Poesia, terzo paesaggio?, rubrica a cura di Laura Pugno
a cura di Laura Pugno
[Questa rubrica, o meglio inchiesta, Poesia Terzo Paesaggio?, nasce dal desiderio di entrare in dialogo con altri poeti, scrittori e chissà, in futuro, anche artisti, chiamati a rispondere a un identico questionario.
La conversazione ha per cuore l’analogia tra la poesia in Italia oggi e il concetto di Terzo Paesaggio, che si deve al paesaggista francese Gilles Clément.
Analogia che ho tratteggiato nelle ultime pagine del mio saggio In territorio selvaggio (Nottetempo), riportate qui, e a cui rimando per approfondimenti.
L’analogia è appunto un’analogia, un’intuizione, non una tesi sistematica – come del resto anche l’idea stessa di Terzo Paesaggio sembra essere. Allo stesso tempo, ha qualcosa di vero. Di quel vero che è delle intuizioni, delle immagini. Spaventoso e allo stesso tempo confortante (uso non a caso questo aggettivo).
Terzo Paesaggio è una definizione che, precisa Clément, rimanda “a Terzo Stato, non a Terzo Mondo. Uno spazio che non esprime né potere, né sottomissione al potere.” Ma il Terzo Paesaggio è anche “uno spazio comune del futuro”.
Può questo oggi aiutarci a pensare la poesia? Potere non ne ha. Cerca sottomissione al potere? Qual è il suo spazio comune nel futuro? (Laura Pugno)].
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Immaginiamo di essere nello stesso posto e che questa conversazione avvenga in un luogo. Metto qui, in questo spazio, un’analogia, allo stesso tempo precisa e imperfetta come tutte, che la situazione della poesia italiana e non solo italiana oggi abbia qualcosa in comune con quello che il paesaggista francese Gilles Clément denomina Terzo Paesaggio. Cosa te ne sembra? La senti vera? Cosa ti fa ulteriormente immaginare?
Erriamo nel terzo paesaggio? È questo il luogo in cui si muove oggi la poesia, lo spazio di un incontro possibile, del nostro incontro, di un dialogo prismatico sul presente che ci avvolge, come una trama vegetale in divenire, ambivalente nei suoi doni? Per quanto mi riguarda, da qui, da dove scrivo, non si tratta solo di una potente analogia di secondo livello, un topos metapoetico che rende visibile la condizione eccentrica della scrittura in versi nel mondo contemporaneo. La mia scrittura ha abitato sin dagli inizi spazi interstiziali, indecisi, paesaggi eterogenei e aperti. Già ne La divisione de la gioia (2010) lo scenario di fondo era fatto di aree industriali – le fabbriche di Marghera – barene lagunari, margini stradali – la statale Romea – e spazi eterogenei – i cantieri in costruzione, la periferia diffusa dove senza soluzione di continuità si incontrano frammenti urbani, aree abbandonate, tessere vegetali. Questo paesaggio operava come un potente attrattore rispetto agli altri elementi della raccolta, sino a divenirne, come mi sono accorto retrospettivamente, il vero protagonista: un fondale da cui emergevano, come sue modulazioni, le stesse figure del libro, secondo una morfologia che tendeva a superare l’opposizione sfondo/figura, riallacciandosi piuttosto alla concezione topografica figura/figura, innestandosi nei luoghi di cui insieme altera il profilo. Se questa poesia ha un tratto topologico, è perché è insorgenza dai luoghi. In quegli stessi anni robinie e ailanti hanno iniziato a popolare i miei versi, come presenze ossessive, infiltranti, sino ad imporsi come titolo – Luce d’ailanto – per la mia silloge per il X quaderno di poesia italiana (2010), che poi sarebbe ritornato come centro radiante della mia ultima raccolta, L’indifferenza naturale (2018). Si trattava di un’ossessione, ho capito più tardi, che risentiva ancora della forza attrattiva del paesaggio, perché è proprio negli interstizi stradali, ai margini dei cantieri, lungo le massicciate, negli incolti che magneticamente mi attraevano, che avevo iniziato a sentire la presenza di quelle piante, ancora per me sconosciute, avvertendo oscuramente l’esigenza di arrivare a nominarle, conoscerle, dirle in poesia. È come se stessi captando un’interferenza nel paesaggio – ma cos’è la poesia se non la possibilità di definire campi d’interferenza? – sintonizzandomi su una lunghezza d’onda da cui arrivava un segnale ambiguo, al principio indecifrabile, ma che sentivo come vitale. Ora mi accorgo che su quella stessa lunghezza d’onda ho intercettato I camminatori (2013, poi confluiti in Tutto accade ovunque, 