di Massimo Raffaeli
[E’ appena uscito per Vydia editore Marca francese, un libro in cui Massimo Raffaeli ha raccolto una parte dei suoi scritti sulla letteratura francese. Pubblichiamo la prefazione dello stesso Raffaeli e un capitolo dedicato a Louis-Ferdinand Céline e intitolato Vita e scrittura].
Questo libro riordina parte di una produzione ormai ventennale e si lega idealmente a un volume, Céline e altri francesi (peQuod 1999), che già nel titolo segnalava tanto una predilezione quanto una precisa scelta di campo: dunque non la chiarezza cartesiana ma la congestione rabelaisiana, non lo stile algido e preclaro ma l’inabissamento nei bassi della condizione umana. Il tempo non ha mentito, anzi ha accentuato, ciò che per me all’origine era la passione istintiva di un comune lettore.
Non sono un francesista (dell’autodidatta serbo appunto la passione ma, evidentemente, anche tutti i limiti) e nemmeno una relativamente lunga attività di traduttore ha potuto, io credo, rendermi uno specialista a pieno titolo. È vero semmai che resto debitore nei confronti di maestri e compagni di via al cui lavoro ho sempre assistito con ammirazione e con lo sguardo prensile di un apprendista, a partire dal poeta Giuseppe Guglielmi, la voce italiana di Céline, che nei miei anni bolognesi (nei pieni Settanta del secolo scorso) andavo a trovare nella sua casa di via Santo Stefano con timore e tremore per scoprire infine una persona la cui generosità era così nativa ed eccedente da avere bisogno, per manifestarsi, di un diaframma di riserbo o di procurata distanza.
Lo stesso debbo dire di un altro maestro, Gianni Scalia, nella cui estroversione, e cioè nel suo infinito dialogo socratico, si lasciava viceversa profilare l’intrapresa di “In forma di parole” (meglio e più che una rivista, una collana di libri) e perciò una apertura grandangolare alla poesia quale pensiero delle lingue e nelle lingue, in re. Da sempre familiari e miei antichi creditori, peraltro, mi sono Nicola Muschitiello, allievo del grande Guido Neri, poeta e francesista finissimo, così come Fabio Pusterla, cui debbo fra molte altre cose la folgorazione di Philippe Jaccottet, e Antonio Prete che mi è stato mediatore non solo, ovviamente, di Leopardi ma anche di un redivivo Baudelaire e della profondità sapienziale di Edmond Jabès.
Il titolo scelto per questo libro, Marca francese, ha un senso duplice perché da un lato designa il proprio oggetto ma dall’altro segnala la collocazione periferica, si dica pure provinciale, di colui che lo firma. Il libro non ha alcuna ambizione esaustiva ma, al contrario, rivendica una ossessione, vale a dire una parzialità di sguardo che a sua volta duplica la predilezione per lo stile impuro e anti-cartesiano tradizionalmente minoritario nella letteratura francese. Tradotto in parole ancora più semplici, tutto questo vuole anche dire: non è la Germania, né l’Italia, ma paradossalmente è la Francia, già culla della Decadenza e laboratorio permanente del cosiddetto Modernismo, a divenire presto l’incubatrice, la couche elettiva di ogni fascismo e della reazione secolare alla civiltà dei Lumi, è la Francia il luogo dove la barbarie secolare presenta i suoi precoci battistrada, i suoi testimoni e, all’opposto, alcuni inopinati redentori. Forse non è un caso che le sezioni topiche del libro siano dedicate l’una a Céline, che ogni orrore ha preteso di tradurre in musica, l’altra a Patrick Modiano, lo scrittore che ogni musica si è deliberatamente vietata mantenendo per sé la parte del cronista o del muto impassibile testimone. Nemmeno è il caso di ribadire, forse, come la barbarie secolare, mentre molti la credevano spenta o per sempre alle spalle, torni oggi a squadernarsi qui davanti a noi e in mezzo a noi, sguaiata e immonda.
Questo libro è dedicato alla memoria di Mario Dondero, fotografo e maestro indimenticabile. Nel suo nativo cosmopolitismo, nel suo spirito di fratellanza universale, Milano e Genova, Fermo e Parigi non potevano che essere epicentri momentanei. Che fosse per strada o a un tavolo di osteria alle persone cui voleva bene cantava di cuore, prima o poi, Les feuilles mortes.
