di Paolo Costa
«In questa storia c’è ben più di un figlio dislessico. C’è il rapporto fra normalità e diversità, c’è la necessità di riconoscere le infinite varietà umane. La sfida evolutiva dell’uomo in questo millennio».
1. Quando uno studioso, che per ragioni di deontologia professionale sarebbe tenuto a scrivere solo su argomenti di cui sia veramente esperto, rivolge la propria attenzione a un tema che non rientra nel suo ambito di competenza, ha certamente senso chiedergli: «Perché? Ma chi te lo fa fare?». Visto che, com’è nella natura stessa del gesto, non ho nessuno intorno a me mentre scrivo, la domanda me la pongo da solo. Non essendomi mai occupato né sistematicamente né saltuariamente di dislessia, a che titolo dovrei parlarne? E con quali scopi?
Sempre che a qualcuno interessi la risposta, queste sono le spiegazioni che mi sono dato. Lo faccio (a) come filosofo, cioè in quanto cultore compulsivo di quegli eccessi di curiosità e ragione che, anche se sono guardati con indulgenza da molti, non sono sicuro che siano ancora compatibili col modo in cui funziona oggi la comunità scientifica[1]; e me ne occupo (b) in quanto padre di uno di quei ragazzini «strani» che, come si legge in una gustosa osservazione incidentale contenuta nel libro da cui mi farò guidare nel mio ragionamento, non si finisce mai di partorire (anche se, come genitore adottivo, mi verrebbe più spontaneo dire «mettere al mondo», anziché «partorire»)[2].
In ambedue le vesti, mentre leggevo Il bambino che disegnava parole di Francesca Magni (madre di Filippo, un ragazzino per l’appunto dislessico, il cui alter ego nel volume di nome fa non casualmente «Teo») mi sono chiesto più volte quale fosse nel suo caso il bisogno profondo di cui la scrittura rappresenta sempre l’appagamento dilazionato. Perché mai uno sceglie di imbarcarsi in un’impresa del genere – in quello che oggi si suole chiamare un esercizio di «autofiction»?
Perché te lo hanno chiesto, certo. Per una sana esigenza di riconoscimento, ovvio. La spiegazione che mi convince di più, però, la suggerisce la stessa autrice quando a un certo punto, in un aside del flusso narrativo, confessa che la narrativa per lei è sempre stato un modo per sbirciare nelle vite degli altri e porre un argine allo stupore verso la vita che le è toccata in sorte. Da questo punto di vista, raccontare una storia effettivamente è – per citare Hannah Arendt – «dire ciò che è» nell’unico modo in cui riusciamo a dirlo quando l’«è» concerne il nostro modo di essere aperti al mondo, di farne esperienza dal nostro particolare punto prospettico[3]. Quando ci chiediamo che cosa significhi essere «lui» o «lei» o «voi» o «loro», in realtà, ci chiediamo sempre anche che cosa significhi essere «me» o, più in generale, quella persona umana che anche io sono. Nel caso in questione, confrontandosi senza sconti con ciò che vi è di familiare e di insondabile nel «sangue del proprio sangue», l’autrice finisce per ingaggiare un corpo a corpo con la propria differenza interna – con quella non coincidenza con sé che è paradossalmente il perno di qualsiasi identità personale autentica.
Sulla risposta che nel libro viene data a questa esigenza mai totalmente appagabile di autoriconoscimento vorrei tornare alla fine del mio ragionamento. Prima, però, mi preme dire qualcosa sul contenitore in cui è allo stesso tempo custodito e mimetizzato questo bisogno ostinato di capire se stessa e gli altri.
