di John Ashbery

 

 

[Esce nei prossimi giorni per Bompiani Autoritratto entro uno specchio convesso di John Ashbery, a cura e per la traduzione di Damiano Abeni. Presentiamo un estratto del testo e la prefazione di Harold Bloom, ringraziando l’editore per averci dato la possibilità di pubblicarli].

 

 

COME UNO BUTTATO UBRIACO SUL BATTELLO POSTALE

 

Ho tentato tutto, poco era immortale e libero.
Altrove è come stessimo in un luogo dove il sole
scende sfarinato, un po’ per volta,
ad aspettare che qualcuno venga. Volano parole aspre,
mentre il sole tinge in giallo il verde dell’acero…
Tutto qui, ma ermeticamente
ho avvertito il sommuoversi di un fiato nuovo nelle pagine
che tutto inverno hanno esalato l’odore di un vecchio catalogo.
Nuovi periodi si accendevano. Ma l’estate
era inoltrata, non ancora oltre il mezzo del cammino
ma piena e buia della promessa di quella pienezza,
di quel momento in cui non ci si può più sviare
e perfino i meno attenti ammutoliscono
per contemplare ciò che è pronto ad accadere.
Uno sguardo di specchio ti arresta
e tu passi oltre scosso: ero io il percepito?
Mi hanno notato, stavolta, così come sono,
o tutto è ancora rimandato? I bimbi
ancora intenti ai giochi, nuvole che salgono con agile
impazienza nel cielo pomeridiano, per dissiparsi
quando scende il limpido, denso crepuscolo.
Solo in quel colpo di clacson
là in fondo, per un attimo, ho pensato
che l’insigne evento formale stesse iniziando, orchestrato,
i colori addensati in uno sguardo, ballata
che abbraccia il mondo intero, adesso, ma con dolcezza,
ancora con dolcezza, ma con ampia autorità e tatto.
La prevalenza di quei fi occhi grigi che cadono?
È pulviscolo di sole. Hai dormito al sole
più della sfinge, ma non ne sai più di prima.
Entra. Ho pensato che un’ombra tagliasse la soglia
ma era soltanto lei venuta a chiedere ancora una volta
se intendevo entrare, e in caso contrario di prendermela calma.
La lucentezza della notte s’insedia. Una luna dal pallore cistercense
ha scalato la vetta del firmamento, vi si è installata,
socia adesso nell’affare del buio.
E un sospiro sale da ogni minuscola cosa terrena,
da libri, carte, vecchie giarrettiere, dai bottoni di sottomaglie e mutandoni
riposti in una scatola di cartone bianco chissà dove, e tutte le versioni
inferiori di città rase al suolo dalla livella della notte.
L’estate troppo esige, troppo prende,
ma la notte, schiva, reticente, dona più di ciò che sottrae.

 

AS ONE PUT DRUNK INTO THE PACKET-BOAT

 

I tried each thing, only some were immortal and free.
Elsewhere we are as sitting in a place where sunlight
Filters down, a little at a time,
Waiting for someone to come. Harsh words are spoken,
As the sun yellows the green of the maple tree…
So this was all, but obscurely
I felt the stirrings of new breath in the pages
Which all winter long had smelled like an old catalogue.
New sentences were starting up. But the summer
Was well along, not yet past the mid- point
But full and dark with the promise of that fullness,
That time when one can no longer wander away
And even the least attentive fall silent
To watch the thing that is prepared to happen.
A look of glass stops you
And you walk on shaken: was I the perceived?
Did they notice me, this time, as I am,
Or is it postponed again? The children
Still at their games, clouds that arise with a swift
Impatience in the afternoon sky, then dissipate
As limpid, dense twilight comes.
Only in that tooting of a horn
Down there, for a moment, I thought
The great, formal aff air was beginning, orchestrated,
Its colors concentrated in a glance, a ballade
That takes in the whole world, now, but lightly,
Still lightly, but with wide authority and tact.
The prevalence of those gray flakes falling?
They are sun motes. You have slept in the sun
Longer than the sphinx, and are none the wiser for it.
Come in. And I thought a shadow fell across the door
But it was only her come to ask once more
If I was coming in, and not to hurry in case I wasn’t.
The night sheen takes over. A moon of cistercian pallor
Has climbed to the center of heaven, installed,
Finally involved with the business of darkness.
And a sigh heaves from all the small things on earth,
The books, the papers, the old garters and union-suit buttons
Kept in a white cardboard box somewhere, and all the lower
Versions of cities flattened under the equalizing night.
The summer demands and takes away too much,
But night, the reserved, the reticent, gives more than it takes.