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Vita e scrittura
Uno dei maggiori critici del secolo scorso, Cesare Cases, a proposito di Louis-Ferdinand Céline e del fatto che in costui convivessero un grande artista e un immondo razzista, ne parlava come di qualcuno da stampare la mattina e da fucilare nel primo pomeriggio. Cases riteneva Voyage au bout de la nuit il maggiore romanzo del Novecento né si asteneva, lui ebreo, da un’aperta ammirazione per la musica scrosciante di Bagatelle per un massacro, laddove appunto la parola “ebreo” gli sembrava riassumere, virata nei colori del risentimento e di un odio allucinante, non tanto un popolo e la sua storia quanto gli emblemi più brutali della modernizzazione capitalistica (denunciata in Voyage e Mort à crédit) e cioè l’imperio del denaro, la standardizzazione della vita quotidiana, la tecnocrazia, la burocrazia, l’America e, sia pure per tutt’altra via, la stessa Unione Sovietica. Ne faceva un caso di anticapitalismo romantico, efficace nell’additare il male e tuttavia così incapace di coglierne la dialettica da poter scambiare il risultato di un processo storico per la fissità di un dato antropologico, anzi ontologico, come Cases in persona avrebbe ricordato al pudibondo, e presunto nouveau philosophe, Bernard-Henri Lévy in un memorabile corsivo (su “L’Espresso” del 5 ottobre 1981) opportunamente intitolato Puah, questi maestrini del pensiero! La polemica era sorta riguardo alla pubblicazione da Guanda proprio di Bagatelle per un massacro nella netta e integrale versione di un poeta allora molto giovane, Giancarlo Pontiggia, e con la prefazione di un altro céliniano di lungo periodo, Ugo Leonzio: non appena appiccato il fuoco di paglia sui giornali, il libro venne ritirato per l’espressa volontà e l’azione legale intentata dalla vedova Lucette Almanzor, la leggendaria Lili della Trilogia tedesca. Ma a distanza di decenni è giusto, è ancora opportuno, che il primo e neanche il più virulento (rispetto a L’école des cadavres e Les beaux draps) dei libelli céliniani sopravviva in clandestinità, in Italia come in Francia? Torna a porre la domanda e a invocarne la ristampa Céline e il caso delle ‘Bagatelle’ (Medusa), il volume di Riccardo De Benedetti che non è uno studio sistematico ma un utile dossier sia sulla vicenda editoriale sia sulla controversa ricezione del corposo libello che, va ricordato, non era in carico a Céline nel corso del processo che nel ’45 lo vide, contumace, condannato a Parigi (e in seguito amnistiato) sulla base dell’art. 75 (“intelligenza col nemico”, dunque collaborazionismo), cioè quello che ad esempio Robert Brasillach pagò con la fucilazione nel carcere di Fresnes il 6 febbraio dello stesso anno. In particolare nel terzo capitolo, De Benedetti opera un confronto fra la versione di Pontiggia e quella precedente, uscita nel 1938 dal Corbaccio, solo pochi mesi dopo la princeps francese nel doppiaggio di Alex Alexis, pseudonimo di Luigi Alessio, un fascista piemontese di stanza a Parigi cui si deve la prima traduzione in assoluto del Viaggio al termine della notte (ancora da Corbaccio, già nel 1933): qui è però sorprendente rilevare che l’antisemita Céline aveva visto scorciato di un terzo il suo libello dal censore littorio, giusto nell’anno delle cosiddette leggi razziali, con la caduta in blocco del lessico scatologico-blasfemo e la epurazione di qualunque riferimento al papa Pio XI, come a Benito Mussolini e Hitler, tutti quanti sospettati di eccessiva indulgenza nei confronti degli ebrei ovvero di ascendenze e/o di connivenze giudaiche. Chi viceversa non ne ascrive il collaborazionismo e l’antisemitismo a un caso, come diceva il vecchio August Bebel, di socialismo degli imbecilli o tanto meno ad una congiuntura occasionale, è un eccellente storico delle idee, Francesco Germinario, che in Céline. Letteratura, politi-ca e