Il testo di Francesca Magni è a prima vista semplice come una fiaba. Come recita il sottotitolo, è «un viaggio verso l’isola della dislessia e una mappa per scoprirne i tesori». A questo livello superficiale, però, più che il classico di Stevenson, Il bambino che disegnava parole ricorda Wonder, il romanzo ben più recente di R.J. Palacio[4]. Fatte le debite proporzioni, il suo successo commerciale è dovuto similmente all’abilità dell’autrice nel tenere insieme e far interagire i diversi piani del racconto famigliare, della descrizione d’ambiente e della riflessione esistenziale. A questo scopo viene fatto un uso sapiente delle figure narrative tipiche della commedia brillante per mantenere viva l’attenzione anche del lettore più pigro. Le occasioni per immedesimarsi, ad esempio, sono abilmente moltiplicate dalla sistematica rifrazione del punto di vista (figlio, figlia, madre, padre, insegnanti scettici ed empatici, cerchia degli amici e dei famigliari, esperti ufficiali e improvvisati, ecc.) e ogni momento di sconforto, ansia o sospensione del legame empatico col protagonista è compensato dalla progressione regolare verso un finale di (relativa) letizia corale.
A questo primo livello di lettura l’esercizio di autofiction ostenta un’indole sfacciatamente illuminista. La narrazione è permeata, infatti, dall’«euforia della conoscenza» (p. 321) – che altrove viene definita senza remore «estasi della verità» (p. 105) – ed è come galvanizzata da un indomabile senso di ingiustizia da cui trae impulso quella lotta per il riconoscimento che descrive meglio di qualsiasi altra categoria filosofica l’itinerario di Teo dalla sua condizione di bambino enigmatico, incapace di venire completamente al mondo, allo status di ragazzino mediamente imperfetto, ma non più ignoto a se stesso e agli altri. In questo senso, la storia raccontata è anche la storia di un’incarnazione o – se si vuole evitare di cadere nella trappola delle facili associazioni suggerite dal nome del protagonista – il passaggio da una condizione «aliena», marziana, a una di più gestibile mondanità, terrestrità.
Il libro di Francesca Magni è prima di tutto il resoconto avvincente di una battaglia contro sé e il mondo perché venga riparata un’ingiustizia e riconosciuta una diversità negletta. A un lettore attento non può sfuggire, però, che a questo ordito edificante si intreccia continuamente un sottotesto che rende più densa, più viscosa, più impegnativa la lettura. Nulla del genere – nessun chiaroscuro – è presente in Wonder. Quella confezionata con sapienza dall’autrice, allora, non si può certo definire letteratura per ragazzi. O non solo. Se lo è, la sua fonte di ispirazione non può essere il best-seller di R.J. Palacio. Lo stile narrativo a fisarmonica di cui si avvale evoca piuttosto le fiabe dei fratelli Grimm – dà sostanza, cioè, a una novella esemplare dove l’atmosfera è almeno altrettanto significativa quanto gli eventi narrati. È su questo strato più profondo e sul senso di inquietudine che si sprigiona da esso che vorrei soffermarmi nella seconda parte della mia riflessione.
2. Come si spiega, dunque, il permanere nel testo di un doloroso senso di inquietudine a dispetto della funzione sostanzialmente catartica del suo dispositivo narrativo? La soluzione del paradosso sembrerebbe essere a portata di mano. Tutti gli indizi conducono verso il leitmotiv del libro: la misura delle conseguenze, personali e famigliari, dell’impatto con una diversità stravagante e la ricerca della risposta più efficace al sentimento di ingiustizia provocato da episodi di daltonismo morale che hanno un legame non casuale con la mentalità e i costumi correnti. Insomma, il tema conduttore del volume è la fatica con cui le persone perbene cercano di fare fronte oggi all’imprevisto, il bizzarro, l’inatteso.
