di Federica Gregoratto
[Dal 1° al 25 agosto LPLC2 va in vacanza. In questi giorni ripubblicheremo alcuni articoli usciti da febbraio a oggi, con qualche sorpresa occasionale. Il post di oggi è uscito il 19 marzo 2019. Buone vacanze!].
Mia madre è quasi sempre stata una casalinga e una mamma a tempo pieno. Questo è sempre stato il suo lavoro, prendersi cura di me, mio fratello, mio padre, della nostra casa, ma anche di un sacco di gente e di cose intorno a lei: per molti anni ha dato ripetizioni ai figli di parenti, di amiche o conoscenti che andavano male a scuola, si è presa pieno carico di molti traslochi e riparazioni, si diverte a ristrutturare vecchi mobili o ricamare tovaglie da regalare (o da far regalare), è sempre disponibile quando amiche e parenti hanno bisogno di confidarsi, si è occupata da sola del vecchio padre per molti anni (nonostante lui la ricompensasse solo con rancore o indifferenza) e continua a occuparsi assiduamente di sua madre (un altro caso esemplare di vita femminile completamente dedicata, o sacrificata ai bisogni altrui).
Tutto questo è sempre stato lavoro non retribuito.
Un paio di volte è capitato che si infuriasse, e ci piantasse in asso uscendo di casa con fare che a noi pareva eccessivamente drammatico. Anche se solo per un paio d’ore, però, la sua assenza ci gettava, noi bambini ma, sono sicura, anche mio padre, nel panico. Come saremmo sopravvissuti senza pranzo e cena, come avremmo potuto affrontare da soli la confusione e sporcizia che ci avrebbe inevitabilmente assaliti da lì a poco?
Eccolo il senso, in una vignetta privata e particolare, dell’idea di uno sciopero femminile, o meglio, di uno “sciopero della riproduzione sociale” – una nozione diventata indispensabile per capire il significato e lo scopo delle considerevoli proteste femministe, anticapitaliste ma non solo che sono dilagate in tutto il mondo negli ultimi due anni e mezzo, e che non sembrano esaurirsi, anzi. Non si tratta solo di proteste o manifestazioni. Lo scorso 8 marzo, paesi come l’Italia, l’Argentina, la Spagna hanno visto mobilitare masse di persone – donne, trans, queer, persone non-binarie, e uomini – per un intero giorno di sciopero. Ore di sciopero e marce sono state organizzate anche in Grecia, Belgio, Germania, Francia, Irlanda, Islanda, Svizzera. In Brasile, Cile, Messico, Perù e negli Stati Uniti le mobilitazioni sono state ingenti. Da Festa della donna o Giorno internazionale delle donne, l’8 marzo è ormai diventato a tutti gli effetti il giorno dello Sciopero internazionale delle donne. Ma non solo 8 marzo: Tutto è cominciato nell’ottobre 2016 in Polonia, quando più di 10.000 persone hanno organizzato marce e astensioni dal lavoro per contestare una proposta di legge anti-abortista. Di lì a poco, il movimento Ni Una Menos, ora fattosi internazionale (Non Una di Meno in Italia) è scoppiato in Argentina. Nei primi mesi del 2017, un gruppo di influenti femministe statunitensi (tra cui Angela Davis) ha indetto uno sciopero delle donne che aveva come target sia il neoeletto Trump che il tipo di femminismo apparentemente progressista e di fatto inefficace ed elitario à là Hilary Clinton. Molti altri scioperi di categoria, tutti guidati da donne (per esempio insegnanti, infermiere, assistenti di volo) si sono susseguiti con ritmo incessante.
Molto è stato già scritto a proposito di questa terza ondata femminista. In quel che segue, vorrei esplorare alcune questioni concettuali legate alla nozione – complessa, e non scevra di difficoltà – di riproduzione sociale e relativo sciopero.