* * *

Frantumare la forma

di Harold Bloom

 

Non esiste lettura degna di essere comunicata ad altri se non devia fino a frantumare la forma, se non deforma i versi fi no a creare un rifugio, e così facendo non produca signifi cato sbriciolando quei recipienti che hanno fatto il proprio tempo. Questa frantumazione è retorica, certo, ma in questo modo ciò che viene ferito o accecato è molto più che lingua.
[…]
Prendo ora in esame un testo paradigmatico, la lunga poesia di Ashbery Autoritratto entro uno specchio convesso. Non sarebbe stata considerata una poesia lunga da Browning, ma oggigiorno 552 versi costituiscono, per la nostra menomata capacità d’attenzone, una poesia lunga. Ashbery, come Wallace Stevens, è un poeta profondamente whitmaniano, e di frequente lo è nonostante le apparenze. In tutta la sua carriera si è concentrato su poesie di grande respiro, tra cui i maggiori successi sono Fragment, The Skaters, i Three Poems in prosa, Fantasia on “The Nut-Brown Maid”, e su tutti l’Autoritratto. Si tratta di versioni o revisioni del Canto di me stesso, un po’ come Stevens aveva finemente prodotto revisioni di Whitman in L’uomo con la chitarra azzurra e Note tese a conseguire una narrativa suprema. Necessariamente, Ashbery deve anche modifi care Stevens, anche se lo fa in modo più scoperto in Fragment e Fantasia piuttosto che nelle assai whitmaniane Skaters e Three Poems. Sia Stevens che Whitman sono presenze ancestrali nell’Autoritratto, come lo è Hart Crane, dato che la lingua di questa opera assume in sé, per quanto in modo velato ed evasivo, la tradizione centrale o emersoniana della poesia statunitense.

 

Angus Fletcher, nei suoi studi su Spencer, Milton, Coleridge e Crane ha via via sviluppato una poetica liminale, una nuova retorica delle soglie, e io seguo Fletcher sia nella mia concezione dei topoi degli “attraversamenti” come immagini di voce sia nella mia descrizione della definitiva ratio, o modalità, di revisione dell’apophrades o intempestività capovolta, simile al tropo classico della metalepsis, o transfert metaforico, e alla “negazione” (Verneinung) freudiana con le sue interrelazioni dialettiche, proiezione e introiezione. Io riesporrò e svilupperò da una nuova angolatura questi concetti fl etcheriani nella lettura di Ashbery che segue.

 

Ashbery suddivide l’Autoritratto in sei paragrafi versificati, una suddivisione felice che sfrutterò dando loro nome secondo la mia litania apotropaica di evasioni o rationes di revisione. Sfuggendo con naturalezza da Whitman e da Stevens, Ashbery comincia il suo clinamen dalla tradizione con una fulgida descrizione del dipinto da cui ha preso il titolo:

 

Come lo fece Parmigianino, la mano destra
più grande della testa, protesa verso lo spettatore
mentre con naturalezza sfugge, come a proteggere
ciò che sfoggia. Qualche vetro piombato, travi antiche,
pelliccia, mussola pieghettata, un anello di corallo confluiscono
in un movimento che sostiene il volto, che fluttua
avvicinandosi e allontanandosi come la mano
tranne che è a riposo. È quel che è
sequestrato.

 

Questo incipit repentino è di per sé evasivo, con il “Come” che è una delle “intricate evasioni del come” di Stevens. Il gesto difensivo della mano è una formazione reattiva o illusio teorica, dato che ciò che si vuol dire è che la mano agisce come per promuovere ciò che protegge. Qui lo sfuggire è un’altra modalità del riposo, così che la difesa non tanto protegge quanto sequestra, termine il cui antecedente tardo-latino aveva il significato di “rinunciare per mettere al sicuro”. Ashbery cita la descrizione di Vasari della sfera di legno tagliata a metà su cui Parmigianino ha dipinto quella che il poeta descrive come l’“onda reiterata / d’arrivo” del volto. Non descritto è il reflusso di ciascuna onda, ma l’immagine assente del distacco rende pregnante il controcanto della poesia, che fa il primo ingresso così:

 

L’anima instaura se stessa.
Ma fin dove può fluttuare lontano attraverso gli occhi
e ancora tornare sana e salva al proprio nido? Essendo
la superficie dello specchio convessa, la distanza aumenterà
considerevolmente; vale a dire quanto basta per asserire
che l’anima è un prigioniero, trattato in modo umano, tenuto
sospeso, incapace di incedere molto oltre
il tuo sguardo che intercetta il dipinto.