Una prima fonte di inquietudine è il fatto che l’intrusione dell’alterità nei piani di vita di queste persone è un fenomeno allo stesso tempo macroscopico e sfuggente. È da tale stupore misto a sgomento che scaturiscono, mi pare, le riflessioni sui dolori e le gioie del diventare genitori che intersecano regolarmente il flusso narrativo principale ne Il bambino che disegnava parole. Soprattutto per chi è cresciuto con un vago senso di estraneità al mondo, acquisire lo status di padre o madre, e assumerne il ruolo, equivale infatti a una sorta di inclusione nella storia ufficiale della propria specie. Da questo punto di vista, la genitorialità assomiglia molto a un passaggio di soglia: un viaggio alla scoperta di sé attraverso un legame che ci spiazza e ci costringe a fare i conti con alcune verità su noi stessi e sul mondo che sarebbe difficile raggiungere e metabolizzare altrimenti. Detto fuor di metafora, per un genitore mediamente riflessivo la paternità/maternità è non solo un modo per rivivere con occhi nuovi tutta la propria esistenza, ma è anche l’inizio di una lotta senza tregua con la propria alterità interna ed esterna.
Il nodo è gigantesco. Verrebbe quasi da dire «metafisico». Non stupisce, perciò, che la maggior parte delle persone si rifugi il più rapidamente possibile nel «noto» – siano esse le consuetudini familiari o le certezze di senso comune che la società ci offre quotidianamente su un piatto d’argento. I bambini, in fondo, non desiderano altro che mimetizzarsi e i genitori, logorati dalla lotta quotidiana per l’esistenza, hanno un unico sogno: assecondare la crescita dei propri figli lungo i solchi tracciati dalle varie istituzioni educative che sono ufficialmente adibite al loro addestramento alla vita adulta.
La diversità diventa un problema serio soltanto quando interferisce significativamente con questo processo basilare di socializzazione. A quel punto tutti i nodi vengono al pettine. Il proprio figlio appare «diverso». Scatta la mobilitazione generale. All’inizio l’alleanza scuola-famiglia sembra funzionare: nessuno vuole drammatizzare inutilmente. Spesso, però, la collaborazione non produce i risultati attesi e il sodalizio s’incrina. È il momento degli esperti, che vengono convocati con sollievo generale per dissolvere i fantasmi che hanno preso a scorrazzare liberamente nella classe dando loro un nome e un volto riconoscibili. È in quel momento di tregua armata che nella testa dei genitori cominciano ad affiorare i primi dubbi sistematici: ma dove sta esattamente il problema? Come può essere mio figlio la pietra dello scandalo? Da quando la stranezza è diventata uno stigma?
È in quest’ottica che il libro di Francesca Magni si offre al lettore anche come un ininterrotto monologo – o flusso di coscienza – sulla natura e il valore della diversità umana. Così almeno l’ho vissuto io da un certo punto in avanti. E non nego che il cambiamento di prospettiva mi ha messo a disagio. Anche se ci si limita a un ragionamento filosoficamente sbrigativo, la questione appare infatti straordinariamente ingarbugliata. Il punto di partenza sembra promettente. Non è forse vero che, come ci ha insegnato lo stesso Darwin, la diversità è il motore dell’evoluzione biologica? Perché, allora, la scuola non dovrebbe tollerare e valorizzare forme di intelligenza o strutture della personalità un po’ «marziane», diverse cioè da quelle che rientrano nei parametri della tanto agognata normalità?
Eppure questo non succede praticamente mai. Per quale motivo? Alla base di tutto, c’è un problema teorico che non andrebbe mai perso di vista. Esistono cioè due modi diversi di intendere la diversità: la diversità come un fatto bruto e la diversità come valore. Parlare di biodiversità o neurovarietà può trarre in inganno. Uno è indotto subito a pensare alle specie di ortensie e non ai superbatteri resistenti agli antibiotici oppure all’intelligenza emotiva anziché alle forme più virulenti di sociopatia. Il punto, arcinoto, è che la varietà che rende possibile l’evoluzione non si cura granché degli individui: è per lo più sabbia che deve passare attraverso il setaccio della selezione naturale. Visto che la cernita avviene per esclusione, l’essenziale nella stragrande maggioranza dei casi è mutare senza dare troppo nell’occhio. In fondo, molte malattie possono essere descritte anche come varianti organiche tutto sommato innocue. La celiachia o l’intolleranza al lattosio non sono forse esempi di «gastrovarietà»?
