di Miloš Crnjanski

 

[E’ da poco uscito per Mimesis Romanzo di Londra, dello scrittore serbo Miloš Crnjanski. Ne proponiamo il primo capitolo].

 

Tutti i romanzieri sembrano d’accordo quando prendono in esame il mondo in cui viviamo. È una sorta di grande, meraviglioso palcoscenico, dicono, sul quale ciascuno, per un certo tempo, recita la sua parte. E poi esce di scena, per non riapparirvi mai più. Nikogda. Mai. Costui non sa, del resto, perché vi abbia recitato, né perché abbia avuto proprio quella parte, né chi gliela abbia assegnata, così come gli spettatori non sanno dove se ne vada, una volta uscito di scena («Uehal! Partito!», grida qualcuno in un vagone della metropolitana di Londra). Gli scrittori dicono anche che, quando si esce di scena, siamo tutti uguali. Re e mendicanti.

«Egalité. Fraternité», sento che qualcuno grida, tra sé, in un vagone della metropolitana di Londra.

Di colui che sta gridando, il lettore farà conoscenza nel prossimo capitolo. È un uomo, con addosso uno šinel, un cappotto militare sdrucito, come ce n’erano tanti a Londra, all’epoca in cui questo racconto comincia.

L’universo si lascia ancora contemplare col pensiero soltanto in qualche vecchio planetario, sulle cui mappe del globo terrestre il Sole gira attorno al nostro mondo, e la terra è circondata da insetti e mostri dai nomi latini.

Mars. Luna. Venus. Scorpio.

«Del resto, basta sapere solo questo dei pianeti», sento che sussurra quel tale, nel vagone che sfreccia sottoterra.

 

Quintiliano dice che, per conoscere l’umanità, non è necessario conoscere l’intera umanità. Basta conoscere, bene, una sola famiglia («Per esempio – grida quel tale nel vagone – la mia: Repnin, la famille d’un grand seigneur, le Prince Repnin»). Queste parole mi fanno venire in mente un Principe polinesiano che, a Londra, vende biglietti alle corse dei cavalli. Sulla testa porta una piuma di struzzo. Quanto all’uomo con il cappotto militare, a Londra pronunciavano il suo nome con qualche esitazione: Richpain, Jaypin; e nessuno lo conosceva. Pensavano che quel nome volesse dire: pena, mormorio, persona infelice, che può darsi fosse davvero il suo significato in inglese (a quell’epoca c’erano molti esuli polacchi, a Londra, e fra loro, come per magia, anche quel russo, e tutti insieme costituivano un mondo sconosciuto).

Con quest’uomo, in ogni caso, inizia, nel prossimo capitolo, il nostro racconto. La mente umana, ancora oggi, continua a vedere, con una certa dose di confusione, alcuni singoli Paesi del globo terrestre, sotto forma di animali feroci e di simboli. Gli inglesi dicono che a Nord c’è un enorme orso bianco. «Rossija, matuška, la Madre Russia», grida quel tale nel vagone.

I tedeschi dicono che a Sud c’è uno stivale, pieno di arance e di limoni. «Italia», mi dice l’uomo con il cappotto sdrucito. Con tristezza.

Il Giappone, dicono, assomiglia a una salamandra bruciata. La Birmania a un misterioso calligramma che solo i cinesi sono in grado di decifrare. E la Spagna? La Spagna assomiglia alla pelle tesa, strappata, di un toro, il cui sangue si è versato nell’arena. Come se non fosse stato Dio a creare il mondo ma quell’altro, il Maligno.

«Čërt. Čërt. Il diavolo. Il diavolo», mi gridava qualcuno nelle orecchie.

 

Un francese balordo ha detto che la Gran Bretagna assomigliava, sulle carte geografiche, a una vecchia signora, raffinata e in ghingheri, con un grande cappello in testa, che si dirige verso il mare. Porta uno strascico, che trascina nel suo incedere, e cammina orgogliosa, consapevole di quel che è stata. Non è stata una qualunque.

«Il Principe Repnin, ora, a Londra, è uno qualunque», sento bisbigliarmi all’orecchio, nella metropolitana che sfreccia lontano da Londra.