 

L’intensità emotiva del dualismo estremo che troviamo qui resterà pressoché costante in tutta la poesia. Un tale dualismo è una sorpresa in Ashbery, tuttavia il pathos è proprio ciò che ci attendiamo dall’auto-ritrattista di Fragment e Three Poems. Certo, il tormento dell’Autoritratto ha la forza tipica di Ashbery, anche se di solito non la troviamo altrettanto fervida. Vorrei avanzare l’ipotesi che l’Autoritratto, per quanto sia meditazione piuttosto che lirica, sia una poesia strettamente legata all’Ode su un’urna greca e alla versione che Stevens ci ha dato dell’Ode di Keats, Le poesie del nostro clima. Queste tre rêveries sulla lontananza estetica e la freddezza poetica condividono la stessa malinconia, e quasi manifestano una comune magnifi cenza. L’anima è “un prigioniero”, ma è l’arte piuttosto che il corpo a fare la parte del carceriere:

 

L’anima deve restare dov’è,
per quanto inquieta, a sentire la pioggia sul vetro,
il sospiro delle foglie autunnali sferzate dal vento,
e bramare d’essere libera, all’aperto, ma deve restare
in posa, in questo posto. Deve muoversi
il meno possibile. Questo dice il ritratto.
Ma in quello sguardo c’è un misto
di tenerezza, divertimento e rimpianto, tanto possente
nel suo autocontrollo, che non lo si può guardare a lungo.
Il segreto è troppo ovvio. La pena che ci suscita brucia,
fa sgorgare lacrime ardenti: che l’anima non è un’anima,
non ha segreti, è piccola, e colma
il proprio vuoto alla perfezione: la sua stanza, il nostro istante d’attenzione.

 

Possiamo notare che il dipinto vero e proprio ricorda l’Ashbery vero e proprio, e che questa espressione tipica del poeta non potrebbe essere descritta con maggiore accuratezza che come “un misto / di tenerezza, divertimento e rimpianto […] possente / nel suo autocontrollo”. Il segreto è autoironia, è la possente presenza che costituisce un abisso, la palpabile assenza che costituisce l’anima del poeta. Tempi e spazi si uniscono nell’attenzione che trasforma le stanze del pittore e del poeta in un unico studio. Ma quest’attenzione è musica alla Walter Pater, che va oltre la pittura e la poesia:

 

Quella è la melodia, ma senza parola alcuna.
Le parole sono solo speculazioni
(dal latino speculum, specchio):
cercano senza poterlo trovare il senso della musica.

 

Angus Fletcher, nel suo fondamentale studio Soglia, sequenza e personificazione in Coleridge, ci ricorda che mentre la numerologia suggerisce un’ontologia senza tempo, la poetica del numero accetta la nostra durata determinata dal tempo. La poesia, per come la concepiva sant’Agostino, è “lo specchio o speculum del mondo”, uno specchio che “temporalizza e storicizza il numero”. Ashbery, che cavalca il moto poetico, lavora sulla finzione della durata, ma la sua palese afflizione nel tentativo di divenire ciò che Stevens nelle Divagazioni sull’oboe ha chiamato “il pianeta umano” o “l’uomo di vetro” è assai accentuata. Il clinamen è distante dalla celebrazione che Stevens fa della centralità emersoniana, o dalla lode per “l’uomo che ha avuto il tempo di pensare quanto basta”, ma tende a essere un lamento per la cattività dell’arte e dell’artista:

 

Vediamo solo gli atteggiamenti del sogno,
cavalcando il movimento che sventaglia il volto
nel campo visivo sotto cieli serali, senza alcuna
falsa scompaginazione come prova d’autenticità.
Ma la vita è inglobata.
Piacerebbe protendere la propria mano
fuori dal globo, ma la sua dimensione,
ciò che la sostiene, non lo concede.
Senza alcun dubbio è questo, non il riflesso
a nascondere qualcosa, a far sì che la mano si profili immensa
nel ritrarsi appena.

 

Una rappresentazione offerta solo come una modalità della limitazione; una tale ironia è il segno distintivo del movimento iniziale del clinamen della poesia, il suo sfuggire le proprie origini, che in verità non si trovano tanto in Parmigianino quanto in Stevens, e particolarmente nello Stevens whitmaniano di Poesia con ritmi, scritta subito dopo Digressioni sull’oboe, poesia in cui “la mano tra candela e muro / s’ingigantisce sul muro”. La mano del pittore, per come la vede Ashbery, deve rimanere all’interno di limiti estetici:

 

Non c’è modo
di erigerla piana come una sezione di muro:
deve unirsi al segmento di un cerchio.

 

Stevens, come il Whitman dei Dormienti, che riecheggiava già in precedenza nella Poesia con ritmi, spezza i limiti con un atto di volontà, con l’iperbole di una potenza sublime:

 

Può darsi la mano

abbia volontà sua di ingigantirsi sul muro,

di farsi più grande e greve e forte

del muro; e che la mente

ricorra ad allegorie solo sue e proclami:

“Quest’immagine, quest’amore, di questi

mi compongo. In questi mi manifesto esteriormente,

in questi, mi vesto d’un lindore essenziale,

non come nell’aria, che tende all’azzurro acceso,

ma come nel possente specchio del mio desiderio e volontà”.