antisemitismo (Utet) non solo ne valorizza i tratti, sia pure desultoriamente, militanti, ma ne sottolinea la contiguità all’ideologia nazista (un «comunismo per ariani» di contro al «socialismo kasher») per la costante rivendicazione di una società organica in quanto pre-borghese e pre-moderna, refrattaria a qualsiasi accezione di eguaglianza che non derivi dallo jus sanguinis: una posizione totalmente anti-illuminista e di riflesso anti-americana e anti-bolscevica. Persuaso che la musica di Bagatelle non trascenda una materia tanto scabrosa ma ne sia, all’opposto, l’unica possibile, Germinario rovescia l’intuizione di Cases (mai citato peraltro nel suo studio) mantenendone comunque i dati essenziali: «I pamphlet antisemiti permettevano a Céline di fornire una risposta storicamente diversa alle cause della miseria sociale. Era una risposta che spostava l’origine delle cause dal piano dell’immanenza (l’inclinazione umana a provocare il male nell’altro) a quello della storia, individuando, per un verso, nei piani segreti dell’ebraismo la causa delle sofferenze degli uomini; e per l’altro verso, prospettando anche una soluzione storico-politica ai problemi della miseria e della povertà».
Ora, se il lavoro di Germinario ha il merito di individuare puntualmente (a partire dai Protocolli dei Savi di Sion, immancabili) la nefasta bigiotteria di cui sempre colui si compiaceva e se ha il merito, anche, di censirne la cospicua presenza nei fogli collaborazionisti (per lo più dichiarazioni e lettere inviate a “Je suis partout”, a “La Gerbe”, o all’ancora più infame “Au pilori”), egli tende tuttavia a leggerne la petite musique nel segno della denotazione e della univocità, sottovalutandone la natura connotativa, vale a dire plurivoca, ambigua, ricca di inversioni. Céline non era un autore di interventi ideologici ma restava uno scrittore di partiture letterarie che ambivano semmai, confusamente e contraddittoriamente, ad esserlo. Ciò non toglie nulla alle sue gravi, talora inespiabili, responsabilità etiche e politiche ma nemmeno dimostra sia mai esistito un Céline in camicia bruna, pure se il dottor Louis-Ferdinand Destousches l’avrebbe indossata volentieri. Perché Céline non era Brasillach e nemmeno il suo intimo amico Lucien Rebatet, firmatario di un grande romanzo (Le deux étendards), caporedat-tore di “Je suis partout”, cacciatore di ebrei e di resistenti.
Alle perpetue e tragiche dinamiche intercorse fra il dottor Destouches e il suo pseudonimo letterario dedica uno studio singolare, unico nella ormai diluviante bibliografia céliniana, Patrizio Paolinelli, Nello specchio della modernità. Fotoritratti di Louis-Ferdinand Céline (Bonanno editore), dove l’immagine dell’outsider (il razzista, la canaglia, il barbone rintanato a Meudon) si lega di continuo a quella dell’insider (l’uomo di mondo, lo scrittore acclamato e “pleiadizzato” vivo, il sublime musicista) in un percorso di continue combinazioni, rifrazioni e diffrazioni. L’uno richiama sempre l’altro o meglio si rovescia nell’altro, e viceversa: «Sarebbe del tutto improduttivo separare il Céline ‘buono’ da quello ‘cattivo’ ossia, l’autore del Voyage da quello di Bagatelles. Se identifichiamo Céline una volta con lo status di celebrità letteraria e un’altra con lo stigma di antisemita outré, difficilmente cogliamo quello che ancora oggi può esprimere. E quello che può esprimere è allo stesso tempo normale e eccezionale, pieno di luci e di ombre, capace di rapirci attraverso un’estetica strabiliante e di allontanarci a causa di scelte eticamente non condivisibili. Come tutti gli individui moderni, Céline è il risultato di tendenze opposte». Cioè un individuo abietto, giustamente maledetto dal mondo, e insieme uno scrittore straordinario, necessario oggi più di ieri alla nostra conoscenza del mondo: Cesare Cases aveva visto giusto, come sempre.
[“alfabeta 2”, dicembre 2011]