Per riproduzione sociale (social reproduction) si intende quell’insieme di attività che creano, mantengono, sostengono e migliorano la vita, sia biologica che sociale, delle persone:[1] Non si tratta solo di un lavoro diretto sui corpi e le menti (nutrire, lavare, cambiare d’abito, sorreggere, incoraggiare, accarezzare, rimproverare, avvertire, insegnare una serie di movimenti e nozioni, e molto altro) ma anche sugli oggetti e le infrastrutture materiali di cui i corpi e le menti hanno bisogno (procurarsi e preparare il cibo, nonché gli strumenti che servono in cucina, procurarsi, creare, modificare o aggiustare abiti e mobilio, riparare lampade, lavandini, water e tutta una serie infinita di oggetti che si usurano e rompono, e molto altro). In più, è un lavoro di organizzazione, amministrazione e pianificazione: delle risorse finanziarie (non) disponibili per le cose di cui sopra, del tempo necessario alle cose di cui sopra, delle varie attività che si deve o vorrebbe svolgere all’interno di un arco temporale definito e da definire (visite mediche, compleanni, festività più o meno comandate, tempo libero, etc.)
È un lavoro molto spesso svolto in ambiti definiti come ‘privati’ e ‘intimi’, ma che di fatto indirizza e spinge al di fuori delle mura domestiche, preparando i bambini e le bambine ad andare a scuola ma anche al parco, o nelle case altrui (o in piazza e nelle strade), gli adulti ad andare in fabbrica, in negozio o in ufficio, gli anziani ad andarsene – in modo dignitoso e, nei casi fortunati, sereno – da questo mondo. È un lavoro che connette la casa al mercato, agli ospedali, al cimitero, ai luoghi di istruzione o svago, agli spazi pubblici e politici, e, perché no, artistici.
Il lavoro di riproduzione sociale è sotteso a tutto ciò che si fa in una comunità, anche a ciò per cui si viene pagati, e richiede abilità (skills) e disposizioni che sono all’opera in moltissimi altri ambiti economicamente riconosciuti. Con ciò voglio alludere a due cose: Primo, al fatto che ultimamente il mercato si è appropriato di molte delle attività e competenze che sono state ‘prerogativa’ dell’ambito domestico/femminile escluso dall’economico durante fasi precedenti del capitale – nella sua fase aurorale, liberale, e successivamente fordista, controllata dallo Stato e incentrata sul modello male-breadwinner/female-homemaker. Questo paradigma ha, non dimentichiamolo, una determinazione classista e razziale: Per le donne non-bianche, non europee/occidentali e non appartenenti a classi medie e alte la distinzione privato/pubblico ha rivestito un ruolo molto meno determinante nell’organizzazione e divisione sociale del lavoro. A partire dagli anni ’70-’80 in avanti, poi, molte più donne sono entrate a vele spiegate nel mercato del lavoro produttivo e manageriale, trasferendo buona parte della riproduzione sociale a baby sitter, infermiere qualificate, collaboratrici domestiche, e altre figure professionali spesso sottopagate, remunerate in nero o apertamente sfruttate. Buona parte, ma non tutto. Anche se negli ambienti e nei paesi più progressisti molti uomini si stanno facendo avanti, nel complesso la riproduzione sociale rimane ancora una dimensione prevalentemente femminile. Forse è l’unica cosa che hanno in comune donne appartenenti a classi e gruppi sociali diversi, migranti o autoctone, coloro che rinunciano a un salario indipendente, coloro che hanno una carriera prestigiosa ma poi si ritrovano con un “secondo turno”[2] a casa, e coloro che si destreggiano tra le varie gigs di una cosiddetta gig economy che precarizza e indebita al di là delle capacità emotive, psicologiche e fisiche di sopportazione. La seconda cosa che volevo dire – e, mi pare, non ancora sufficientemente esplorata nella letteratura di riferimento – è che la riproduzione sociale rinchiude già in sé, in forme magari rudimentali e non specializzate, aspetti costitutivi di altri tipi di lavoro: Non solo è “lavoro d’amore”, affettivo e di cura, ma comprende anche altri aspetti del “lavoro immateriale” (Lazzarato); in più, è più classicamente manipolazione, appropriazione e trasformazione della natura (Locke, Hegel, Marx).
Un tratto centrale della riproduzione sociale è la sua invisibilità: Non solo le donne che dedicano molto tempo ai lavori di riproduzione sociale finiscono in povertà o in condizioni di precaria dipendenza, esse non godono nemmeno di alcuna altra forma di riconoscimento sociale e pubblico. Non sembra esserci nulla di meritevole in quelle che sono viste come banali faccende quotidiane, di ordinaria amministrazione, facilmente risolvibili, ripetitive, automatiche, e per di più “naturali” per il genere femminile:[3] In effetti, quando la riproduzione sociale fila liscia, nessuno si accorge che un lavoro è stato portato a termine, e quante energia (emotiva, psicologica, fisica) ci è voluta.