Di tutto ciò a volte ci dimentichiamo perché nelle società liberali prevale una certa retorica del valore della diversità che ha un lato luminoso e uno più problematico. Sul primo non mi soffermo, perché il suo valore morale mi sembra fuori discussione. Sul secondo, invece, vorrei dire due parole. La nostra è una società che glorifica la diversità funzionale, ma è terrorizzata dalla diversità disfunzionale. Il motivo è lampante. La felicità personale, oggi più che in qualsiasi altra epoca storica, dipende dalle risorse di cui l’individuo dispone e dalla qualità delle sue performance in relazione a criteri di eccellenza fortemente standardizzati. Questa caratteristica della civiltà moderna di cui tutti sono consapevoli ha per i genitori una conseguenza principale: una enorme pressione psicologica e sociale all’ipervigilanza sulle tappe di sviluppo del proprio pargolo.
La trepidazione è comprensibile: in gioco c’è il futuro di una creatura il cui benessere conta più della propria tranquillità. E il semplice rispetto del principio di precauzione impone di basare le proprie scelte sulle migliori informazioni disponibili. Ed è qui che la scienza – in particolare, tutte le branche della medicina – finisce per svolgere un ruolo esistenzialmente ambiguo. Da un lato, infatti, non ne possiamo fare a meno – l’efficacia con cui la rivoluzione scientifico-tecnologica ha cambiato la vita delle persone nel corso degli ultimi quattro secoli rappresenta un argomento sostanzialmente inconfutabile. Dall’altro lato, però, sappiamo anche che la tendenza a identificare l’esistenza personale con degli stati fisici anziché con dei processi o delle relazioni, l’enfasi sul problem-solving anziché sul sense-making, una forma mentis analitica e tassonomica, spesso non ci aiutano a orientarci in quella che Alice Munro ha descritto poeticamente come l’infinita complessità delle cose dentro le cose[5]. A dispetto delle migliori intenzioni, il rischio (già segnalato alcuni decenni fa da Michel Foucault) è quello di ossificare la diversità nel momento stesso in cui le vogliamo rendere giustizia illuminandola[6].
Se siamo persuasi che noi siamo il nostro cervello – un’affermazione all’apparenza inoffensiva, dato che è evidente che in un qualche senso dell’espressione noi siamo anche il nostro cervello – può risultare ovvio che la misura della nostra qualità e lo spettro delle nostre potenzialità siano una questione per così dire «fotografica». L’estasi della verità è indubbiamente anche questo: poter focalizzare una buona volta quella microfrattura che ti ha fatto patire per settimane le pene dell’inferno. Ma è altrettanto ovvio che il cervello – come pure il DNA – è pura materia inerte se non è inserito in una serie di ambienti di sviluppo (l’organismo, la comunità di cura, la società, l’ambiente naturale) che ne determinano le potenzialità, sia nel senso del limite che dell’apertura.
Questo vale tanto per il mancinismo, quanto per una diagnosi di dislessia o per la definizione dell’orientamento sessuale di una persona. Il significato personale di questi fatti apparentemente bruti può specificarsi solo entro un contesto più ampio. Figuriamoci, poi, se nel nostro personale equilibrio riflessivo introduciamo una categoria semanticamente sovraccarica come quella di «intelligenza». Alzi pure la mano chi non è mai stato sfiorato dal sospetto che il termine sia più simile a un complimento mascherato che a un concetto che denota una proprietà specifica e obiettiva del comportamento di un organismo vivente o di una macchina? Eppure a scuola non si coltiva e non si misura altro: l’intelligenza – la risorsa più potente e ambigua di cui i membri della specie Homo sapiens dispongano. Probabilmente proprio perché è una dote, a seconda dei casi e delle circostanze, ambita o disprezzata, esaltata o dileggiata, coltivata o trascurata, trasparente o illeggibile, l’intelligenza – molto più del suo rozzo competitor: la forza fisica – sembra essere il portale attraverso cui deve transitare necessariamente il desiderio fin troppo umano di sentirsi a casa nel mondo.