2016), un mitologema che per molti anni mi ha abitato senza che sapessi bene perché, e che infine ha dato luogo ad una sequenza poematica in cui un cronachista rende conto dei movimenti, degli spostamenti erratici di una serie di presenze indeterminate che attraversano un paesaggio fatto di aree postindustriali, ferrovie, rotonde, parchi, margini stradali, incolti, gli stessi spazi in cui vagano gli alianti e le altre piante infestanti. Chi sono questi camminatori? Sono stati interpretati di volta in volta come vivi o morti, spettri o zombie, robot o alieni, stanziali o migranti, noi stessi o gli altri, tracce del passato o anticipazioni del futuro. Ma scriverne, per me, è stato non tanto il tentativo di dare un volto a queste icone erranti, quanto di esporne l’ambivalenza produttiva, interrogando un’immagine, da cui ero catturato mio malgrado, che mi sembrava emanare direttamente dal paesaggio contemporaneo, portandone in luce quel tratto di alterità che è insieme estraneo ma sotto gli occhi di tutti, invisibile ma diffuso, ciò che potrebbe essere chiamata la dimensione eterotopica del paesaggio ordinario.
Più di recente, leggendo Gilles Clement, mi sono reso conto che le friches, i terreni residuali di cui parla a proposito del “Terzo paesaggio”, entravano in consonanza con l’immaginario che stavo articolando. Clement chiama “terzo paesaggio”, propriamente, l’insieme di quegli spazi sottratti alla decisione umana, che includono i residui – luoghi abbandonati precedentemente sfruttati – gli insiemi primari – luoghi mai sottoposti a sfruttamento – e le riserve naturali protette. Come giustamente osservi nell’ultimo capitolo di In territorio selvaggio, la categoria più interessante, e che costituisce la nota dominante del terzo paesaggio, è qui quella dei residui, immagine che a mio avviso coglie esattamente una certa linea di tendenza nelle metamorfosi del paesaggio contemporaneo, qualcosa che ci sta sotto gli occhi ma che raramente abbiamo le parole per descrivere. Le piante vagabonde, come gli ailanti e le robinie, la cosmea e il verbasco, le erbacce trasportate dal vento, dalle suole dei camminatori e dai container, migrano sul pianeta, insediandosi preferibilmente sui margini, negli incolti e nei residui, in territori già sfruttati dall’uomo e temporaneamente abbandonati che sono oggetto di una riconquista naturale, di intensi processi di secondarizzazione. Prendono così forma, sotto i nostri occhi, tra i nostri tristissimi giardini – per richiamare un libro di Vitaliano Trevisan che mappava la condizione frammentata di questa trasformazione – spazi eterogenei e aperti, fatti di mescolanze tra elementi diversi, particelle minerali, tessere vegetali, presenze animali, innesti tecnologici, dove preferibilmente si insediano in prima battuta quei migranti vegetali, ma anche umani, che si spostano in spazi ampi, tra i continenti.
Un primo aspetto che mi colpisce è la trama di identità e differenza che costituisce questi spazi, dove incontriamo elementi alieni, che provengono da un altrove spaziale e geografico – gli ailanti ad esempio furono introdotti dalla Cina nel settecento. Un’alterità ambientale – rispetto alle specie endemiche e locali – che contiene una logica che ci sfugge, pare indifferente rispetto ai nostri progetti, scopi e valori. Un’alterità paesaggistica: quando escono dall’invisibilità che di solito le circonda, le qualifichiamo come erbacce, spesso con un senso di fastidio, irritazione, più o meno latente minaccia. Eppure si tratta anche di presenze diffuse, spesso già da secoli parte integrante dell’identità del paesaggio che ci circonda – come le robinie, di provenienza americana, o la salsola, simbolo del deserto americano ma di origine siberiana – e che si diffondono e prosperano proprio nei luoghi da noi modificati, grazie all’opera di dissodamento, coltivazione e antropizzazione del terreno, che accelera i processi di secondarizzazione e apre la strada alle piante pioniere, favorendone così la diffusione tanto nei residui in abbandono quanto nei nostri giardini ordinati. Questa dialettica tra identità e differenza nel paesaggio ibrido contemporaneo, nella sua tensione conflittuale e oscillante, ha molto a che fare con le trasformazioni della nostra esperienza, e con ciò che possiamo dirne in poesia. Per usare l’icastica formula di Michael Pollan, “le erbacce non sono l’altro. Siamo noi”.