È quando le cose cominciano ad andare storte, quando la riproduzione si inceppa, che inizia il bello. Questa l’intuizione di base di Feminism for the 99%, un manifesto a sei mani (Cinzia Arruzza, Tithi Bhattacharya, Nancy Fraser, tra le promotrici dello Sciopero delle donne 2017 negli Stati Uniti) uscito in inglese per Verso e contemporaneamente in italiano per Laterza, così come in molte altre lingue.
A partire dalla diagnosi di una attuale crisi della riproduzione sociale, le tre autrici invocano lo sciopero della riproduzione sociale come tattica-fulcro di un movimento transnazionale non solo femminista ma anche anti-razzista, ecologista e anti-imperialista. Lo scopo ultimo e complessivo di questo movimento è il superamento dell’attuale ordinamento non solo economico ma anche più generalmente sociale, il capitalismo neoliberale. Da qui il titolo del manifesto, con dedicata al motto originariamente emerso nelle agitazioni di Occupy Wall Street del 2011: La dinamica antagonista di base qui non è solo e non tanto tra l’esigua élite di milionari di fatto arricchitisi in seguito alla crisi del 2008 e la stragrande maggioranza della popolazione mondiale che è stata ulteriormente espropriata, colonizzata, e schiacciata da astratti meccanismi finanziari e algoritmici, ma anche da concrete forze politiche. Il titolo pone infatti l’accento non sull’1 ma sul 99% – percentuale che performativamente vuole sollecitare a creare reti solidali tra i movimenti più disparati che lottano con e per tutte le vittime di sfruttamento, dominio e ingiustizia.[4] Esclusi dal 99% sono sia coloro che credono ancora a un qualche potere salvifico dell’attuale capitalismo (incluse le seguaci del cosiddetto corporate feminism) ma anche le critiche apparentemente anti-capitaliste ma xenofobe e nazionaliste delle nuove destre.
Da OWS al Feuerbach marxiano: il Manifesto è concentrato in 11 tesi (più Postfazione), un’ottantina di pagine in tutto che trattano compattamente, ma con estrema lucidità e sapienza retorica una vasta quantità di questioni bollenti. In quello che segue, non ho la pretesa di riassumerli e commentarli tutti. Mi vorrei soffermare però su quella che mi sembra la domanda centrale sollecitata da questo scritto importante, a metà strada tra il pratico e il teorico: Come si connettono tra di loro i diversi assi di oppressione e di lotta? Che cosa centra il capitalismo con la riproduzione sociale, e come si connettono anti-sessismo (incluse alcune istanze della campagna #MeToo), ecologismo, anti-razzismo e anti-imperialismo?
Cominciamo con la diagnosi della crisi della riproduzione sociale, che seguendo l’impostazione teorica di Fraser,[5] è uno delle spie fondamentali di una grave crisi del capitalismo. La crisi si manifesta nel fatto che, nell’Occidente, i salari reali si restringono, le ore di lavoro sul mercato si allungano, e sempre più individui e nuclei famigliari si trovano costretti a “esternalizzare” il lavoro riproduttivo – soffrendo però acutamente, al contempo, dell’impossibilità di stabilire un decente equilibrio work-life. Come accennato prima, sono soprattutto donne che migrano nel centro dalle periferie mondiali, di colore e/o povere che si prendono carico di quei lavori che le più benestanti non riescono più svolgere. Non si tratta di una soluzione sostenibile, tuttavia, perché priva le famiglie e le comunità già più penalizzate e disagiate di ulteriori risorse riproduttive fondamentali. L’intera vita sociale su scala mondiale, dunque, risente di questa contradizione: Da una parte, il nostro sistema socio-economico, così come qualsiasi altro, ha bisogno nella riproduzione sociale per stare in piedi – senza di essa, tutto ciò che serve alla valorizzazione economica, all’accumulo del capitale e all’incremento dei profitti non potrebbero esistere. I lavoratori salariati, di tutte le categorie, devono pur mangiare, dormire e rimanere in una sufficiente salute psico-fisica, i bambini devono andare a scuola, imparare la disciplina necessaria che permetterà loro un giorno di contribuire adeguatamente al sistema, e così via. Ma dall’altra parte il capitalismo sta rendendo la riproduzione sociale impossibile. Come si esce da questa impasse?
