di Marco Filoni
[E’ uscito da poco per Skira Anatomia di un assedio. La paura nella città, un saggio storico-filosofico di Marco Filoni. Ne proponiamo il capitolo intitolato Cose selvagge, ringraziando autore ed editore].
Così stanno le cose, nelle città come nella vita:
un momento sbrighiamo le nostre incombenze
come se nulla fosse e quello dopo moriamo,
e il fatto che la fine incomba sempre su di noi
non impedisce i nostri effimeri incipit e svolgimenti,
fino all’istante in cui lo fa.
Mohsin Hamid, Exit West
Affrontare la paura, darle un nome, dare un volto al nemico è una necessità dell’uomo – necessità tanto nota quanto sfruttata da quel potere politico che vuol costruire il nemico là dove, secondo le sue perverse logiche, è necessario. Una paura senza nome e un nemico senza volto producono alienazione. O almeno possono produrla, come nel caso di alcuni soldati che combattono le guerre oggi. La tecnologia ormai ha cancellato l’esperienza del conflitto ravvicinato, perciò la chiave per comprendere la nuova dimensione della guerra è la parola “distanza”. Ecco allora che si combatte e si uccide seduti di fronte a un computer, intenti a comandare droni – magari in qualche base del Texas, mentre le operazioni avvengono in Afghanistan. Oppure si spara con fucili in grado di colpire a centinaia e centinaia di metri. Lo descrive con rigore ed efficacia lo scrittore William Langewiesche nel suo reportage Esecuzioni a distanza[1]: cosa succede quando un cecchino spara a un’ombra, una silhouette muta che non ha volto perché troppo lontana e che si muove in maniera “sospetta”? Questo qualcuno che è il nemico non lo si vede quasi, è soltanto una figura indistinta, e quando il cecchino spara (con strumenti sofisticatissimi che calcolano la traiettoria) vedrà nel mirino soltanto una nuvoletta rosa che indica l’avvenuta esecuzione. Eppure questa alienazione – nel senso stretto, letterale, di allontanamento e disappropriazione della morte – produce per rovesciamento (questo sì in termini lati) una strana forma di paura del nemico. Si pensa che uccidere a distanza metta al riparo, al sicuro. Così non è: l’ombra nel mirino perde ogni umanità, ma anche il cecchino che spara perde la prossimità con la sua azione e in qualche modo può sentirsi disumanizzano lui stesso, intento a rimuovere qualsiasi rimorso morale e colpito da una paura indistinta dell’ignoto, una vera paranoia.
Si potrebbe rinnovare il paradosso del mandarino, ovvero la propensione a ritenere moralmente irrilevanti le azioni che avvengono lontane da noi. Il paradosso suona così: «Che faresti, lettore, se d’un colpo potessi diventare ricchissimo uccidendo, con la sola forza della tua volontà, un vecchio mandarino nella remota Cina?». È stato formulato, con variazioni e formulazioni differenti, per secoli: Chateaubriand prima, che rispondeva a Diderot (e alla sua idea che un omicida fuggito in Cina, ovvero che avesse messo una distanza nel tempo e nello spazio considerevole dal delitto commesso, avrebbe visto indebolito il sentimento e la coscienza della sua azione); Balzac poi, che lo attribuì a Rousseau (ma non vi è traccia, anche se in molti come Freud hanno preso per buono il riferimento), e così via via sino a noi[2].