E la poesia: e la letteratura, l’arte più in generale? Che tipo di paesaggio occupano intorno a questo incolto, residuo, friche?
Il terzo paesaggio, come ho cercato di chiarire, è per me anzitutto una questione di primo livello, se vogliamo di ontologia dell’attualità, che riguarda ciò che possiamo dire in poesia del mondo in divenire, del paesaggio dentro cui ci muoviamo e di cui possiamo parlare. Il problema che poni è se, a un secondo livello, possiamo tracciare un’analogia tra questa nozione e lo statuto stesso della poesia oggi, se cioè se ne possa fare un uso metaforico, per impostare un discorso metapoetico sullo statuto e sulle possibilità della forma poetica, e più in generale della letteratura e dell’arte, nel panorama contemporaneo. Mi sembra un’intuizione feconda, che merita di essere scandagliata e che può illuminare alcuni aspetti della condizione attuale della poesia.
Partiamo dalla questione della periferizzazione della poesia, vale a dire il suo tendenziale spostamento dal centro dello spazio letterario verso il margine, verso la X. Si tratta di un processo che è stato spesso osservato con sentimento elegiaco, se non cupio dissolvi, che però a mio avviso è più il frutto di un’isteresi critica, per dirla con Bourdieu – il permanere soffocante di vecchie abitudini categoriali inadatte a rispondere agli elementi vitali del presente – che di una diagnosi disincantata. Per quanto inquietante, tale trasformazione può essere vista unicamente come un saldo negativo solo se si guarda ad essa secondo uno schema topologico, il dualismo centro/periferia, per molti versi ossificato, inadatto a rendere conto dell’esperienza contemporanea del paesaggio in divenire, segnata proprio da una periferizzazione diffusa, tale da fare delle periferie un osservatorio privilegiato per la registrazione delle dinamiche attuali. Rotolando dal centro verso la X, la poesia potrebbe trovarsi ad intercettare qualcosa di profondo, forse più celato ad altre esperienze che si annidano nel centro turistico mercantile della letteratura, o nelle gated communities dell’accademia.
Un altro aspetto cruciale è il processo di deistituzionalizzazione che interessa la poesia, a ben vedere già nella modernità – con il perdersi dello statuto a corte del poeta, il suo allontanamento dai luoghi del potere – e che è tanto più forte in quelle culture, come la nostra, in cui le istituzioni universitarie non garantiscono riserve protette per versificatori. La recente destrutturazione della società letteraria d’antan all’interno e per mezzo della società del consumo e dei mass media prima, e della rete social in seguito, l’indebolimento del senso di continuità di una tradizione e l’approdo, diagnosticato da molti, ad una condizione postletteraria della letteratura – in cui la letteratura non nasce primariamente dalla letteratura stessa – sono altri segnali di un processo in cui le istituzioni letterarie perdono il loro status. Processo a cui in effetti è maggiormente esposta una pratica, quale la poesia, che in assenza di riserve garantite non può nemmeno giovarsi delle istituzioni del mercato cui attinge il romanzo. Sorprendentemente, però, lo sfaldarsi delle strutture consolidate della società letteraria, delle sue gerarchie e tradizioni, non ha sottratto il terreno sotto i piedi alla poesia, che mi sembra continui ad essere una pratica vitale, diffusa, in evoluzione. Il venir meno di una posizione consolidata, della rendita garantita da un certo assetto topologico tra centro e periferia, che sanciva un impianto riconosciuto di valori e l’appartenenza istituzionale della poesia come pratica culturale, è anche l’apertura di uno spazio inedito, nel quale per certi versi può riemergere un tratto arcaico, di lunga durata, della poesia stessa, quale pratica istitutiva, il cui operare può situarsi ad un grado zero antropologico, che non necessita di una legittimazione esterna, e che dunque può bene adattarsi anche ad una condizione postletteraria. È come se qui, denudata, riemergesse l’etologia poetica della specie, un elemento arcaico che apre ad un futuro possibile, e le consente di continuare ad operare anche nel presente.
