Poesia, terzo paesaggio?, rubrica a cura di Laura Pugno
[Questa rubrica, o meglio inchiesta, Poesia Terzo Paesaggio?, nasce dal desiderio di entrare in dialogo con altri poeti, scrittori e chissà, in futuro, anche artisti, chiamati a rispondere a un identico questionario.
La conversazione ha per cuore l’analogia tra la poesia in Italia oggi e il concetto di Terzo Paesaggio, che si deve al paesaggista francese Gilles Clément.
Analogia che ho tratteggiato nelle ultime pagine del mio saggio In territorio selvaggio(Nottetempo), riportate qui, e a cui rimando per approfondimenti.
L’analogia è appunto un’analogia, un’intuizione, non una tesi sistematica – come del resto anche l’idea stessa di Terzo Paesaggio sembra essere. Allo stesso tempo, ha qualcosa di vero. Di quel vero che è delle intuizioni, delle immagini. Spaventoso e allo stesso tempo confortante (uso non a caso questo aggettivo).
Terzo Paesaggio è una definizione che, precisa Clément, rimanda “a Terzo Stato, non a Terzo Mondo. Uno spazio che non esprime né potere, né sottomissione al potere.” Ma il Terzo Paesaggio è anche “uno spazio comune del futuro”.
Può questo oggi aiutarci a pensare la poesia? Potere non ne ha. Cerca sottomissione al potere? Qual è il suo spazio comune nel futuro? (Laura Pugno)].
Immaginiamo di essere nello stesso posto e che questa conversazione avvenga in un luogo. Metto qui, in questo spazio, un’analogia, allo stesso tempo precisa e imperfetta come tutte che la situazioni della poesia italiana e non solo italiana oggi abbia qualcosa in comune con quello che il paesaggista francese Gilles Clément denomina Terzo Paesaggio. Ne ho parlato nelle ultime pagine del mio saggio In territorio selvaggio (Nottetempo) riportate qui su LPLC2.
Cosa te ne sembra? La senti vera? Cosa ti fa ulteriormente immaginare?
Uno o due anni fa mi trovavo in vacanza sull’Altopiano di Asiago, in fuga dall’afa di agosto. Durante una passeggiata nel bosco mi capitò di vedere, sul fianco della strada sterrata che stavo percorrendo, una casa abbandonata: i muri scrostati, le porte e le finestre chiuse, le tapparelle abbassate a metà e per lo più scassate, nugoli di mosche intorno ad alcune pozze d’acqua piovana, in putrefazione, sul terrazzino. Ad attirare la mia attenzione fu però un agile rampicante che, con slancio, partiva dal fondo di una delle quattro mura e che nel tempo si stava mangiando tutta la casa: ormai aveva già conquistato metà dell’edificio. Il selvaggio si riprendeva ciò che una volta era suo. Questa forza quasi mi spaventò e al contempo mi diede gioia: dai margini dell’incolto e dell’abbandonato, qualcosa di intenso, di asistematico, com’era quell’edera verdissima, ridava un senso e una vita a uno spazio morto, un tempo sfruttato e ora lasciato a se stesso, fatiscente.
Ho raccontato questo piccolo episodio perché anch’io vorrei proporre un’analogia, per rispondere alla prima domanda, se io pensi, cioè, che sia possibile collocare la poesia contemporanea in questo spazio marginale, in relazione a ciò che Gilles Clément chiama Terzo paesaggio. L’analogia che io propongo è di identificare il percorso della poesia con lo slancio di quel rampicante, che in un certo senso ‘riabilita’ una casa abbandonata. Quindi sì, sono d’accordo nel pensare la poesia ai margini di una strada, senza mai pensare però che i margini siano di marginale importanza. Questo spazio abitato dalla poesia non è un luogo sfortunato, di cui lamentarsi, un luogo in cui essa viene relegata: anzi, è proprio da uno spazio senza giudizio, senza riflettori puntati, da un luogo dove i fatti non sono ancora fatti, è proprio da qui che può iniziare l’indagine, la scoperta della ricchezza del linguaggio della poesia – che è al contempo selvaggio e composto. Ecco allora cosa sostengo, qui senza dubbio insieme a Clément: «Istruire lo spirito del non fare così come si istruisce lo spirito del fare» . In quello spazio immenso del non fare, che è lo spazio della possibilità e, forse banalmente, dell’immaginazione, lo spazio infinito del bosco (e non del giardino), l’autore dà inizio alla sua indagine.
Lì, sul margine, a spalancarsi è proprio un «rapporto di infinità», come direbbe Blanchot , rapporto che ogni poeta vive prima di tutto con la lingua, con la parola che entra in relazione con l’ignoto. Ogni autore vive una sua sperimentazione linguistica, compie un percorso, partendo da un silenzio per arrivare a una voce – la sua voce. La sperimentazione nasce dalla frequentazione di questo margine. La poesia è lì che risiede, a cavallo tra ciò che di un’esperienza può essere reso noto (attraverso la parola) e ciò che non lo sarà mai.
E la poesia: e la letteratura, l’arte più in generale? Che tipo di paesaggio occupano intorno a questo incolto, residuo, friche?