 

Una mente che può ricorrere alle proprie allegorie e costituire un ego grazie all’amore per quelle allegorie, è una mente estiva, whitmaniana e trascendentalizzante. Una tale mente è anche quella dell’Uomo Freudiano, dato che Freud defi nisce il narcisismo come l’auto-amore dell’ego, un amore che grazie a tale catessi arriva veramente a costituire un ego. Lo speculum o specchio convesso di Ashbery è l’esatto contrario del suo desiderio e volontà, e in questa inclinazione che lo porta a distanziarsi dai padri, lo Stevens tangibile e il Whitman spettrale, Ashbery costruisce il suo vero clinamen. Ma il costo è pesante, e Ashbery osserva giustamente che la propria “pura affermazione”, come quella del pittore, “non aff erma niente”. Ovvero, per illuminare questo statement puramente ironico utilizzando la terminologia di Fletcher, Ashbery afferma soltanto la propria perpetua liminalità, quello stare sulla soglia che condivide con Hart Crane e con le più delicate, fragili sfumature dei momenti più antitetici di Whitman. Fletcher, quando scrive su Coleridge, pare descrivere la prima parte della poesia di Ashbery:

 

Mentre la tradizione epica fornisce modelli convenzionali di soglia, tali convenzioni sono sempre soggette a una deliberata nebulosità poetica. […] I poeti hanno desiderato rendere più tenue, dissolvere, frammentare, off uscare il duro limite materiale, perché la poesia va a caccia dell’anima, con le sue oscure passioni, sentimenti, forme simboliche al di fuori della cognizione.

 

Ashbery va a caccia dell’anima, seguendo Parmigianino, e trova solo due entità disparate, una mano “grande abbastanza / da sfasciare la sfera”, e un vuoto ambiguo, una stanza senza recessi, solo alcove, uno studio che resiste a ogni cambiamento, “stabile / nell’instabilità”, un pianeta come la nostra terra, in cui “non ci sono parole per la superficie, cioè, / nessuna parola per dire ciò che è in realtà”. Una soglia comporta un attraversamento, e alla chiusa di questo primo paragrafo in versi Ashbery deliberatamente evita di superare un primo attraversamento, e così manca il superamento di una soglia di eccellenza poetica. Il distacco ha luogo tra la “pura / affermazione che non afferma niente” dell’artista e “Il palloncino scoppia, l’attenzione / neghittosamente si distoglie”. Dato che l’attenzione è costituita dal ricordo che l’unica stanza dell’anima è fatta dal “nostro istante d’attenzione”, lo scoppio del palloncino rimuove la precedente “pallina da ping-pong” della stabile instabilità del dipinto. Il mancato attraversamento nell’eccellenza lascia il poeta inerme (per scelta) mentre l’esperienza minaccia di soffocare la sua percezione del proprio pathos. Il secondo paragrafo in versi di Ashbery è la tessera della poesia, il suo completamento antitetico che fallisce ogni completamento. Il poeta, necessariamente insicuro della sopravvivenza del proprio essere poeta, è solo la sineddoche di voci che lo sopraffanno:

 

Penso agli amici

venuti a trovarmi, a quel che ieri

è stato. Un peculiare taglio obliquo

del ricordo che irrompe a disturbare il modello sognante

nel silenzio dello studio mentre pensa

se sollevare la matita all’autoritratto.

Quante persone sono venute e sono rimaste per un certo tempo

a proferire parole di luce o tenebra che sono divenute parte di te

come luce oltre nebbie e sabbie sommosse dai venti,

e da queste filtrate e influenzate, finché non resta

alcuna parte che sia con certezza te.

 

Esiste un’affinità tra questo peculiare taglio obliquo nella luce del ricordo e quell’oppressivo taglio di luce che la Dickinson ha utilizzato come immagine della morte. Entrambi sono sineddoche del genere che appartiene al doloroso senso simbolico di Coleridge o al meccanismo di difesa di Anna Freud, il rivolgersi contro il sé. Anna Freud, di una paziente, disse che “con il rivolgere i suoi impulsi aggressivi al proprio interno, lei infliggeva a se stessa tutte le sofferenze che in passato aveva temuto sotto forma di punizioni da parte della madre”. Ciò che definisco la ratio di revisione della tessera è la trasformazione poetica di questo rivolgersi contro se stessi. Ashbery, come poeta, è costretto a presentare se stesso solo come parte mutilata di un intero già mutilato. La ragione per cui le più potenti poesie della nostra tradizione, da Wordsworth in poi, manifestino quest’impulso masochistico di rappresentazione, perfino quando si sforzano di distaccarsi dall’ironia iniziale, è al di là della mia attuale capacità di comprensione. Eppure il contributo di Ashbery a questa necessità di rappresentazione si unisce chiaramente al wordsworthiano “incanto del sé per il sé”:

 

Nel circolo dei tuoi intendimenti certe dispute

permangono a perpetuare l’incanto del sé verso se stesso:

sguardi dritti negli occhi, mussola, corallo. Non importa

perché son cose ferme al proprio oggi

prima che l’ombra di qualcuno sconfinasse mai

fuori dal campo nei pensieri del domani.