Se ne esce, per prima cosa, riconoscendo l’assurdità della situazione, e dunque facendo diventare visibile la riproduzione sociale: bisogna rendersi conto del significato, del ruolo e dell’impatto di questa serie di attività, e delle persone che le svolgono. Ed è a questo che dovrebbe essere finalizzato in primis lo sciopero della riproduzione sociale.
Ci troviamo ora però di fronte a due problemi: Il primo è ereditato da una versione precedente di questo programma, diciamo pure, rivoluzionario. Come già obiettato agli scioperi indetti dal movimento Wages for Housework negli anni ‘70, e alla sue promotrici Mariarosa Dalla Costa, Silvia Federici e Selma James,[6] non si capisce contro chi esattamente lo sciopero viene mosso. In uno sciopero in cui si interrompe un certo lavoro produttivo, lo scopo è di recare un danno a coloro che traggono profitti da quel lavoro, introducendo così una leva di potere in vista di contrattazioni future. Nel caso dello sciopero riproduttivo, a chi viene recato danno, e perché? Ai milionari dell’1%, agli uomini o a coloro che traggano vantaggio dalla riproduzione sociale senza reciprocare, o alle famiglie benestanti che pagano per esternalizzare la cura? Oppure alla fine a soffrire sono soprattutto coloro che dipendono più visceralmente, bambini e anziani?[7] Inoltre: che cosa voglio esattamente le scioperanti? Come notato in una controversa recensione del Manifesto, le richieste dello Sciopero internazionale delle donne sono troppo variegate, generali e quindi dispersive.
L’errore di una critica di questo genere sta in un’equiparazione tout court dello sciopero del lavoro riproduttivo ad altri scioperi più “tradizionali” (e che il Manifesto non snobba a priori, anzi). Lo sciopero della riproduzione sociale è invece uno sciopero sui generis, diciamo un ibrido tra sciopero e protesta/manifestazione. Dello sciopero mantiene la tattica dell’astensione dal lavoro, mentre della protesta mantiene lo scopo generale di un riorientamento della sensibilità e mentalità pubblica. Quello a cui mira non è tanto una serie concreta di richieste (aumento di salario, miglioramento delle condizioni lavorative, leggi sulle molestie, autonomia circa il proprio corpo, etc.), quanto lo scacco e la ristrutturazione di quanto esperito e categorizzato come normale/straordinario, meritevole/scontato, fondamentale/superfluo, un cambiamento nell’idea di bene collettivo che orienta una società. Per dirla con il Dewey delle Lezioni in Cina, il lavoro riproduttivo aspira ora al riconoscimento pubblico.[8]
Inoltre, la tattica centrata sull’astensione del lavoro riproduttivo è da collegare – su questo il Manifesto è programmaticamente chiaro – ad una serie di scioperi più locali e particolari, e con richieste locali e particolari. Come accennavo all’inizio, vi sono molti esempi recenti di scioperi specifici, a guida femminile, che riguardano diversi settori del lavoro riproduttivo sul mercato (insegnanti, infermiere, collaboratrici domestiche, lavoratrici nelle lavanderie automatiche, etc.). Non solo. Gli scioperi vanno connessi anche ad altre proteste, passate, presenti e future: da Black Lives Matter alle manifestazioni sul clima (in parte i Gilet Gialli ma anche quelle studentesche), dalle proteste contro regimi autoritari (per esempio contro Jair Bolsonaro) a quelle contro l’austerity, dai movimenti di migranti e rifugiati (per esempio negli Stati Uniti quelli volti all’eliminazione dell’ICE) agli attivismi delle comunità LGBTQ+, dei sex workers e delle persone disabili, dai movimenti in solidarietà con la Palestina alle proteste in Gran Bretagna e Olanda circa le condizioni in cui versano università e istruzione, etc.
Su un piano più teorico, a partire dal paradigma di Fraser, il Manifesto collega la crisi della riproduzione sociale ad altre due crisi: quella ecologica e quella della democrazia.[9] Non solo il capitalismo sta distruggendo quella condizione oggettiva di possibilità data dalla riproduzione sociale, ma anche altre due sue condizioni – il potere politico che si forma dal basso, a partire da pratiche comunicative e di azione, e la natura.