Alcune ragazze che frequentano Ascot, una famosa scuola femminile inglese, dove vengono educate le figlie delle famiglie della buona borghesia, aggiungono a quanto detto dal francese balordo, che quell’anziana signora non porta solo uno strascico, ma ha anche un barboncino: l’Irlanda.

«Questo lo dice anche Nadja», mi sussurra quel russo, nella metropolitana.

Non è vero, tuttavia, che Londra abbia un clima orribile, che abbia un lungo inverno e che sparisca sotto a una nebbia gialla e spessa, dove non si vede a un palmo dal naso. Era così prima, ma non lo è più. Il primo inverno – mi racconta il russo –, quando venne a Londra con sua moglie, fu come sono gli inverni in Crimea. Simile alla primavera. Il secondo inverno fu un po’ più freddo, piovoso, ma passò presto. Neve non ce n’era stata affatto. Non c’era la neve, per strada, che rende tutto silenzioso, bianco, puro e bello, sia la città, sia l’amore in città, com’era un tempo, a Pietroburgo, nella sua giovinezza. L’umidità, a volte, era insopportabile, è vero; la nebbia era soffocante, la pioggia cadeva a lungo, a lungo. Nadja, tuttavia, gli diceva che si doveva sopportare quell’interminabile pioggia. Gli inglesi considerano una giornata piovosa “una buona, vecchia, giornata inglese”. «A good old English day», dicono. Te lo ripetono, quando dicono: «Buona giornata».

 

Al loro arrivo a Londra, Nadja, poverina, si aspettava che l’inverno fosse com’è descritto in Dickens. Con gli orfani che, durante le feste natalizie, morivano assiderati sulle tombe delle loro madri. Commovente. Invece, anche il terzo inverno di guerra trascorse in fretta. Ci furono nebbia e malattie, ma durò poco. E il quarto inverno fu freddo, ma finì presto. Il Tamigi non gelò mai. L’uomo, racconta, si chiedeva: «Dove li hanno trovati, gli inglesi, tutti quegli orfani? O meglio, dove li aveva trovati Dickens, tutti quegli orfani che vanno a morire assiderati sulle tombe delle loro madri?». Non c’erano né orfani lasciati ad assiderarsi sulle tombe materne, né, in generale, morti per congelamento. Londra era calda. Non era mai stata così calda. Le notevoli differenze di classe, che in tempo di pace, si dice, siano quanto mai evidenti, erano sparite. Tutti attaccavano bottone con tutti. Nella stazione della metropolitana di Piccadilly, a mezzanotte si ballava. E gli uccellini di Hyde Park venivano nutriti con il pane, benché il pane fosse raro, cosa che comportava una multa di cinque sterline. Le vecchie signore portavano ai gatti persino il latte, fra le macerie e le case incendiate, benché anche questo fosse proibito. Nadja lo aveva visto con i suoi occhi.

«La gente – mi racconta l’uomo con il cappotto militare – l’ha dimenticato». Quando la patria è in pericolo, ci si prende cura dei poveri, in Inghilterra.

«Del resto, l’Inghilterra è tutta una grande compagnia di assicurazioni», grida l’uomo del vagone. È già più di un anno che è disoccupato. Tutto è così caro. Ma soltanto in questo inverno – l’ultimo inverno di guerra – l’Inghilterra gli ha mostrato cosa è in grado di fare, quando vuole. Neve per due mesi. Bufere di neve portate da un vento tremendo, come in Russia, che soffia dal Polo Nord. I treni si erano fermati. Le auto venivano abbandonate e lasciate sul ciglio della strada. Tutto era gelato. E non c’è nulla, né una montagna, né una foresta, che possa trattenere quei venti gelidi, che soffiano dai mari polari. Dovunque, intorno a noi, c’è il mare. C’è l’oceano. «Affondiamo – sento qualcuno che grida nel vagone –, Nadja, affondiamo!».

 

E sento una dolce, affettuosa voce femminile, che risponde: «Kolja, dorogoj. Kolja, tesoro, lo faremo insieme».

Così mi racconta quel tale nel vagone, mentre sfrecciamo sottoterra, e sostiene che, durante la guerra, era meglio. «Egalité. Fraternité», dice. Londra bruciava. I roghi divampavano. E adesso, è già più di un anno che non guadagna. È stato smobilitato con i polacchi, con cui era venuto a Londra. Promettono che daranno loro un lavoro. Promettono. «So sorry, sono così dispiaciuti», dicono.