Il fatto che i linguaggi dell’arte possano nutrirsi dei margini, e lì costruire, dimostra la grande vitalità creativa che li distingue. I compositori, per esempio, hanno saputo utilizzare le ‘zone d’ombra’ del linguaggio musicale, come la dissonanza, per creare nuove forme di consonanza, più consone, appunto, al tempo presente. Occorre dire infatti che la consonanza non è (più) per forza una soluzione rasserenante. Il XX secolo ci ha dimostrato che la percezione di consonanza, in una qualsiasi manifestazione della realtà o dell’arte, non ha più a che vedere con una ‘quadratura’, o con il riposo (un riposo nell’armonia degli accordi, nelle forme classiche in un quadro): consonanza è oggi il riuscire a riconoscere, in quello che si vede o si ascolta, un’architettura. Così funziona la relazione fra spazio residuale, incolto (lo spazio dell’edera che si mangia la casa) e la società in cui viviamo. Senza lo spazio marginale, da cui sorgono le nuove forme dell’arte e della vita, ogni creatività si annienta e ogni diversità si omologa, là dove omologazione non è consonanza: è impoverimento.
Anche la scrittura abita gli spazi residuali delle parole, quando sceglie un concetto e cerca di riportarne alla luce alcune sfumature che la società tende a lasciar defluire ai margini. Un poeta, nello specifico, dovrebbe sempre dubitare delle parole che stanno sulla bocca di tutti e che con l’uso ‘si sciupano’, cercando per come può di osservarle, di rivitalizzarle. Per fare un esempio, è chiaro che oggi sulla bocca di tutti ci sono le parole ‘natura’, ‘naturale’. Nella recente raccolta che ho intitolato Questioni naturali, pubblicata nel XIV Quaderno italiano di poesia contemporanea da Marcos y Marcos, ho cercato di problematizzare ciò che oggi molto spesso si intende con ‘natura’. In un mondo in cui si pensa, con una certa presunzione, di saper indicare cosa è naturale e cosa è contro-natura, sovrapponendo così ‘naturale’ con una stereotipata idea di ‘tradizionale’, ho voluto proporre un approccio più attento al tema: naturale, ben lontano da un’immagine di fissità, è semmai la vitalità inedita. Naturale allora non è solo ciò che è stato ma ciò che ancora ha da venire, è tutto ciò che è possibile ancora prima di una legittimazione etica – quest’ultima ha a che fare con noi umani, con il nostro discorso e con il nostro giudizio. Ciò che è naturale lo è in virtù del fatto che si manifesta, e che si manifesta proprio qui, in questo mondo di cui noi abbiamo percezione, all’interno della scivolosa e vasta cornice dell’universo: è questa la consonanza.
E uscendo dalla letteratura? Dove ci conduce questa conversazione. Verso quali campi? Verso quale politica nel senso più ampio di questa parola, che riguarda non solo il politico come è normalmente inteso ma anche (oltre) l’umano?
Questa è la domanda più difficile perché ha a che fare con una previsione per il futuro. Credo che questa conversazione dovrebbe portarci a sperare che qualcuno ne stia intrattenendo un’altra simile, da un’altra parte. Spero che non siamo soli ad abitare questo Terzo paesaggio. Spero in una politica, cioè in una visione della società e dell’umano, che coltivi un’altra idea di paesaggio – fisico e mentale – che non si limiti al profitto e che, contestualmente, non alimenti l’abbandono di ciò che non concorre al profitto e che quindi non le corrisponde più («Elevare l’improduttività fino a conferirle dignità politica» scrive Gilles Clément, sempre nel suo Manifesto). Mi auguro un’idea di paesaggio disposta ad accettare l’esistenza di ciò che turba, ciò che scompagina, ciò che migra (verbo che non scelgo a caso) dai margini al centro, anziché rimuoverlo o fingere che non esista. Ancora Clément: «Uno spazio privo di Terzo paesaggio sarebbe come una mente priva di inconscio». Mi pare di non trovare parole più adeguate.
Cos’è che non ti ho chiesto e che vorresti dire?
Un suggerimento di lettura per chi vorrà. Un filosofo e sinologo, François Jullien, riferendosi al pensiero cinese, (in questo, come in altri casi, nettamente altro rispetto agli sviluppi che ha avuto il pensiero greco in Occidente), scrive che esso «non si occupa della questione della verità, ma della vitalità, ovvero della maniera in cui la respirazione passa nel ‘tra’ del corpo per mantenerlo vivo e animato» . Ecco, vorrei concludere questa conversazione con la parola ‘vitalità’, da mettere al posto della ricerca di una verità, sperando che vitalità e possibilità siano messe sempre, e in ogni ambito, nelle condizioni di riverberare dai margini al centro, dal centro ai margini. Chissà se anche il fenomeno dell’ibridazione, a cui assistiamo nel mondo della scrittura, invece che come qualcosa di inquietante possa allora essere percepito come un fisiologico processo di respirazione.
Grazie.
Begli spunti e bellissimo il suggerimento di lettura alla fine, vitalità al posto di verità.
mi scuso per il secondo commento di seguito ma, se possibile, vorrei sapere da quale testo di Jullien è tratta la citazione. grazie
“Il paesaggio allora non è più da ‘guardare’, da ‘rappresentare’, che sono i due verbi cui ci si richiama più spesso nelle nostre lingue, ma si collega al vitale. Se dunque azzardo questo ‘vivere di’ [paesaggio], sfruttando questo ‘di’ che rimonta verso una più profonda origine, al di là del mezzo o del modo, così che la divisione tra il concreto e l’astratto si dissolva (come si dice familiarmente con una frase che esprime la gioia e basta: ’vivere d’aria e d’amore’), è per fare spazio a questa altra possibilità: è per pensare quel che noi chiamiamo ‘paesaggio’ non come la ‘parte’ del paese che la natura ‘presenta’ ad un ‘osservatore’, secondo la definizione comune, ma in quanto risorsa dove il vivere può inesauribilmente attingere.”
François Jullien. Vivre de paysage ou L’impensé de la Raison, Paris, Gallimard, 2014 p. 20