In Il bambino che disegnava parole è rappresentata esemplarmente la tensione tra il bisogno di riconciliarsi con il mondo per quello che è e l’irrequietezza che spinge prima o poi tutti a esclamare sbuffando: «Ma è tutto qui?». Questo attrito così tipicamente umano può assumere anche la forma paradigmatica descritta nel testo. Ridotta a una vignetta, la mia interpretazione della morale della favola è la seguente: un genitore ha tutto il diritto di vivere come una liberazione il momento in cui arriva a dirsi «mio figlio è un dislessico». In men che non si dica, però, si renderà conto che quella sentenza non allevia granché il suo compito di far quadrare i conti nella propria vita. In fondo, nemmeno se avessimo la possibilità di affacciarci sul nostro futuro – e a cosa serve, in fondo, una diagnosi se non a prepararsi meglio ad affrontare il domani? – la conoscenza che ne deriverebbe ci esimerebbe dalla fatica di vivere la nostra vita responsabilmente minuto per minuto e di congetturarne il senso solo retrospettivamente. Questo è il significato ultimo dell’essere creature che sperimentano una forma impegnata e situata di libertà.
Siamo posti di fronte a qualcosa di simile a un nodo spinoziano qui. Conoscere il tutto è un po’ anche amare il tutto. Il fatalismo, tuttavia, è intellettualmente e moralmente onesto solo se si mantiene al livello della totalità. Se si perde di vista il tutto, l’adesione a quel che è diventa una forma di opportunismo poco significativa. E amare il tutto è un compito probabilmente superiore alle forze di una creatura non solo finita, ma anche costantemente alle prese con un mondo che oppone una fiera resistenza ai propri piani e desideri. Non stupisce, perciò, che gli spicchi di totalità con cui siamo chiamati a riconciliarci di volta in volta raramente si rivelino amabili. Nel libro di Francesca Magni, per esempio, aleggia sinistramente sui protagonisti della storia il carattere straordinariamente disciplinante delle nostre società. E questo, a sua volta, riflette l’aspetto sottilmente crudele del solo apparentemente mite stile di vita e di relazioni borghesi. In effetti, tra le cose che il diventare genitori aiuta a mettere meglio a fuoco c’è sicuramente anche la ferocia impalpabile della forma di vita a cui dobbiamo addestrare con una buona dose di ipocrisia i nostri figli. Ed è anche questa scoperta inconfessabile che provoca quel sovraccarico emotivo – quel senso di indignazione/sdegno/collera/risentimento – che si sente ribollire sotto lo sguardo ospitale e magnanimo dell’autrice.
3. Che cosa fare di questa manciata di verità che si depositano in noi da qualche parte tra la testa e la pancia è l’interrogativo scomodo che il testo di Francesca Magni affida alle mani nude dei suoi lettori. Mentirei se dicessi che ho in tasca una risposta a questo quesito più affidabile di quella che si vede soltanto baluginare tra le righe de Il bambino che disegnava parole. Una cosa che so per esperienza diretta è che la fortuna ambigua di diventare padri o madri di un Martian Child va cercata anzitutto nella transizione, inizialmente assai dolorosa, dalla condizione di parvenu a quella di paria[7]. Accomiatarsi dal pericoloso groviglio di desideri mimetici che si attorciglia attorno a quello che Marcel Gauchet ha opportunamente descritto come «il figlio del desiderio» regala infatti la possibilità di osservare la commedia umana da un’angolatura inedita[8]. E la prima lezione che si impara sulla propria pelle è proprio quanta diversità sia diventata invisibile – o meglio, illeggibile – in una società che, bontà sua, ama rappresentarsi come trasparente. L’esito generale è una grande lezione di indulgenza: una conoscenza per contatto della complessità che si nasconde anche nelle pieghe delle esistenze più ordinarie.