Ma qui sorge la seconda questione: qual è il principio che connette tutte queste mobilitazioni? Scrive Arruzza, parlando dell’ “assunzione e reinvenzione dello sciopero come pratica di lotta principale e condivisa a livello internazionale”: “Lungi dall’esprimere una parzialità, un punto di vista specifico, all’interno di un processo di soggettivazione di classe più ampio, attraverso gli scioperi delle donne il movimento femminista si sta ponendo sempre di più come il processo di soggettivazione di classe di questa fase.” Qual è il principio fulcro di questa soggettivazione? Si tratta semplicemente del fatto che la maggior parte delle ultime lotte contro il capitale, contro il dominio di genere nelle sue varie forme, contro i nuovi autoritarismi e imperialismi sono promosse e guidate da donne? Del fatto che sono le donne ad averci rimesso di più con il capitalismo neoliberale e finanziario? Questo non può effettivamente bastare, perché solleverebbe automaticamente la spinosa questione dell’essenzialismo o anti-essenzialismo di genere: Se parliamo di uno sciopero delle donne o femminile, cosa intendiamo per “donna” e per “femminile”? E come connettersi non solo a tutte quelle persone che non si identificano come donne – eppure combattano da e per gli oppressi – ma anche a coloro che rifiutano il sistema di genere binario o qualsiasi sistema che tenta di categorizzare i generi sessuali?
Anche se spesso, inevitabilmente, le retoriche di queste mobilitazioni continuano a usare un vocabolario tradizionale di genere (la dicitura, in fondo, è di un International Women Strike),[10] il punto focale è l’idea di lavoro riproduttivo, e non di lavoro femminile. Ma, allora, come si connette la crisi della riproduzione sociale con le crisi politiche e ecologiche? Si tratta di crisi che stanno semplicemente accadendo tutte allo stesso tempo, vista la natura predatoria, assolutista e irrazionale del capitalismo? Oppure vi è un intimo collegamento tra queste, che va al di là di una loro analogia strutturale?
La risposta deve partire da quello che notavo prima, ovvero la determinazione eccezionalmente multiforme e trasversale della riproduzione sociale. In un certo senso, la riproduzione sociale non sottende solo le attività e gli scambi nelle sfere economiche formali, ma anche lo sviluppo di virtù e capacità politiche, nonché la creazione e il mantenimento di spazi e opportunità di incontro, discussione, organizzazione. La fenomenologia della riproduzione sociale può servire dunque anche a capire i processi in cui vengono a formarsi la coscienza civile e politica degli individui e le motivazioni per impegnarsi in attività politiche, ma anche le pratiche e le infrastrutture in cui materialmente si realizza l’agire politico. Allo stesso tempo, la riproduzione sociale è una serie di attività che hanno luogo in un contesto naturale e che allo stesso tempo intervengono sulla natura, sia umana che non umana, organica e inorganica. Nella riproduzione sociale, i processi naturali devono essere compresi, rispettati, ma anche riportati sotto controllo e manipolati. Guardando da vicino quanto accade nelle micro-pratiche di riproduzione sociale, del resto, ci si rende anche bene conto della nostra inaggirabile vulnerabilità di fronte agli eventi naturali, dell’impotenza umana di fronte a cose che mai potranno essere comprese e controllate fino in fondo.
Una caratteristica fondamentale delle crisi del capitalismo attuale sta nel fatto di aver deformato l’intima connessione tra riproduzione sociale, politica e natura: Le pratiche del lavoro riproduttivo, al momento, servono soprattutto a formare e sostenere attori economici che devono sopravvivere nonostante orari di lavoro disumani, flessibilizzazione, precarizzazione e indebitamento, ma non a formare e sostenere attori politici e collettivi informati, competenti, appassionati e attivi. Anche la natura viene presentata e ‘praticata’ come qualcosa da manipolare secondo schemi ristretti (per esempio il binarismo di genere), da domare (per esempio il desiderio che eccede le istituzioni prestabilite del dating, del matrimonio e della monogamia) o tutt’al più da preservare (per esempio impegnandosi nella raccolta differenziata), ma non come un luogo di esperienza inaudita e trasformativa.
Visto il suo carattere basilare e magmatico, tuttavia, la riproduzione sociale mal si presta a questi tentativi di imprimerle direzioni e finalità fisse e riduttive. Può essere anche intesa come cura del mondo – delle altre persone, delle istituzioni che contribuiamo a formare, degli spazi materiali in cui ci muoviamo, che ci connettono e ci distanziano, di tutto ciò che ci circonda e che è dentro di noi e non è stato fatto da noi. E in questa cura, le cose e le persone non sono mai prese per quello che sono e devono essere, secondo le norme e gli ordinamenti dati, ma per quello che possono ancora diventare, per le potenzialità ancora da sprigionare. È qui dunque che prende forma una soggettività di lotta, aperta, plurale e intersezionale, capace di vedere nel momento critico attuale un’opportunità di presa di coscienza e di trasformazione.[11] È in questa lotta, inoltre, una lotta in cui impariamo e cambiamo non solo il mondo ma anche noi stessi,[12] che la riproduzione sociale si esprime e realizza in tutto il suo prisma di possibilità.