Quello del distacco, della distanza umana fra un’azione e la sua conseguenza (e quindi il ritenere che possa essere moralmente irrilevante o meno) è un tema che ritroviamo anche nella storia che vede per protagonista Roger Fisher. Fisher era un esperto di negoziazioni internazionali e soluzioni dei conflitti che insegnava ad Harvard. Nel 1981, in piena guerra fredda fra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, quando il rischio dello scoppio di un conflitto atomico era una reale possibilità con la quale si faceva i conti quotidianamente, lanciò un’idea. Pubblicò un articolo nel quale sosteneva un’ipotesi interessante. Partiva dall’assunto che nel fatidico momento in cui il presidente degli Stati Uniti fosse stato costretto a dare l’ordine di lanciare le testate nucleari, questi avrebbe pensato la sua azione come qualcosa di astratto: avrebbe cioè aperto la famosa valigetta nera con i codici custodita da un giovane ufficiale della marina; avrebbe digitato su una tastiera numeri e lettere astratte, comodamente seduto con i suoi collaboratori in una stanza confortevole dalla quale nemmeno avrebbe visto partire i missili; avrebbe affermato forse con solennità presidenziale parole del tipo «piano di attacco operativo uno, la decisione è affermativa; informate il settore Alfa sulla linea Xyz», ovvero avrebbe usato un gergo militare che mette una distanza fra il significato logico di quelle parole e ciò che esse significano davvero, una dilatazione della coscienza di quell’azione. Così Fisher suggeriva un altro tipo di prassi operativa nel caso in cui si fosse arrivati alla decisione di far partire le testate nucleari. Una proposta semplice: i codici necessari per far partire le testate nucleari sarebbero dovuti esser conservati in una piccola capsula, e questa impiantata nel corpo di un volontario (forse quello stesso giovane ufficiale della marina) proprio vicino al cuore. Se il presidente avesse preso la decisione fatale, allora avrebbe dovuto uccidere il giovane, squartarlo per recuperare la sequenza alfanumerica. Avrebbe dovuto fare i conti con la morte, guardarla in faccia, vedere il sangue scorrere dalle sue mani. Ovviamente Fisher racconta che alla Casa Bianca, quando parlò della sua idea, lo guardarono inorriditi e dissero: «Mio dio, è terribile. Dover uccidere qualcuno rischierebbe di distorcere il giudizio del presidente, che potrebbe non voler mai spingere il pulsante»[3].
Il terribile paradosso che poneva Fisher, inascoltato, tratta esattamente del rapporto fra il potere e il suo esercizio, della dimensione morale della scelta; tratta in definitiva della paura che si può e si deve provare di fronte alla violenza, alla coscienza del male e del far male. Storicamente tiranni e dittatori hanno voluto incutere paura, hanno governato con la paura, ma in qualche modo ne sono stati loro stessi ossessionati. Generando paranoia, come un sentimento che si riversa sulla sua stessa fonte. Ma qui, in fondo, il vero cuore del problema non è l’opposizione fra la presenza o l’assenza di paura. La vera questione è di ordine normativo: come valutare se si tratta o meno di una paura politicamente e moralmente salutare?
In altre parole: che succede se il presidente degli Stati Uniti non ha alcun timore e rimorso nel premere il bottone nucleare? Che succede al contrario se il presidente ha paura? Una risposta la troviamo in un video, tristemente famoso, che ha fatto il giro del mondo: riguarda l’allora presidente americano George W. Bush, in visita a una scuola elementare a Sarasota, una cittadina della Florida. È l’11 settembre del 2001 e nell’ossessiva e terribile moviola che vede i due aerei schiantarsi sulle Twin Towers di New York c’è una telecamera puntata sul presidente. È seduto di fronte a un gruppetto di bambini e bambine che stanno leggendo a voce alta una favola con protagonista una capretta. Sono le 9.03 del mattino quando il capo dello staff presidenziale si avvicina a George W. Bush e gli sussurra all’orecchio che la seconda torre è stata colpita e che l’America è sotto attacco. Quello che testimonia la telecamera – minuti che rimarranno congelati nella storia – è il viso del presidente: occhi sbarrati, sguardo perso, incredulità, confusione. Una di quelle bambine che sedevano allora in prima fila, intervistata dalla televisione più di dieci anni dopo, dirà che il volto di Bush cambiò colore, diventò rosso acceso. Il presidente decise di rimanere lì dov’era, rimase seduto per una lunga decina di minuti. Una reazione che fu oggetto di molte critiche – e commentata dal diretto interessato, in una delle rare interviste rilasciate dopo la presidenza a dieci anni dagli attacchi, come una sua scelta per trasmettere calma, per infondere sicurezza. Eppure le immagini tradiscono una persona nel panico, nella confusione di fronte all’inatteso. Sembra non sapere cosa fare. E mostrano il volto di un uomo che ha paura.
