Intervista a Vanni Bianconi a cura di Massimo Gezzi
[Si apre domani a Bellinzona (Canton Ticino) la quattordicesima edizione del Festival di letteratura e traduzione Babel, dedicato quest’anno al tema delle lingue inesistenti o inaccessibili per i motivi più vari che il direttore artistico del Festival, Vanni Bianconi, chiarisce in questa intervista. Qui il programma dettagliato del festival].
Quest’anno Babel si avventura nei territori delle lingue sconosciute, delle lingue «inaudite, inaccettabili, inaccessibili». Come e perché avete scelto questo tema, piuttosto diverso da quelli che l’hanno preceduto nel corso degli anni?
Negli ultimi anni Babel alterna edizioni geografiche, come il Brasile dell’anno scorso, a edizioni tematiche, che testano i confini più estremi con cui si misurano l’immaginazione e la scrittura: nel 2017 era l’Aldilà, e ora i margini delle lingue naturali: se la lingua è ciò che ci permette, tra le altre cose, di comunicare, cosa succede quando la lingua si nasconde in un codice, quando come nei racconti di Landolfi o Bichsel inventa le sue regole, o nel Codex Seraphinianus accompagna inaccessibile un’enciclopedia di leggi fisiche e psichiche che continuano a stuzzicare e frustrare il nostro bisogno di interpretare. O ancora quando lo slang disprezzato, e incomprensibile, dei tossici scozzesi diventa il fenomeno Trainspotting, o quando Valeria Luiselli mette in atto un numero straordinario di espedienti narrativi per poter registrare il silenzio dei minori latinoamericani detenuti negli USA.
Una delle figure di richiamo di questa edizione è Irvine Welsh, autore di celebrati libri in cui si parla di degrado, realtà come droga e pornografia, classi disagiate in una lingua poco patinata e corretta come lo slang di Edimburgo. Cosa vi aspettate da lui, dato che parteciperà non solo come scrittore ma anche come DJ, la sera di venerdì 13?
Irvine Welsh lavora con forme diverse, che sembrano però scaturire tutte da una dimensione linguistica, lo slang di Edimburgo: aprendo un suo libro in inglese sulle prime sembra di non capire una parola ma, una volta decifrata questa lingua estremamente viva ed espressiva, non solo ci sembra di leggere con un ritmo sconosciuto, dettato dalla lingua stessa, ma di cogliere con più immediatezza la furbizia di strada, l’analiticità intuitiva e lo sfruttamento sfrontato del prossimo che connotano i suoi personaggi.
In italiano questa dimensione linguistica si perde, ma forse solo in superficie: tanto i personaggi quanto la lingua del traduttore ne sono profondamente influenzati e non sarebbero tali se non fossero nati dallo slang. La triangolazione si chiude con i film, in cui si può sentire lo slang in questione (a meno che in Italia passino doppiati?). A Babel poi si farà quadrare il triangolo, con un DJ set di Acid house di Irvine, di nuovo un genere vernacolare che ha informato tanto la sua scrittura quanto il materiale umano di cui lui scrive.
Molto importanti e attesi anche gli altri ospiti, però: da Eraldo Affinati a Claudia Durastanti, con una menzione speciale, forse, per Saleh Addonia, scrittore sudanese cresciuto in un campo profughi, dove ha perso l’udito all’età di 12 anni, emigrato in Arabia Saudita e poi Inghilterra…
Claudia Durastanti intervisterà Valeria Luiselli il sabato 14, per via delle affinità tra le loro opere, tanto a livello di multiple migrazioni che di rapporti tra realtà, finzione, autofinzione. Poi Claudia verrà intervistata da Saleh Addonia la domenica, anche qui per una serie di convergenze: nel romanzo La straniera Durastanti racconta dell’infanzia a Brooklyn con due genitori italiani, entrambi sordi, realtà Addonia conosce molto bene essendo passato dall’Eritrea al Sudan all’Arabia Saudita a Londra, apprendendo e dimenticando le lingue di questi luoghi, ma avendo perso l’udito a 12 anni in un campo rifugiati (qui un suo racconto: http://www.specimen.press/articles/she-is-another-country/). Il loro dialogo sulle possibilità di inventarsi una voce verrà tradotto in lingua dei segni, grazie alla Federazione svizzera dei sordi.
Mai come quest’anno, forse, il tema della traduzione risulta centrale e dirimente, per il vostro Festival: sono previsti diversi workshop di traduzione (dall’inglese, dal francese e dal portoghese) e anche un incontro sulle traduzioni impossibili, sui libri che lanciano una sfida estrema ai traduttori, prima che ai lettori. E il pubblico sarà persino chiamato a partecipare attivamente, con il laboratorio di scrittura e traduzione a cura di Camille Luscher e Paolo Albani. Ci racconti brevemente qualcuno di questi incontri?
Babel lancia la sfida, “non parlerai la mia lingua” quando questo sembra lo slogan dominante nel panorama politico mondiale, con una serie drammatica di stati-nazione che si dividono in stati-fazione, rinunciando a qualsiasi dialogo tra le parti. A differenza di questi, Babel cerca tutti i modi per smentire la sua affermazione, e di riuscire a indagare come si possa esprimere e capirsi anche nelle condizioni di incomunicabilità più estrema. Il lavoro del traduttore è fondamentale in questo senso, e a Babel si ospitano una serie di casi estremi, come appunto le traduzioni di libri che creano la propria lingua (Finnegans Wake, Huckleberry Finn ecc.), in una tavola rotonda di traduttori introdotta da Franco Nasi, oppure il laboratorio di Albani e Luscher che invita il pubblico a tradurre da lingue inventate.
Babel è ormai una realtà e un appuntamento atteso a Bellinzona e in tutto il Canton Ticino. Credi che sia diventato un festival importante anche per il pubblico italiano?
Credo di sì: grazie al suo focus sulla traduzione, ma anche al lavoro di scouting e scoperta che viene fatto nelle edizioni dedicate a un paese ospite, e le pubblicazioni che ne derivano, sembra essere conosciuto in tutta Italia. Ma in più, a seconda dell’edizione, come per esempio nell’anno palestinese o quello dedicato all’Africa di lingua francese, può anche darsi che la maggioranza del pubblico venga dall’Italia, e non solo dalle regioni limitrofe.
[Immagine: Emily Allchurch, Babel Hong Kong, 2018 (particolare)].