Note
(Grazie a Franco Palazzi, Arvi Särkelä e Karen Ng per aver discusso con me del Manifesto nei modi che mi hanno portato a scriverne).
[1] Come letteratura di riferimento, si veda soprattutto il volume curato da Tithi Bhattacharya, Social Reproduction Theory
Remapping Class, Recentering Oppression. Pluto Press: London 2017.
[2] Si veda Arlie R. Hochschild, The Second Shift: Working Families and the Revolution at Home. Penguin Books: New York 1989-2012.
[3] Un uomo che si occupa dei figli a tempo pieno, invece, è spesso considerato un modello di virtù morale e politica.
[4] Cinzia Arruzza, Tithi Bhattacharya e Nancy Fraser, Feminism for the 99%. A Manifesto, London/New York: Verso, pp. 13 e segg.
[5] Si veda per es. Nancy Fraser, Behind Marx’s Hidden Abode: For an expanded Conception of Capitalism” New Left Review 86, 2014; Nancy Fraser, “Crisis of Care? On the Social-Reproductive Contradictions of Contemporary Capitalism” in Tithi Bhattacharya, Social Reproduction Theory, cit.
[6] In un discorso tenuto nella giornata internazionale della donna l’8 marzo 1974 a Mestre, Dalla Costa spiega che solo uno sciopero in cui vengono a rivestire un ruolo principale le rivendicazioni centrate sul lavoro di cura non pagato può aspirare a diventare davvero uno sciopero generale. Per quanto riguarda il programma del movimento Wages for Housework, si veda per esempio gli scritti di Silvia Federici raccolti in Il punto zero della rivoluzione. Lavoro domestico, riproduzione e lotta femminista. Ombre Corte: Verona 2014 e di Mariarosa Dalla Costa, Potere femminile e sovversione sociale. Marsilio: Padova 1972.
[7] Questo punto è stato recentemente ricordato da Selma James, che saluta la nuova ondata di scioperi in continuità con quelli degli anni ’70.
[8] Si veda John Dewey, Filosofia sociale e politica. Lezioni in Cina (1919-1920). Rosenberg & Sellier: Torino 2017; Federica Gregoratto, “Agonistic Recognition, Intersections and the Ambivalence of Family Bonds: John Dewey’s Critical Theory Manifesto in China” Transactions of the Charles S. Pierce Society 53:1, 2017. In un talk nell’ambito del convegno New Fascism, Mass Psychology & Financialization (New School for Social Research, 21.02.2019), Fraser cita Dewey esplicitamente.
[9] Arruzza, Bhattacharya e Fraser, Feminism for the 99%, cit., tesi 9 e 10; p. 66.
[10] L’insistenza sul paradigma eterosessuale nel Manifesto si spiega a partire dal fatto che l’eterosessualità compulsiva che continua a informare il lavoro riproduttivo, e la distinzione (apparente, in gran parte) tra produzione e riproduzione, è presentata come risultato di pratiche capitaliste. Superamento dell’ordine capitalista neoliberale significa anche superamento dell’attuale regime sessuale e di genere? In questa sede non mi è dato, purtroppo, discutere questa centrale questione.
[11] Arruzza, Bhattacharya e Fraser, Feminism for the 99%, cit., p. 18.
[12] Arruzza, Bhattacharya e Fraser, Feminism for the 99%, cit., p. 55.
[Immagine: International Women’s Day].
L’eccezionale dissimmetria della differenza sessuale collega l’insieme delle pratiche comprese nella riproduzione sociale. La cura del mondo si innesta sul nostro essere prodotto di cure materne.
“Una soggettività di lotta, aperta, plurale e intersezionale, capace di vedere nel momento critico attuale un’opportunità di presa di coscienza e di trasformazione” parte comunque da lì, ma è proprio vero: “un *tratto centrale* (c,vo mio) della riproduzione sociale è la sua invisibilità”.