Qui l’immagine del terzo paesaggio è illuminante, a patto di non intenderla come una semplice epica della marginalità, un elogio acritico delle virtù dell’anomia, finendo così per confermare, in forma ribaltata, proprio quella topologia centripeta da cui stiamo prendendo congedo. I residui, gli spazi prima coltivati, istituzionalizzati, e quindi lasciati, temporaneamente, in abbandono, sono senz’altro un terreno propizio in cui la poesia, con il suo carattere erratico, di infestante del pensiero che si trova sempre dove non ci si aspetta di incontrarlo, può insediarsi, intercettando tropismi del contemporaneo, introducendo elementi di alterità, contribuendo al brossage dell’espressione. Il punto focale però non è tanto la marginalità di tali luoghi – che anzi oggi sempre più si aprono anche all’interno di ciò che era il centro, nel vuoto delle rotonde che lo circoscrivono – quanto il loro carattere sorgivo, di spazi in cui le logiche della produzione sono temporaneamente sospese e sono posti in opera percorsi eterogenei, non prevedibili, matrici del possibile. È interessante come così possiamo in qualche modo rovesciare un’immagine dominante del modernismo, o se vogliamo, un certo tipo di lettura nullista del moderno. La waste land non è solo, e non tanto una landa desolata, un insieme di frammenti ormai privi di vita, spogli di senso, che possiamo solo puntellare. La waste land è piuttosto un incolto, un terreno in abbandono, dove sotterraneamente, secondo logiche che ci sfuggono, si producono forme ibride, germina il nuovo, il mondo a venire.
Non dobbiamo però dimenticare che il terzo paesaggio non è fatto solo di friches, ma include anche gli insiemi primari – il bosco – e i recinti istituzionali – le riserve e i ben ordinati giardini. Il terzo paesaggio è questo insieme, o meglio, in senso dinamico, la convergenza di questi elementi, il processo in divenire che li porta a mescolarsi, e di cui le friches indicano semmai un vettore di trasformazione. Se rimaniamo fedeli all’analogia, anche la poesia deve poter avere un carattere in itinere, attraversando il paesaggio letterario in tutta la sua estensione: qualcosa che spariglia anche le ditocomie tra avanguardia e tradizione, lirica e sperimentazione, perché allude ad un’idea terza di pratica poetica, che non si lascia racchiudere nella topologia letteraria rigida che tali dualismi veicolano ma che ne attraversa i confini senza troppi scrupoli. Per evitare forme di autoinganno, non dobbiamo nemmeno nasconderci gli aspetti ambivalenti e ambigui di tale analogia. Il carattere a volte opportunista e cinico delle infestanti, che tendono ad espandersi, a volte a sopraffare le altre piante – come sperimentato da Thoreau con i suoi fagioli soffocati dalle erbacce – e a ridurre la diversità; ma anche la loro capacità di adattarsi a condizioni estreme, di far fronte al nuovo, contribuire alla proliferazione della vita. La loro ambivalenza è anche la nostra, e investe la poesia stessa. La ginestra, crescendo su terreni bruciati, pendici vulcaniche, con il suo spirito indomito, le sue forme di solidarietà vegetale, è essa stessa una vagabonda, piuttosto infestante.
E uscendo dalla letteratura? Dove ci conduce questa conversazione. Verso quali campi? Verso quale politica nel senso più ampio di questa parola, che riguarda non solo il politico come è normalmente inteso ma anche (oltre) l’umano?
Nel terzo paesaggio può manifestarsi un tratto di indecisione, di indeterminatezza, che sospende temporaneamente la funzionalità sociale. Alcune cose, luoghi, pratiche, disegnate per rispondere a certe funzioni, diventano preda di un’eterogenesi, cominciano ad operare in un senso non prefigurato, difficile da decifrare anche per i soggetti di cui sono espressione. La vexata quaestio della revoca del mandato sociale della poesia, in fondo, è solo un caso di questo fenomeno, che non è una maledizione, né il segno di un declino inevitabile, ma piuttosto l’indice di una trasformazione in atto di cui non conosciamo ancora i confini. L’idea stessa di funzionalismo poetico sarebbe quasi autocontraddittoria: in cosa consiste la pretesa della poesia, dopotutto, se non nella possibile sospensione della funzionalità sociale data? C’è qui in gioco qualcosa che riguarda la politica della letteratura, vale a dire il ruolo che essa può giocare della partizione sociale del senso, nella ridefinizione di ciò che è avvertito come possibile, di cosa vale come pratica, e di chi ne sono i soggetti.