Gli chiedo: «Perché non si è arruolato nell’Esercito americano?».

Non ama gli americani, dice, sono ricchi e boriosi, e inoltre dicono frasi oscene alle donne, qui a Londra. Quando Nadja attraversa Piccadilly, le gridano dietro, dall’angolo della strada, davanti al loro club: «Quanto costa una scopata, baby? Baby, a quanto una scopata?».

Lo consolo dicendogli che sono soldati, che stanno andando a morire e che lo dicono anche alle inglesi, non solo a Nadja.

Lo consolo dicendogli che i miei vicini raccontano che a Londra di inverni così ne capita solo uno ogni dieci anni. Passerà. Il peggio è già passato.

Mi sussurra che non hanno più carbone, e che non sa come pagare il prossimo affitto. Perché vivono? Solo per continuare a essere dei profughi? Peremeščennye lica? Agli inglesi andavamo bene, finché c’era la guerra. Ora invece, dice, sono tutti nasi storti, colli storti, occhi storti, bocche storte. Lo ascolto, nonostante la metropolitana nel frattempo strepiti, ci scuota, ci dondoli, e nessun altro ci stia ascoltando.

 

Accanto ai pensieri, so che nel cervello umano si avvicendano le immagini, come in un caleidoscopio, un caleidoscopio disperso, insieme alle persone disperse. «Displaced persons», come dicono qui. Le immagini restano per anni nella memoria, rischiarate, anche sottoterra, da una luce, da una follia, come un chiaro di luna, in cui si intravedono tutte le impronte lasciate sulla neve, anche dopo venticinque anni. Una massa di soldati e di ufficiali che, fino a poco tempo prima, formava un battaglione, e lo Stato maggiore, dell’Esercito di Vrangel’, si imbarca, a Kerč’, sul mare d’Azov, su una nave romena, una carretta. Alcuni gridano, altri cantano, altri ancora piangono. Tutto ciò, naturalmente, è stato dimenticato da tempo. Nadja aveva allora diciassette anni ed era seduta sopra a una valigia, come impietrita, accanto a sua zia. Invano fu offerto loro del tè. Stavano in silenzio. Chi se lo ricorda? La vita va avanti, come si dice. Lui pensa, invece, che sarebbe dovuto morire laggiù. A Kerč’.

Tuttavia, per quanto i pensieri umani sfreccino nel passato, nel cervello, persino in un cervello così, un cervello espatriato, non per questo i treni della metropolitana di Londra si fermeranno. Al contrario, corrono sempre più in fretta, fianco a fianco, paralleli. Ogni passeggero, per un istante o due, vede se stesso, il proprio volto, riflesso nell’altro treno, come in uno specchio sotterraneo, che rapidamen- te scompare.

Le folle viaggiano in silenzio sui treni. Pigiate. Come sardine dentro una scatola di latta, tutte in piedi una accanto all’altra, mute. Tuttavia, si sente quel che pensano, quel che sussurrano. A se stesse. Quando vanno a Londra al mattino, salgono in treno con la faccia rivolta verso Londra, mentre la sera, quando tornano dal lavoro, le voltano le spalle. Sanno che così, stipate e in piedi, sarà più facile riuscire a stare salde nei rossi vagoni di acciaio. Si reggono, oscillando, appese ai supporti di gomma del vagone, che stringono nel pugno della mano, spasmodicamente (i supporti di gomma nera, rigida, assomigliano al membro di un cavallo).

 

Talvolta, in qualche sobborgo, un po’ più distante, i treni escono in superficie, forse per prendere una boccata d’aria. A quel punto, l’ultima stazione non è più tanto lontana. Quando il treno arriva all’ultima stazione, la folla scende, in fretta, davanti alla stazione, e si accalca, attorno agli autobus rossi, sempre davanti alla stazione, per continuare il viaggio in superficie, fino a casa. Coloro che nei vagoni, sottoterra, se ne stavano in piedi tutti pigiati, anche se non si conoscono, si salutano, dandosi la buona notte: «Good night! – dicono – Buona notte!». Anche se non si conoscono, anche se di per sé non significa nulla, è piacevole dirlo, e sentirselo dire. Alla fine, si augurano il bene a vicenda. Giunti al capolinea. È confortante.