Potrei sbagliarmi, ma ho l’impressione che questa esperienza ibrida, per metà intellettuale per metà viscerale, produca un’euforia della conoscenza molto più intensa di qualsiasi scoperta strabiliante sulla fisiologia del cervello. E dietro di essa non vi è nulla di astruso. Anzi. L’esperienza assomiglia molto alla scoperta del disordine non illogico delle vite umane che si fa, per esempio, leggendo i romanzi di Anne Tyler o i racconti di Alice Munro o Elizabeth Strout[9]. Non si fa un piccolo complimento a Francesca Magni se si riconosce nello stesso tipo di cuore comprensivo la bussola che l’ha guidata nel suo doloroso viaggio alla scoperta della dislessia che, come l’autrice sa bene, se assomiglia a qualcosa, non ricorda certo un’isola, ma un arcipelago.
Note
[1] Ho difeso un’idea di filosofia come disciplina intellettualmente sregolata in P. Costa, La ragione e i suoi eccessi, Feltrinelli, Milano 2014.
[2] F. Magni, Il bambino che disegnava parole, Giunti, Firenze-Milano 2017, p. 88. Le citazioni contenute tra parentesi nel testo si riferiscono tutte a questo libro.
[3] H. Arendt, Verità e politica, in Id., Verità e politica seguito da La conquista dello spazio e la statura dell’uomo, trad. it. di V. Sorrentino, Bollati Boringhieri, Torino 1995, p. 74.
[4] R.J. Palacio, Wonder, trad. it. di A. Orcese, Giunti, Firenze-Milano 2013. Dal libro è stato tratto anche un film di cassetta, diretto da Stephen Chbosky e interpretato, tra gli altri, da Julia Roberts.
[5] Cfr. J. Franzen, What Makes You So Sure You’re Not the Evil One Yourself?, in Id., Farther Away, Farrar, Straus and Giroux, New York 2012, p. 290.
[6] Cfr. M. Foucault, La volontà di sapere. Storia della sessualità 1, trad. it. di P. Pasquino e G. Procacci, Feltrinelli, Milano 1978.
[7] Riprendo la distinzione tra «paria» e «parvenu» dall’interpretazione esemplare che Hannah Arendt ha offerto della storia tragica degli ebrei europei. Cfr. H. Arendt, The Jewish Writings, a cura di J. Kohn e R.H. Feldman, Schocken Books, New York 2007; Id., Il futuro alle spalle, a cura di L. Ritter Santini, il Mulino, Bologna 1981. Dell’espressione «Martian Child» sono debitore invece alla novelette di D. Gerrold, The Martian Child: A Novel About a Single Father Adopting a Son, Tor Books, New York 2007.
[8] Cfr. M. Gauchet, Il figlio del desiderio. Una rivoluzione antropologica, trad. it. di D. Frontini, Vita & Pensiero, Milano 2010.
[9] Cfr. E. Strout, Why ‘Ordinary’ Lives Are Anything But…, reperibile a: https://www.huffpost.com/entry/when-the-ordinary-becomes-extraordinary-an-interview_b_593448ede4b062a6ac0ad0db (consultato il 10/09/2019); M. Michaels, Anne Tyler, Writer 8:05 to 3:30, «The New York Times», 8 maggio 1977, reperibile a: https://archive.nytimes.com/www.nytimes.com/books/98/04/19/specials/tyler-writer.html (consultato il 10 settembre 2019).
[Immagine: Martian Child. Un bambino da amare (2007)].