Nel terzo paesaggio, tuttavia, è in gioco qualcosa di più ampio della politica della letteratura nel senso di Jacques Rancière. Partiamo dal carattere ibrido del terzo paesaggio, dal modo in cui da spazi residuali di origine agricola, industriale, urbana, turistica, emerge un coacervo, apparentemente caotico, di elementi eterogenei. In questa mescolanza c’è come un tratto di indistinzione, un punto di indifferenza tra elementi minerali, vegetali, animali. Luoghi antropizzati che iniziano a rivegetalizzarsi, manufatti tecnologici che si naturalizzano come rovine preistoriche. Questa indifferenza naturale, che resiste alle nostre logiche e progetti, al nostro modo di far senso del mondo, ci rivela qualcosa di profondo del paesaggio in cui siamo immersi. Si tratta di un paesaggio in frammenti, fatto di pezzi non congiunti, che sono il risultato dell’attività umana e/o della sua sospensione, presentando una molteplicità di elementi costruiti – pietra, asfalto, cemento – attraversati da dinamiche evolutive intense, una varietà di specie vegetali e animali sia locali che allogene. Sono insieme frammenti di natura e di storia, artificio e spontaneità.
Nello scorso decennio mi sono occupato intensamente come teorico della nozione filosofica di ‘seconda natura’, vale a dire del rapporto tra la ‘prima natura’ – la natura primigenia, il bosco, la natura fuori di noi, ma anche la dotazione naturale con cui veniamo al mondo – e la ‘seconda natura’ – la natura acquisita, di cui disponiamo con immediatezza ma che è il risultato di un esercizio, dell’educazione, del lavoro: in altri termini, la cultura umana e le sue pratiche, ma anche il paesaggio in quanto coltivato, trasformato dall’attività umana, il campo arato e il giardino. Ho sempre avuto la sensazione che questo lavoro teorico riguardasse solo indirettamente ciò che facevo in poesia, ne intersecasse solo alcuni lembi. Ci sono tante ragioni alla base di questa divergenza interna, di questa non corrispondenza tra attività teorica ed espressione poetica, ma di recente, proprio riflettendo sul paesaggio dei miei versi, penso di aver trovato un ulteriore motivo di tensione. In effetti, il terzo paesaggio che mi attrae in poesia non è esauribile né dalla prima natura – il bosco, la wilderness – né dalla seconda – il giardino, la città e le pratiche sociali. Il suo carattere indifferente e ibrido fa piuttosto segno verso ciò che i paesaggisti Christine e Michel Péna chiamano ‘terza natura’, una terza via tra la natura selvaggia e natura schiava, la natura primordiale e la cultura in quanto natura asservita alle finalità umane. È proprio la questione della terza natura a metterci sulla traccia della portata politica globale del terzo paesaggio, perché qui è in gioco qualcosa che riguarda non solo il clivage tra natura e cultura, ma anche tra umano e non umano.
Anzitutto, è la questione sociale e politica dell’antropocene che ci viene incontro. Gli ailanti che spaccano il cemento e l’asfalto, le barene lagunari rigenerate attraverso interventi tecnici, gli aironi sui tralicci, i fenicotteri che si insediano negli stagni dei petrolchimici. L’antropocene, come giustamente hanno osservato anche Gianfranco Pellegrino e Marcello di Paola in un recente volume dedicato a tale nozione, più che una nuova epoca geologica di umanizzazione senza residui, controllo prometeico o distruzione selvaggia della natura (a seconda degli opposti estremismi), è caratterizzato invece dall’interazione tra elementi naturali e artificiali, dalla costituzione di un paesaggio fatto di frammenti ibridi, che pone il problema delle possibilità inedite di creazione impura che questa condizione dischiude. Un paesaggio non solo entropico, una waste land desolata, come siamo abituati a vederlo sulle scorte di una certa lettura postmoderna della modernità, ma piuttosto una waste land germinante, generatrice di nuove grammatiche e forme di ordine.
Stranamente, ciò che chiamiamo antropocene è anche la soglia sulla quale la nostra comprensione dell’umano si sposta, in cui si ridisegna l’equilibrio tra i vari aspetti del vivente. Il postumano, in tal senso, più che la questione del tramonto della nostra specie, o della sua eclissi, a seconda della piega trionfalistica o catastrofista che spesso assumono le riflessioni in merito, pone il problema della sua rimodulazione, già in atto, nelle pieghe del paesaggio contemporaneo e delle sue eterotopie. Sono postumani i camminatori che s’aggirano nelle nostre città? Che cosa li lega agli ailanti che qui si insediano, ai frammenti di storia inattiva di cui è fatta la periferia diffusa del contemporaneo? Non ho una risposta precisa, ma sento che questi elementi entrano in una costellazione che ci porta in una direzione tutta da esplorare, per cui non disponiamo di mappe o schemi.