 

Fletcher sottolinea che, nel contesto delle soglie poetiche, “‘sequenza’ sta a significare il processo e la promessa che qualcosa seguirà a qualcos’altro”. Tale processo inizia spazialmente, aggiunge Fletcher, ma termina “su una nota di descrizione temporale”, forse perché la sequenza in una poesia è una modalità di sopravvivenza, o finzione di durata. Ho provato in me i sentimenti di difesa riguardo alla sequenza di rationes revisionarie che trovo ricorrenti in così tante poesie, ma alquanto separate dalle reazioni di difesa che ho suscitato in altri. Ma la sequenza è lì, nel senso che immagine e tropo tendono a seguire modalità di evasione sovradeterminate. Così, la poesia di Ashbery continua con un terzo paragrafo in versi che è una kenosis, una difesa isolante in cui il potere poetico si presenta come assolutamente non svuotato:

 

Il domani è semplice, ma l’oggi non è cartografato,

desolato, restio come qualsiasi altro paesaggio

a cedere alle leggi della prospettiva

che dopo tutto sono tali solo per la profonda diffidenza

del pittore, uno strumento inadeguato per quanto

indispensabile. Certo, alcune cose

sono possibili, lo sa, ma non sa

quali. Un giorno tenteremo

di farne quante più siano possibili

e forse riusciremo a compierne una manciata,

ma ciò non avrà niente

a che fare con quel che viene promesso oggi, con il nostro

paesaggio che sfreccia via da noi fi no a scomparire all’orizzonte.

 

Questo “oggi” pare non tanto non-cartografato, quanto non esistente. Ashbery disloca “oggi” utilizzando “possibili”, “promesso” o “sogno”, lungo tutto questo terzo paragrafo. Una sequenza di “possibili”, “possibili”, “promesso”, “promesse” e “potenzialità” nei versi 151-168 viene sostituita da sette occorrenze di “sogno” o “sogni” ai versi 180-206, dove questa sezione si chiude. Si tratta sempre di metonimie per, o riduzioni dell’“oggi”, e mettono in atto l’azione auto-svuotante della kenosis: “via da noi”. Meditando sulle forme estetiche, Ashbery raggiunge un toccante e caratteristico senso di “qualcosa di simile al vivere”:

 

Parevano arcane perché in verità non sapevamo vederle.

E ce ne rendiamo conto solo nel punto in cui trascorrono

come un’onda che si frange su uno scoglio, esalando

la propria forma con un gesto che esprime quella forma.

 

La kenosis è la ratio prevalente in Ashbery, e tutta la sua poetica sta nell’“[esalare] la propria forma con un gesto che esprime quella forma”. Cos’altro, se non la forza del passato, il vigore della sua tradizione poetica, avrebbe potuto portare Ashbery alla sua soglia successiva, allo stacco disgiuntivo o attraversamento del solipsismo che lui oltrepassa tra il terzo e il quarto paragrafo in versi? La transizione avviene “dal sogno alla sua codifica” fino alla sorpresa angelica o demoniaca del volto di Parmigianino/Ashbery. Il Portentoso o Sublime fa il suo ingresso sia attraverso la repressione del ricordo del volto sia attraverso un ritorno del represso grazie a ciò che Freud ha definito Negazione:

 

Mentre comincio a scordarmene,

ripresenta il suo stereotipo

ma si tratta di uno stereotipo inconsueto, il volto

all’àncora, scaturito dai rischi, che di lì a poco

altri ne avrebbe abbordati: “piuttosto angelo che uomo” (Vasari).

Forse un angelo ha le sembianze di tutto

ciò che abbiamo scordato, intendo dire di cose

scordate che non paiono familiari quando

ci imbattiamo di nuovo in esse, perdute indicibilmente,

seppur nostre, una volta.

 

Il grande critico moderno della Negazione, che ha precorso la Decostruzione di Derrida e ancor più di de Man, è Walter Benjamin. Non credo Ashbery stia citando Benjamin in questo passaggio, ma è inevitabile che ogni Sublime innovativo ci ricordi Benjamin, che si unisce a Freud come teorico del Sublime in questo secolo. La formula dubitativa di Ashbery “Forse un angelo ha le sembianze di tutto / ciò che abbiamo scordato” è molto prossima alla meditazione di Benjamin sul suo angelo:

 

L’angelo, però, assomiglia a tutto ciò da cui mi sono dovuto staccare: persone e soprattutto cose. Nelle cose che non posseggo più, egli risiede. Le rende trasparenti.