L’ultima stazione, fin dove, invisibile, ho accompagnato l’ombra umana dal cappotto sdrucito, si chiamava: Mill Hill.

In questa piccola località ha inizio la storia per cui siamo tutti orecchi.

A giudicare dal nome, doveva trattarsi di una collina, su cui, un tempo, c’erano dei mulini a vento. Mulini a vento non ce ne sono più (proprio come non c’è un torrente, in quella stazione che porta il nome di un torrente; e non ci sono né Baroni, né Conti in quelle stazioni che, ancora oggi, portano il nome di un Barone o di un Conte, che pure un tempo esistevano).

Davanti alla stazione di Mill Hill, tutto in questo momento è sepolto dalla neve.


Il Principe, Nikolaj Rodionovič Repnin, trasandato, solitario, è in piedi davanti alla stazione. Su quell’uomo, nessuno, una volta sceso dal treno, aveva gettato uno sguardo. A Mill Hill nessuno sapeva il suo nome. Di polacchi smobilitati, a Londra, a quel tempo, ce n’erano molti. In ogni caso, è grazie a quest’uomo che comincia la nostra storia.

Mill Hill è uno di quei sobborghi londinesi che si chiamano dormitori, dormitory. Sono abitati da gente che la mattina va a Londra, a lavorare, e ritorna la sera. Talvolta, questa gente trascorre ore in metropolitana. È una zona operaia, di gente povera, che si trova nell’East London. Solo la cosiddetta élite della classe lavoratrice può permettersi di uscirne per andare ad abitare nei dintorni di Londra. Coloro che portano, attorno al collo, un colletto bianco. Li chiamano “colletti bianchi”. White collar workers. Abitano nelle piccole località della periferia, in infinite schiere di casette con giardino, tutte a un solo piano, simili a pollai o a piccionaie. Fra di loro si erano insediati migliaia di polacchi provenienti da un esercito che, dovunque nel mondo, si era battuto con folle coraggio, e che, ora, sulle isole britanniche era disarmato. Chiunque si fosse trovato quel giorno a Mill Hill, avrebbe potuto dire di quel luogo soltanto che, così innevato, assomigliava a un biglietto natalizio, a uno di quei messaggi di auguri che gli inglesi si scambiano per Natale. Su quei biglietti, tutto è ammantato di neve, anche quando di neve non ce n’è. Ogni località è coperta di neve, come forse un tempo accadeva davvero. Di solito sui biglietti si vede una vecchia carrozza postale, trainata da sei cavalli, che si è fermata. A cassetta si vede il vetturino che in testa porta un alto cappello inglese, come i cappelli inglesi di cent’anni fa. Nell’immagine, ci sono alcune lepri, nella neve. C’è anche una chiesetta, come ce ne sono in ogni luogo, sebbene oggi siano vuote quasi dovunque, nell’arcipelago britannico. Tutto è immerso nella neve, ed è commovente. Mill Hill, in quei giorni, era proprio così.

 

Quattro milioni di anime abitano a Londra e otto vivono nella sua area urbana, ma, in realtà, quattordici milioni di anime sono intrappolate nella rete di Londra. Vivono nei dintorni di Londra, vengono a Londra, attraversano, lavorano, scompaiono a Londra, e nessuno conosce nessuno, in questo astronomico ag- glomerato. «Buona notte», dicono. D’estate le piccole località, e soprattutto Mill Hill, sono idilliache: gli uccelli cinguettano, ciascuno ha il suo giardinetto; gli elefanti rossi, ovvero i pesanti autobus rossi, si inerpicano fino in cima alla collina. All’aeroporto, come balene in cielo, rimangono sospesi i grandi palloni della contraerea. Erano color argento. Ma a parte questo, invano si cercherebbe questo posto dell’arcipelago britannico, sulle carte geografiche. È oltremodo insi- gnificante. Del resto, quando finisce una guerra, anche i luoghi più famosi si dimenticano, anche quelli che ci sono stati cari, perfino quelli di cui avevamo detto che sarebbero stati ricordati in eterno.