Tra i tanti motivi che si agitano in questo coacervo, vale la pena sottolinearne due di ampia portata biopolitica. Anzitutto l’imminenza del terzo paesaggio non significa la scomparsa della natura, come lo stanco storicismo da cui spesso anche la critica poetica è stata ipnotizzata dava per scontato – come se la natura dovesse inevitabilmente scomparire dal radar poetico – ma piuttosto mette in gioco diverse strategie, intenzionali o meno, attraverso la quali si producono nuove nature, si sperimentano morfologie inedite, magari attraverso l’ibridazione con forme artificiali che permettono di ristabilire tecnologicamente la natura. Più artifici per più natura è una formula che esprime il divenire in atto di forme di utopia topica, di alterità incarnate nei frammenti ibridi del terzo paesaggio. Il passaggio in altro che si materializza nel désœuvrement dei luoghi, nello xenopaesaggio della terza natura, materializza in tal senso forme di alienazione liberatoria, dove l’alterità della natura, il suo non essere riducibile ad un ordine normativo già fissato, può emanciparci da noi stessi e dagli ordini discorsivi in cui abbiamo imbrigliato la grammatica naturale. Più che una svolta antinaturalista, come vorrebbero l’accelerazionismo e lo xenofemminismo, la proliferazione tecnologica dei nostri giorni va in direzione di una politica ibrida delle nature al plurale.
Infine, il terzo paesaggio, con il confluire in esso dell’eredità antropica e della rinaturalizzazione, pone il problema della democrazia del vivente. Non sappiamo sino a che punto sia sensato estenderla, e tuttavia già ora il cosmopolitismo delle piante migranti e la globalizzazione del terzo paesaggio in cui proliferano, ci costringono a ripensare le gerarchie attraverso cui abbiamo sistemato i rapporti tra i vari ordini naturali. Le “odiose bardane, cardi irsuti, erbacce e lappole” che in Shakespeare simbolizzavano la minaccia ad un ordine costituito. Le foglie d’erba che in Whitman erano l’immagine stessa della democrazia cosmopolitica. La salsola vagante nella steppa russa che in Platonov suscitava il fantasma di una comunità sradicata dal passato. Si tratta di metafore, certo, ma anche, alla lettera, in esse urge qualcosa, che ha a che fare con il compito arduo, di cui ci sfugge in gran parte il senso, ma che un giorno dovremo affrontare, di ridefinire in un senso allargato, più orizzontale e paritario, la democrazia dei viventi.
Che cos’è che non ti ho chiesto, e che vorresti dire?
Dovremmo parlare del futuro, perché la dimensione inconclusa, aperta e indeterminata, del paesaggio contemporaneo apre a un senso in divenire, riguarda la reinvenzione del possibile. Per lungo tempo, soprattutto in Italia, siamo rimasti irretiti da un’immagine museale del paesaggio, come bene da conservare. Il paesaggio come archivio, insieme di ordini dati e riconosciuti che appartengono al passato. Anche la poesia ha spesso corso il rischio, trasformandosi in idillio, di rimanere intrappolata in questa immagine. Ma la poesia, nei suoi momenti istitutivi, è stata anche in grado di convocare il paesaggio nella sua attualità, metterne a tema il dinamismo in divenire, pretendo di reinventarlo, dargli un nome, farlo essere. A confronto con il terzo paesaggio, non può bastarci una mera ontologia del presente, perché ciò in esso è attuale è la riattivazione di una latenza, l’individuazione di linee di fuga: l’emancipazione possibile da quell’effetto di blocco, di schiacciamento sul presente, che è il frutto avvelenato dell’incanto postmoderno.
Poesia, terzo paesaggio?, rubrica a cura di Laura Pugno
…e nel quarto paesaggio (sempre da un libro di Trevisan, Works) potrei immaginare le poesie più carnali, quelle che nascono dagli scarti, via, di cui nessuno può far più uso ma che contengono a volte quelle verità più scomode.
Seguo…
“Può questo oggi aiutarci a pensare la poesia?”
NO!
—
…è la POESIA che ci “pensa”, altrimenti non giunge a noi.
Ogni altro criterio è errato.
La Poesia è nella semplice erba, ma noi l’erba la calpestiamo, per questo motivo non la vediamo.