmo di un respiro, la pancia
che si alza, si abbassa, si tende
mentre la tocchi come non dovesse
rapprendersi mai, non è l’arancia vecchia
che in cucina abbiamo dimenticato.
Pensiamo alla massa giovane dei bianchi
di cultura bianca e la loro vita appena adulta
in stanze, contratti, questa pancia
tutta occhi che riconosce, classifica, scrive
sopra il cervello dell’intestino. Sono nati
gli anatroccoli perché è maggio, la famiglia
migra all’argine vicino al parco. Avete visto
la traccia del nido strappato, una cortina
di ruggine. Così l’appartamento quando è vuoto
come se tutti si fossero spostati lasciando
i giocattoli filamentosi, i vestiti industriali,
contraccettivi, scatole d’aria.
Seguiamo la corrente, sentiamo altre forme:
sotto le case fondamenta, sotto la riva radici.
Il cono dell’atmosfera vuoto su tutti, azzurro.
***
Le forme che si allontanano nella memoria
erano forti da una pietra.
Le forme, i patti, unioni di natura –
è il fiume, il giudice.
Ti sei tirata i capelli
dietro le orecchie,
mia sposa, nel silenzio contemporaneo.
Molto dopo, l’occhio di lui
che può essere lei
scambia uomini e sessi,
il tutto amare liquido.
Mio nonno si sposa, mia nonna
indietro per generare,
mio nonno mia nonna maggiore e minore.
Raccogli la nebbia per fare pietra –
e mi accarezzi le mani,
mio sposo, nel silenzio contemporaneo.
***
Isola
Nella notte il vetro dei grattacieli di Isola
sembra una faglia sull’orizzonte,
il semicerchio della struttura che dice
il potere di rendere solida l’acqua
e liquefarsi al momento
che hai finito di circoscrivere.
Qui le ore per buio distinguono
il silenzio netto, il rullio dei treni,
le gocce nell’aria, le fibre –
ma l’alba ci ha fermato in un suono contorto:
le curve del tempo vuoto
la fuga nel sottopassaggio
l’elettricità aperta tra gli ascensori e il cibo decongelato
gli artefici di questa pulizia di vetro
o una prova molto umana per fermare un azzurro
fragilissimo.
Seduti al limite della fontana
ecco il sorpasso: il freddo
incorruttibile del buio
si restringe e una folla normale
scala i tratti del volto. Al bar mi dici
che è metafora del mondo
oggi trattenendo il cibo nella bocca
il grande vetro di questi edifici
e il cibo profondo negli organi:
meccanica e carne invisibili lavorano
e la loro imperfezione avvolge al puro e all’impuro
entrando uscendo dal grande vetro
come l’arte afona e oscura di Duchamp
taglia a sezioni.
Nel caso premi la mano, può frangersi
o resistere come l’etere resiste,
e lì coscienti o da noi separati
puro e impuro,
il grande schermo di Isola
o un continente.
***
da Trasparenza
I
Le foglie e i ferri traslucidi stringono a metà un punto luce:
ha catturato le ore come cadono in noi se iniziamo a contarle
quando il mare si alza. Il mare è davanti come un orizzonte verticale:
si scioglie senza profondità, sembra certe parti di noi
che evaporano nei contatti umani, diventano verticali.
Il mare è davanti e nel punto luce tra foglie e ferri
vuoto di bene e male se lo guardiamo come il margine di un
metronomo – in ogni riflesso un’ora, in ogni ora un’immagine.
Il mare è davanti a noi, noi siamo davanti al mare.
Nell’acqua trasparente immaginiamo pesci-ago,
tutto è una notte che galleggia nell’alba – nel fondo
cadono foglie e ferri, si incontrano l’alba e la notte.
III
In ogni riflesso un’ora, in ogni ora un’immagine:
tra la collina e il mare hai trovato un posto puro
appartiene a te, ma potrebbe esistere in ognuno,
lo spazio regresso dietro le ossa dove tutto
per un momento può esistere verticale. In alcuni
questo spazio è aperto dalle perpendicolari
di case, binari o dal modo in cui in un video il colore
del metallo si lega al cielo: lo spazio dove la pelle dei frutti
che maturano è quello della pelle che invecchia,
la muta di un animale spaventato mentre invecchia.
La planimetria di un quartiere si dirama, una stanza
di voci, gola sola dentro lingue dense…
Questo, come il posto di ognuno che è l’individuo
e trascina dalla riva del secolo il mito che ognuno è solo
individuo. Ti vedo contro il centro della stanza,
la bestia fiuta il cibo o il predatore,
la moltitudine che è cibo o predatore e la sua pelle
suona come una muta, lascia uno strato
un altro e ogni nuovo giorno cammina con una pelle
nuova sopra il posto interiore che invecchia –
e forse si sente anche il punto in cui il suono sembra
una prospettiva verticale, ma sprofonda in ognuno
che è l’individuo, il mito immobile al centro:
ognuno se stesso solo.
VI
Il mare è davanti. La luce della mattina si sgrana,
ci trasforma nei punti di fuga di una prospettiva rovesciata.
I frutti cadono, ci attraversano i pensieri,
si depositano sopra le ossa e i pensieri si gonfiano
in alto resistenti nell’aria di fine estate, sfere dove
le proiezioni di molti uomini iniziano a scambiarsi
fissandosi dentro la luce mentre mare e terra
raffreddano. Inaspettatamente possiamo diventare
freddi appoggiati su onde e nuvole fredde.
Intorno, il posto adesso è trasparente.
Intorno, è il posto interiore della paura e della verità.
In mezzo, le sfere dei pensieri sono libellule:
si accoppiano e i frutti cadono, dicono
cosa siamo, come ci siamo immaginati.
È mattina: è tornare l’uno di fronte all’altro
– essere la prospettiva fragile e forte
per chi ci ha abitato, chi ci abita.
[Immagine: Erieta Attali, Extension to the Finnish Parliament Building].
Stupefacente! questa poesia che non è poesia forse non è ancora poesia (ammesso che io sappia cosa sia poesia) ma un pensiero un percorso una prospettiva verticale “il mare è davanti come un orizzonte verticale” pagina dopo pagina si forma si mette in forma ci vive ci scrive ci abita ci informa “ci trasforma nei punti di fuga di una prospettiva rovesciata.”