Diversa l’attitudine in altri video che hanno come protagonista sempre il presidente degli Stati Uniti. Ma questa volta a esser inquadrato è Barack Obama – e certamente in un contesto ben più piacevole di quello del suo predecessore. Anche qui ci sono bambini: durante la sua presidenza Obama, insieme alla moglie, ogni anno ha organizzato una lettura per i più piccoli nel giardino della Casa Bianca. E ha sempre letto in maniera espressiva e giocosa, mimando gli avvenimenti, lo stesso libro, il suo preferito fra quelli per l’infanzia: Nel paese dei mostri selvaggi di Maurice Sendak. Originariamente apparso nel 1963, il libro fu accolto in maniera assai critica: le biblioteche lo censurarono, molti critici parlarono di un libro orribile e addirittura pericoloso per i bambini – persino il famoso psicanalista Bruno Bettelheim consigliò alle mamme di non comprarlo (si scoprì poi, però, che non l’aveva nemmeno letto). Eppure ebbe successo: i bambini che lo avevano fra le mani ne rimanevano affascinati, e così grazie al passaparola diventò un caso. Dopo milioni e milioni di copie vendute, pian piano, tutte le critiche si sgretolarono di fronte al suo successo e alle molte rivalutazioni che lo salutavano come un libro rivoluzionario (perché esalta la fantasia, il coraggio, scatena l’immaginazione dei più piccoli). Insomma, è diventato uno dei libri per l’infanzia più influenti del Novecento. Ma di cosa parla? La storia ci mostra Max, un bambino che combina molti guai finché la mamma lo mette in punizione: in camera e senza cena. Così Max, mascherato da lupo, vede trasformare la sua stanza in una foresta e poi in un mare che lo porta nell’isola dei mostri selvaggi. Esseri terribili, che fanno paura. Ma Max li affronta e ne diventa persino il capo. Sin quando non ha nostalgia, così torna a casa e scopre di esser stato perdonato trovando una cenetta profumata ad aspettarlo.
Il racconto è enigmatico: mischia realismo e sogno; non insegna alcuna morale, non dice cosa è bene e cosa è male. Mostra un bambino arrabbiato che decide di scappare ed esplorare la sua paura. Ecco allora che le molte lacune del racconto sono la sua reale forza. I mostri sono ambigui, terribili ma allo stesso tempo goffi e buffi: non sai se sono realmente cattivi o buoni. Lo stesso Max è ambiguo: è cattivo, è buono? A ogni modo affronta questi terribili esseri selvaggi e li domina con uno sguardo. Forse Max è solo un bambino che vuol dirci che dobbiamo affrontare i mostri selvaggi – o meglio le “cose selvagge”, come recita il titolo originale Where the Wild Things Are, ovvero le cose che fanno paura ad adulti e bambini (l’espressione deriva da vilde khaye, “cosa selvaggia”, con la quale si apostrofa un bambino che si comporta male in yiddish, la lingua parlata dalla madre di Sendak). I mostri non sono lontani, in qualche isola remota, ma semplicemente sono dentro di noi, sembra volerci dire Sendak.
È interessante notare come Obama, scegliendo di leggere questo libro ai bambini in visita alla Casa Bianca, propone un determinato approccio alla paura. È l’immagine di una politica della paura democratica[4]. I bambini non devono aver paura del lupo cattivo, ma delle loro stesse paure per affrontarle: proprio come Max, l’eroe del libro. E proprio come tutti, adulti e bambini.
La paura o, meglio, tutte le nostre paure, sono indotte: ce lo insegna la scienza che ha dimostrato che sono soltanto due quelle innate, la paura di cadere e quella dei rumori forti. Tutte le altre provengono dal contesto, dall’interazione con l’ambiente e dall’influenza della cultura – e meno male, poiché proprio grazie a queste paure l’uomo si è trovato predisposto a svilupparne alcune a causa dell’evoluzione ed è potuto diventare ciò che è. Se insomma siamo ciò che siamo, a livello evolutivo, lo dobbiamo in parte alla paura.
