di Daniele Balicco

 

[Dal 1° al 25 agosto LPLC2 va in vacanza. In questi giorni ripubblicheremo alcuni articoli usciti da febbraio a oggi, con qualche sorpresa occasionale. Il post di oggi è uscito il 26 maggio 2019. Buone vacanze!]

 

Ma se il senso della realtà esiste allora ci dev’essere anche qualcosa che chiameremo senso della possibilità.

(R.Musil, L’uomo senza qualità)

 

Il continente europeo è un gigante economico e un nano politico. L’insieme della ricchezza lorda prodotta dalle sue 28 economie nazionali, ne fa, conti alla mano, la prima potenza economica del mondo. E nonostante negli ultimi decenni si sia attuata un’aggressiva dismissione delle forme di welfare pubblico, quanto meno nei Paesi fondatori resistono ancora tracce di quel compromesso socialdemocratico fra capitale e lavoro (ospedali pubblici, istruzione gratuita, previdenza e ormai poco altro) del tutto inesistenti altrove. Come sappiamo, è stato il rimbalzo sull’Unione della crisi del capitalismo anglo-americano del 2007 a far esplodere gli squilibri interni latenti del suo modello di sviluppo. E a rendere invece patenti la follia del suo assetto istituzionale e la cecità politica del blocco di potere finanziario-industriale che la governa.

 

È difficile capire, infatti, per cosa realmente si stia votando oggi. Per molti aspetti, il progetto costituente europeo sembra non avere né capo, né coda. Eleggiamo un parlamento che di fatto non ha alcun potere legislativo. Dei 28 paesi membri, 19 usano una moneta unica che coordina 19 politiche fiscali differenti, in competizione l’una con l’altra. Basti pensare che Olanda, Lussemburgo, Irlanda, Cipro e Malta sono tecnicamente dei paradisi fiscali. Non esiste un bilancio pubblico comune, né una politica estera comune; e, come se non bastasse, abbiamo una banca centrale senza un governo, governi privi di una banca centrale e un sistema bancario senza un effettivo prestatore di ultima istanza. Sembrerebbe quasi uno scherzo, il castello di Kafka; ma l’Unione è stata progettata e costruita così.

 

Leggere Euro al capolinea? La vera natura della crisi europea di Riccardo Bellofiore, Francesco Garibaldo e Mariana Mortàgua (Rosenberg & Sellier, 2019) aiuta a capire come siamo arrivati fino a questo punto e quali siano le cause strutturali di quella che ormai appare come una vera e propria crisi di legittimazione dell’Unione Europea. Va subito detto che la lettura di questo lavoro non è semplice, né tantomeno rassicurante. L’argomentazione, infatti, è analitica: non offre fianco a scorciatoie teoriche, né tantomeno a soluzioni politiche immediate. Il volume raccoglie quattro articoli e ruota intorno ad una questione di fondo che potremmo riassumere così: o si ricomincia a pensare in grande, a progettare una nuova fase costituente – riaprendo un conflitto radicale sul “come”, “quanto” e “per chi produrre” attraverso un vero e proprio “piano del lavoro” proiettato su scala continentale – o l’Unione Europea imploderà. Per citare, come fanno gli autori nel volume, T. S. Eliot, magari “non già con uno schianto, ma – sicuramente – con un lamento”.

 

Il saggio è una critica solidamente argomentata alle due ipotesi interpretative oggi dominanti sulle origini della crisi dell’Unione Europea. Per gli autori, quest’ultima non va letta né come una crisi causata da eccessi di spesa pubblica dei paesi del Sud Europa – come vuole la vulgata neoclassica e il 90% della comunicazione mediatica; né tantomeno come effetto delle divergenze del saldo delle partite correnti all’interno dell’Eurozona. In altre parole, come eccesso di esportazione nette da parte del paese economicamente dominante: la Germania – tesi della vulgata eterodossa. Rispetto a quest’ultima ipotesi, nel libro si può leggere anche una critica serrata ad un testo che, qualche anno fa, ha avuto molto successo: Il tramonto dell’Euro dell’economista Alberto Bagnai, oggi senatore leghista e “consigliere del principe” Matteo Salvini.

 

Per gli autori, invece, non si capisce la natura strutturale della crisi europea se non la si colloca all’interno del sistema capitalistico mondiale. Il punto di partenza sta dunque nel porsi una domanda semplice: quale tipo di capitalismo è entrato realmente in crisi a partire dal 2007? Non certo un generico “neoliberismo” di cui straparlano sociologia e quotidiani. Per gli autori, ad implodere nel 2007 è una forma specifica di capitalismo: un paradossale keynesismo privatizzato o money manager capitalism che ha direttamene sussunto il lavoro nella speculazione finanziaria attraverso l’imposizione di consumo a debito. In altre parole, è entrata in crisi la creazione di domanda effettiva mondiale, organizzata intorno all’indebitamento finanziario delle famiglie anglo-americane, sbocco dei neomercantilismi europei (Germania e Italia in testa) e asiatici (Cina). Per l’Europa si tratta dunque di una crisi da eccesso di offerta in settori chiave.

 

Se non si presuppone questo orizzonte di fondo, la realtà europea diventa letteralmente incomprensibile. Il volume ricostruisce quindi le dinamiche interne alla ristrutturazione industriale in corso (la struttura economica europea ha sempre più una forma reticolare transnazionale gravitante intorno al cuore tedesco ed è sempre più spostata verso Est, dove per altro si registra una crescita impressionante degli investimenti diretti cinesi su logistica e sistemi industriali) e alla sua integrazione monetaria: e qui l’analisi dei flussi finanziari mostra come siano essi stessi il presupposto, e non l’effetto, degli squilibri interni alle macro-aree europee.

 

Se vale questa lettura, l’uscita dall’euro si mostra come risposta illusoria a contraddizioni sistemiche che nessuna sovranità nazionale può ormai più governare in modo indipendente, essendo “i livelli minimi di efficacia per una regolazione economica, finanziaria e sociale dei processi, alzatisi su scala sovranazionale” (p.110). Nello stesso tempo, però, se non cambierà politica economica e architettura istituzionale, l’Europa non potrà che implodere. Che fare, dunque?

 

A chiusura di libro, gli autori citano una famosa pagina dal primo volume dell’Uomo senza qualità di Robert Musil, dove lo scrittore austriaco difende contro lo strapotere del principio di realtà, la potenza del principio di possibilità come “volontà di costruire”, come “consapevole utopismo che non si sgomenta della realtà bensì la tratta come un compito e un’invenzione”. Come ricordano gli autori, nella storia sociale europea, “le uniche riforme che sono state mai realizzate sono nate dal rifiuto delle compatibilità date”. Da qui si deve partire, da questo rifiuto. Non regredendo verso soffocanti identità nazionali; né tantomeno accettando passivamente il destino autodistruttivo che il blocco di potere finanziario-industriale tedesco ha imposto a tutto il continente. Rompere con le compatibilità date, ricominciando a pensare in grande. Esiste la possibilità per cui l’Europa da nano politico si trasformi in potenza democratica. Serve una visione complessiva, un lavoro culturale capace di imporre un’egemonia e, soprattutto, un’organizzazione sindacale nuova, proiettata su scala continentale, che riesca a difendere, sul terreno della produzione, gli interessi del lavoro europeo come soggetto unico organizzato. Nessun partito politico oggi in Europa è in grado di sostenere un progetto politico simile. Eppure, non è detto, che il principio di possibilità ad un certo punto, in modo del tutto inaspettato, prenda il sopravvento e ci trasformi. Come è già altre volte accaduto.

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