 

Questa è l’aura o luce del Sublime di Benjamin, veramente visibile solo nel trauma del suo scomparire, nella fuga della sua repressione. Ashbery ha perso, dice inoltre, “la mia interezza” consegnandola alla severa alterità del pittore. Eppure quella perdita diviene la surprise emersoniana-stevensiana, l’avvento del potere, in un passaggio che gioca in opposizione alle immagini stevensiane:

 

L’abbiamo sorpreso

all’opera, ma no, è lui che ci ha sorpreso

mentre è all’opera. Il quadro è quasi finito,

la sorpresa quasi sopita, come quando si guarda fuori,

sbigottiti da una nevicata che proprio in quel momento

si esaurisce in particelle e scintille di neve.

È successo mentre eravate al chiuso, addormentati,

e non c’è alcun motivo per cui sareste dovuti

restare svegli, se non che il giorno

sta per finire e sarà dura per voi

riuscire a dormire stanotte, per lo meno fin tardi.

 

Perfino la cadenza ricorda l’ultimo Stevens, la percezione di un “Uomo trasparente in un mondo tradotto, / in cui si nutre di un nuovo noto”. Ma invece della stevensiana “limpidezza che affiora / dal freddo”, con il potere che travalica il potere del sonno, Ashbery opta per un pathos minore, per l’inquietudine, per quanto Sublime, piuttosto che per la trascendenza. Come sempre, Ashbery reprime la propria forza, nella sua ricerca di una costante uniformità di tono, per evitare manifestazioni di climax. Ciò produce un Sublime spettrale, in realtà più garbato che misterioso, e il lettore di Ashbery più che mai deve coltivare la propria pazienza verso questo stile limpido, questo atteggiamento di attesa che non dà l’impressione di attendere. “La sorpresa, la tensione si trovano nella concezione / piuttosto che nella sua realizzazione.” Eppure, perfi no la concezione viene occultata, sepolta a fondo nell’immagine della profondità in questo demoniaco paragrafo in versi: “il volto / all’àncora, scaturito dai rischi”. Lungo tutta la poesia il dipinto viene immaginato come una nave, che ci appare “in un’onda reiterata / d’arrivo”, ma pur sempre una “minuscola, boriosa nave / in superficie”. Verso la fi ne della poesia, ai versi 478-489, il trasferimento metaforico di questi tropi verrà compiuto come secondo un misterioso bisogno incalzante, quando “Una nave / che batte una bandiera sconosciuta è entrata in porto”. Il dipinto visto come nave ricorda il pericolo dell’arte poetica da Spencer a Stevens, ma al lettore di Ashbery può parere un’ulteriore versione degli ossimori che chiudevano la sua meravigliosa meditazione giovanile, Prima si fa pace, in cui il poeta parla di imparare

 

ad accettare

l’elemosina dei duri momenti mentre vengono elargiti con parsimonia,

perché questo è agire, questo non essere sicuri, questo negligente

prepararsi, il seminare semi storpi nel solco,

disporsi a dimenticare, e sempre a ritornare

all’ormeggio da cui salpammo, quel giorno tanto tanto tempo fa.

 

L’autoritratto di Parmigianino è un altro ormeggio da cui si salpa, e un tale ossimoro (con il suo quasi-gioco di parole tra mooring e morning) è per Ashbery una tipica sublimazione delle irrealizzabili aspirazioni poetiche. Una sublimazione di maggior portata avviene nell’askesis della poesia, nel suo quinto paragrafo in versi, in cui Ashbery si pone in prospettiva opposta sia rispetto al pittore che al proprio sé poetico. Le prospettive sono sbalorditive quando le città e i panorami “esteriori” vengono giustapposti allo spazio interiore del dipinto e della poesia:

 

Il nostro paesaggio

brulica di filiazioni, di andirivieni;

gli affari si fanno sulla base di aspetto, gestualità,

sentito dire. È un’altra vita per la città,

il retro dello specchio nello

studio non identifi cato ma disegnato con esattezza. Vuole

prosciugare la vita dallo studio, sminuire

a una serie di messe in scena il suo spazio mappato, isolarlo.