«Rossija net, Rossija net. La Russia no, la Russia no», mi grida, da Mill Hill, qualcuno. L’uomo che ora, al buio, nella neve, sale dalla stazione fino a Mill Hill, per imboccare una strada senza uscita sprofondata nella neve. In quel vicolo cieco apparvero alcune case, che avevano il tetto di paglia, come se fossimo in Irlanda.

La neve stava ricoprendo ogni cosa.

La strada saliva lungo le case, le cui finestre, anche ora, erano oscurate, come al tempo in cui gli attacchi aerei iniziavano non appena scendeva il buio. «Kolja», sento chiamare una dolce voce femminile – bisogna riconoscere che qui nessuno ha alzato bandiera bianca.

L’uomo che si inerpica su quel vicolo cieco, evidentemente, conosce bene la strada. Lo seguo, invisibile, ma lui mi chiede: «Che ore sono?».

«Secondo l’osservatorio di Greenwich – che, cent’anni fa, conoscevano tutti – sono le sette», dico. Ma lui mi risponde che gli anni passano, in fretta. Lui va per i cinquantatré, pjatdesjat tret’ju, mentre la povera Nadja ne ha quarantatré. È così in questo mondo sconosciuto. Si scusa con me perché i lampioni sono stati spenti lungo quella strada senza uscita. Un tempo a Londra c’erano i lampionai municipali. Il lampionaio la sera accendeva i lampioni lungo le strade. Ora una mano invisibile li spegne. Come se volesse farci rimanere in eterno nell’oscurità. Non appena vedrò Nadja, devo dirle che sembra di dieci anni più giovane. Le persone espatriate invecchiano rapidamente. Il naso se ne va da una parte, mentre le labbra pendono dall’altra, amareggiate. Gli occhi diventano sporgenti. Un occhio ha bisogno di un certo tipo di lente, l’altro di un tipo diverso. La vita umana non è che una serie di cambiamenti sul nostro viso.

 

Mentre arranca nella neve, sulla strada senza uscita, quell’ombra umana mi consola dicendo che, quando conoscerò Nadja, ascolterò molte cose belle, anche se saranno tristi. Tutto, del resto, è un residuo del passato, a Londra. Anche il loro amore, che era iniziato a Kerč’. Nadja mi racconterà che qui ogni casa ha una targhetta, posta sopra il cancello di accesso al giardinetto. Di solito vi è inciso il nome di un posto caro a chi vi abita. «Sono per lo più i nomi – dice Nadja (e lei queste cose le sa) – dei luoghi dove si è stati in viaggio di nozze». Nadja dice: «Non è una bella cosa?». A volte quei luoghi erano davvero lontani, ma venivano ricordati. Perché lui non dovrebbe ricordare Kerč’ e Jalta? Gli inglesi ci tengono molto al viaggio di nozze. La Principessa Bagration le raccontava che gli inglesi, quel viaggio, dopo venticinque anni, lo ripetono. Quando cominciano a guadagnare abbastanza. La penuria di mezzi qui è grande, fra i giovani, quanto a denaro. Ilišev, poveretto, scrive loro da Exeter, che là solo le vecchie hanno soldi. E lui di certo lo deve sapere. Si è sposato in quel posto. Del viaggio di nozze, organizzato venticinque anni dopo, gli inglesi dicono che è stato “rimandato”. Una luna di miele rimandata? Mai, in nessun’altra parte del mondo, in precedenza, aveva sentito dire una cosa del genere.

Mentre, lungo il vicolo cieco, quella muta conversazione continuava, arrivammo a una casupola, coperta di neve, bianca, tra due querce. Bianca come un fantasma. Somigliava a una capanna eschimese nella neve. Una casetta spettrale, anche perché aveva porta e finestre incorniciate di nero. Ci sono case così, da quelle parti. Case imbiancate, ma porte e finestre incorniciate di nero. Un sepolcro imbiancato. «Smotrite. Guardate», sento che qualcuno mi sussurra.

Non c’è la targhetta su quella casa. E come potrebbe esserci? Chi potrebbe scrivere, su quella targhetta, tutti i nomi di un viaggio di nozze che, iniziato a Kerč’, sul mare d’Azov, era proseguito ad Algeri, per continuare a Milano, a Praga, a Parigi, e ora è finito a Mill Hill?