Abbiamo provato a vedere dove esattamente è la paura nella città. E verso chi si rivolge. L’abbiamo vista per la prima volta sulle mura della città antica, su possenti fortificazioni, una paura che si rivolgeva all’esterno, una paura di ciò che era fuori. Il nemico al di là del muro. Ma non solo. La paura era ed è anche dentro, si annida nella città: è paura del nostro essere diversi, del non essere tutti uniti nel momento in cui si deve decidere. Oggi questa paura la vediamo nelle immagini che arrivano dalle città da cui partono le migrazioni globali, città che sono protagoniste loro malgrado di un ininterrotto ciclo di violenza e soggette alla distruzione (un fenomeno raccontato con la potenza visionaria della grande letteratura da Mohsin Hamid nel suo capolavoro Exit West). E la vediamo anche nei volti di chi riconosciamo come fratelli, amici, concittadini, quando vedono vagare nelle “loro” strade quelle facce impaurite che sono scappate da quelle città sotto le bombe. Eppure spesso non riusciamo a dare un nome a questa paura, non sappiamo riconoscere le nostre “cose selvagge”: siamo impreparati, viviamo ostaggi della paura e non siamo in grado di trasformarla in qualcosa di positivo, di attivo, che ne riconosca le vere cause. Al contrario alziamo muri, prima che reali in noi stessi: mettiamo in atto meccanismi di difesa, costruiamo capri espiatori, attuiamo dinamiche di rimozione e di diniego, cerchiamo spazi e città immunitari – che siano cioè immunizzati dalla paura[5]. Ma la paura c’è sempre, ci assedia, non scompare: ecco allora che le illusioni illuministiche sulla modernità come epoca in cui ci si libera dalla paura appaiono vane – come ha ricordato Günther Anders: in un famoso discorso dal presidente Roosevelt questi elencava, fra le libertà imprescindibili della democrazia anche la “freedom from fear”, la libertà dalla paura, ma aggiungeva il filosofo che questa veniva enumerata quando aveva perso la sua validità poiché era venuto il momento della “freedom to fear”, dell’imparare ad aver paura se vogliamo davvero liberarci dal pericolo in cui versiamo, «to fear in order to be free», avere paura per essere liberi[6].
Non resta che dare a questa paura il suo giusto nome, affrontarla, anche politicamente, affinché sia ripristinata la reale cognizione del rischio, la comprensione dell’esercizio della paura a fini strumentali e di potere, affinché sia una paura umana. Nella città, storica, o nelle nostre società attuali che ne vedono trasformata la sua forma in territori. Perché la città, sia essa immaginaria, antica o moderna, o megalopoli, ha nella paura, nel conflitto, nella stasis e nei modi di affrontare – con l’oblio o la memoria – questi aspetti fondamentali e anche fondanti, un dispositivo del suo funzionamento e della sua realizzazione. La città è sempre un luogo di paura. E questa paura è sempre, inevitabilmente, tanto dentro quanto fuori. Anzi, oggi la città non è più il luogo dove si ha meno paura rispetto a fuori: la città non ha più mura e non ha più limiti, è fascino e terrore insieme, eppure è il luogo dell’uomo. Di più: la città moltiplica la paura e, facendolo, la trasforma. Non resta dunque che fare i conti con questa paura, nella nostra città, perché è la nostra paura.
Note
[1] W. Langewiesche, Esecuzioni a distanza, tr. it. di M. Codignola, Adelphi, Milano 2011.
[2] Cfr. H. Ritter, Nahes und fernes Unglück. Versuch über das Mitleid, Beck, München 2004 (tr. it. Sventura lontana. Saggio sulla compassione, a cura di M. Rispoli, Adelphi, Milano 2007). Per una storia del paradosso e delle sue implicazioni, cfr. anche C. Ginzburg, Uccidere un mandarino cinese. Le implicazioni morali della distanza, in Id., Occhiacci di legno, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 194-209.
[3] R. Fisher, Preventing Nuclear War, in «Bulletin of the Atomic Scientists», n. 11, March 1981, pp. 11-17 (la citazione è a p. 16).
[4] Cfr. M. Sendak, Nel paese dei mostri selvaggi, tr. it. di L. Topi, Adelphi, Milano 2018. Sul confronto fra l’atteggiamento di George W. Bush e la lettura di Sendak di Obama si sofferma anche P. Boucheron, in P. Boucheron-C. Robin, L’exercise de la peur, cit., pp. 56-57
[5] Cfr. l’interessante intuizione di Roberto Esposito secondo cui la modernità ha risposto al pericolo della distruzione inaugurando una logica immunitaria, in Immunitas. Protezione e negazione della vita, Einaudi, Torino 2002, in particolare cap. I.
[6] Cfr. G. Anders, Die Antiquiertheit des Menschen (1956), vol. I, Beck, München 19802 (tr. it. L’uomo è antiquato, di L. Dallapiccola, Bollati Boringhieri, Torino, 2003, vol. I, p. 276.
[Immagine: Ludwig Meidner, Brennende Stadt, 1913].