 

Se l’anima non è un’anima, allora la metafora interno/esterno, mente/natura viene resa inadeguata, oltre le sue inadeguatezze di prospettivismo senza fi ne. Ashbery intraprende coraggiosamente il tentativo di salvare la metafora che ha contribuito a seppellire. Un freddo vento di cambiamento estetico e vitale s’alza a distruggere la pastorale urbana di Ashbery, e il pittore – che funge da surrogato del poeta – viene spinto a vedere e sentire di nuovo, per quanto in un presente necessariamente illusorio:

 

Il tuo ragionamento, Francesco,

aveva cominciato a diventare raffermo dato che nessuna risposta

né risposte erano imminenti. Se ora si dissipa

in polvere, significa solo che ha fatto il suo tempo

già tempo fa, ma adesso guarda e stai a sentire

 

Ma per quanto Ashbery proceda a spingere sulla normalità e correttezza della metafora, l’operazione di salvataggio deve fallire, ricordandoci forse che il prestigio della metafora e quello della sublimazione tendono ad avere successo e a fallire insieme nella storia culturale. Un terzo e ancora più cruciale attraversamento di una soglia ha luogo mentre Ashbery con riluttanza si allontana dalla metafora per spostarsi nella immensa metalepsis o ratio dell’apophrades che conclude la poesia, costituendone il momento più glorioso. Il lungo paragrafo in versi conclusivo (vv. 311-552) inizia con una sorpresa sensazione di conseguita identificazione, che introietta sia il dipinto sia la morte del poeta:

 

Un venticello simile al voltar pagina

restituisce il tuo volto: l’attimo stacca

un boccone enorme dalla caligine

dell’affabile intuizione a cui segue.

 

Prima di descrivere questo attraversamento e la superba sezione che introduce, farò un’altra digressione nelle teorie di Fletcher su soglia, sequenza e personificazione, dato che hanno costituito il mio punto di partenza per il discorso sul transfert metaforico. Coleridge ha riconosciuto a Spencer il merito di essere l’esimio inventore nella poesia inglese della “terra delle Fate, vale a dire, dello spazio mentale”. Fletcher segue Coleridge nel mettere in relazione tale stato mentale all’opera, personificazione e allusione topica demonica. La maggiore innovazione di Fletcher ci porta ad alterare la nostra percezione della personificazione, combinandola sia con il transfert metaforico che con il gioco di parole. Una completa proiezione o introiezione è paranoia, il che significa, come dice Fletcher, che “la follia è completa personificazione”. Ma i poeti più forti evitano questo vuoto generativo, anche se tutti si soff ermano alla sua soglia. John Hollander, seguendo Fletcher, ha delineato la storia del potere fi gurativo dell’eco poetica e il suo legame con le trasformazioni post-romantiche della metalepsis o transfert metaforico, trasformazioni che si sono fondate sull’uso traspositivo delle similitudini in Milton:

 

la qualità particolare della similitudine miltoniana, grazie alla quale, come ha detto il dottor Johnson, egli “stipa l’immaginazione”, è una delle modalità del transfert metaforico – la moltitudineità delle legioni sataniche nel Libro I è simile a quella delle foglie d’autunno, ma non dichiarate manifestamente, a confronto, sono le altre similitudini (entrambe cadute, morte) la cui presenza è adombrata solo nel signifi cato letterale del nome del luogo, Vallombrosa.

 

Hollander cita il commentario mitografi co di George Sandys sulla storia della ninfa Eco descritta da Ovidio, in cui Sandys a sua volta cita Ausonio e poi aggiunge che “l’immagine della voce tanto spesso resa è come quella della faccia rifl essa da uno specchio a un altro; che si fonde per gradi, con ogni rifl esso vieppiù debole e adombrato del precedente”. Questa, vuole dire Hollander, è la situazione che Milton e i suoi eredi hanno evitato rendendo nel transfert metaforico le loro immagini di voce. Ed è proprio questa la situazione a cui sfugge Ashbery nell’Autoritratto, e in modo particolare nella sesta sezione, relativa al transfert metaforico, alla quale ora ritorno. La brezza la cui similitudine è costituita da una pagina che viene voltata, e che riporta l’autoritratto, ritorna oltre duecento versi più tardi nel passaggio conclusivo della poesia:

 

la pena

di questo sogno a occhi aperti non potrà mai soffocare

lo schema ancora disegnato sul vento,

scelto e destinato a me, materializzatosi

nella radiosità ingannevole della mia stanza. […]

La mano non regge alcun gesso

e ogni parte dell’insieme si deteriora

e non può sapere di aver saputo, se non

qui e là, in gelidi recessi

di rimembranza, sussurri fuori dal tempo.

 

Il vento traspone in sé la brezza, restituendo l’autoritratto a una precocità introiettata, all’identificazione tra poeta e pittore. I recessi di ricordo, ancorché freddi quanto sono freddi dipinto e poesia, rimangono venti che sussurrano fuori dal tempo, in un molteplice gioco su “fuori da”, che ci riporta alla fredda pastorale di Keats che ci aveva sospinto fuori dal tempo, come l’eternità. L’eco dell’Urna greca rinforza l’eco del “sogno ad occhi aperti” dell’Usignolo. La morte, come nelle odi di Keats, è ciò da cui la raffi gurazione ci difende, in modo alquanto diretto. Così, ritornando all’inizio del sesto paragrafo in versi, la similitudine sul voltar pagina è necessariamente seguita in modo diretto dall’introiezione della morte, in un Incrocio di Identificazione che collega non solo pittore e poeta, ma anche il tragico Alban Berg e Cimbelino. Riflessioni sulla condivisa mortalità degli artisti portano a precedenti presagi di sussurri estetici fuori dal tempo:

 

Continuo a interrogare

questo specchio che non è più mio

per quel tanto di lacuna fortificante di cui consta

stavolta la mia porzione. E il vaso è sempre pieno

perché lo spazio è ovviamente limitato

e ospita tutto. Il campione

visibile non deve essere preso

solo come tale, ma come ogni cosa dato che

lo si può immaginare fuori dal tempo – […].

 

Il vaso, emblema sia dell’Ode di Keats che della Poesia del nostro clima di Stevens, è pieno tanto quanto il tempo del poeta stesso è vivacemente vuoto, e l’ossimoro raff orza la ripresa di forza di Ashbery nella poesia. Una meditazione sulla familiare “anomalia permanente” di Ashbery, un certo tipo di illuminazione erotica, porta a un nuovo senso di precocità, a un capovolgimento metalettico dell’apertura ironica della poesia:

Sappiamo solo

di essere arrivati un po’ troppo presto, che

oggi sfoggia quella peculiare, lapidaria

odiernità che il sole fedelmente

riproduce proiettando ramoscelli d’ombra su marciapiedi

spensierati. Nessun giorno precedente sarebbe potuto essere come questo.

Una volta credevo che s’assomigliassero tutti,

che il presente avesse per chiunque lo stesso aspetto

ma tale fraintendimento defluisce via poiché

ci si sta sempre sollevando come cresta d’onda nel proprio presente.

 

Ciò che adombra questa ri-raggiunta precocità è il dubbio che vi sia bisogno di ancora più arte: “Il nostro tempo si vela, compromesso / dalla volontà di resistere del ritratto.” Dato che la creazione è fuori dalla nostra portata, la distanza perfi no dalla nostra stessa arte pare divenire maggiore. In questa intensifi cazione di alienazione, la meditazione di Ashbery rigetta per gradi il paradiso dell’arte, ma con immense nostalgie che tingono l’addio. Un sublime gioco di parole, che soddisfa appieno la visione fl etcheriana della retorica della soglia, è il climax di questo toccante abbandono, che risuona come uno dei più grandi passaggi di Ashbery, maestoso nella dignità estetica di questa commistione tra forza e tristezza:

 

Perciò ti imploro, ritira quella mano,

non porgerla più come segno di saluto o come scudo,

lo scudo di un saluto, Francesco:

c’è posto per un solo proiettile nella camera di scoppio […].

 

Lo studio, la stanza degli autoritratti del poeta e del pittore, stanza come momento d’attenzione per l’anima che non è anima, adeguandosi perfettamente al vuoto della sua tomba, è anche il suicidio (o roulette russa?) dell’arte che contempla se stessa. Anche la poesia di Ashbery è lo scudo di un saluto, con le sue funzioni difensive e comunicative inestricabilmente mescolate. Eppure la lettura che Asbhery fa della propria tradizione espressiva, e la mia lettura di Ashbery, sono gesti di restituzione. La conseguita mancanza di signifi cato viene esposta come ossimoro, in cui “conseguita” ha più peso di “mancanza”. Il critico antitetico, seguendo il poe ta del suo momento e del suo clima, deve opporre agli abissi delle ironie decostruttive una supermimesi conseguita grazie a un’arte che non abbandonerà il sé alla lingua, l’arte del precoce Frammento di Ashbery:

 

Le parole cantate nella stanza accanto sono ineludibili

ma la loro appassionata intelligenza verrà studiata in te.

 

 

© 2019 Giunti Editore S.p.A. / Bompiani

1 thought on “Autoritratto entro uno specchio convesso

  1. Trovo i versi

    A moon of cistercian pallor
    Has climbed to the center of heaven, installed,
    Finally involved with the business of darkness.

    particolarmente efficaci nel dare evidenza di come, anche il rifarsi alla tradizione lirica, possa comunque, nelle mani di un bravo e originale autore, dare nuova linfa a una materia che altrimenti sarebbe frusta, rivitalizzandola e colorandola di nuovi significati e pregnanza estetica, senza essere stucchevole.
    Lo stesso potrebbe dirsi per il tema / simbolo dello specchio già ampiamente sfruttato e caricato di senso in Rilke e qui riproposto in un’accezione vicina allo spirito del nostro tempo.
    Credo che la nuova collana di Giunti / Bompiani ci possa riservare delle ottime sorprese (e soprattutto ottime letture).

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