La casa, a quanto vedo, è senza nome. Anonima. Non è loro, appartiene a un Maggiore che non lontano possedeva un maneggio e che in questa bicocca aveva sistemato il suo stalliere, uno stalliere gentleman. Vedevo solo che era sepolta nella neve e immersa in un profondo silenzio. Dalla strada sembrava che non ci abitasse nessuno, o che fosse occupata da un morto, come in una tomba, e nessuno, nel giardinetto, aveva potato il bosso da un anno a questa parte. C’era del fango attorno a una pompa, accanto all’uscita, e alcuni fiori invernali, spezzati e caduti nel fango. Il cancelletto del giardino rimaneva socchiuso, di notte, sbattendo al minimo soffio di vento.

«Ormai è più di un anno che nessuno viene a farci visita», sento che qualcuno mi sussurra. Neppure il lattaio, che dai vicini lascia il latte all’ingresso. Neppure il giornalaio, che dalla bicicletta lancia i giornali davanti alla porta, ogni mattina. Non viene nemmeno il postino. E non si fermano neppure più gli spazzini, che saltano giù dai loro camion nel giardino, vanno nel retro della casa, e portano via la spazzatura (gli spazzini – anche se sembra incredibile – da quelle parti indossano dei cappelli che sembrano quello dell’Olandese Volante dell’omonima opera. Chissà perché?). «Da un anno, nessuno chiede più se siano vivi». Del resto, nessuno chiede più nulla neppure sul conto dei polacchi, che si sono battuti in tutta Europa per il loro Paese, certo, ma anche per l’Inghilterra. La simpatia nei loro confronti è stata uccisa qui, in questo strano mondo, perché sono molto numerosi. Sono arrivati in massa. Ce ne sono davvero tanti. Ed è ormai evidente che hanno intenzione di rimanere per sempre, a togliere il pane agli inglesi.

 

Gli dico per calmarlo che esagera e che, fino a un certo punto, tutto questo è comprensibile. La gente sa che loro, gli stranieri, sono venuti qui durante una guerra che ha portato devastazione in tutto il mondo. Ma la gente si domanda: «Che fare di loro, adesso?». Il compito degli inglesi, ora, è insegnare loro i benefici della pace. Far sì che quei soldati e senzatetto si trasformino in utili membri della società. In muratori, ciabattini, conciatori, falegnami, fabbri, minatori, facchini, macellai, infermieri (soprattutto infermieri per i manicomi, perché in questi ospedali gli infermieri scarseggiano).

«Vot čudnyj metamorfoz. Che strana metamorfosi», sento qualcuno gridare, nell’oscurità.

Del resto Londra era un po’ la calamita d’Europa… Attirava sempre di più masse di emigrati e di infelici e questo, in quelle isole di tranquillità e di pace, aveva provocato sconcerto e subbuglio, accompagnato da risa e da odio, da grida e da lacrime. I cosiddetti profughi erano stupiti e fissavano gli altri quattordici milioni di persone, senza sapere cosa pensare. Si chiedevano che disgrazia fosse capitata loro, dopo la guerra. Si incontravano sottoterra con gli occhi sgranati, alla ricerca di un conoscente, in mezzo a un milione di persone che, stupite, li seguivano con lo sguardo. Quel carosello cessava solo il settimo giorno della settimana, il giorno di riposo. Allora suonavano le campane di Londra, e si spandevano i rintocchi dai campanili: perché Dio è aiuto e conforto all’essere umano. La Guardia reale, rossa, con i colbacchi d’orso, attraversava Londra a passo di marcia, al suono della fanfara, tra due ali di profughi che correvano a vedere. Alle sei del pomeriggio, non prima, i pub aprivano le porte, e folle di inglesi vi entravano, di continuo, ogni giorno, per bere, in fretta, birra a volontà. Nella birra c’è conforto. La cosa peggiore, tuttavia, era che a Londra, quei due mondi si erano incontrati in silenzio. Da una parte, gli inglesi tornavano a Londra dalla guerra con allegria, perché il loro non era un ritorno di scheletri umani, né di disgraziati con le stampelle, senza gambe e senza braccia. Ce n’erano, ma di più fra coloro che erano rimasti negli scantinati, durante la guerra, fra le macerie, le case bruciate, le fabbriche e i quartieri operai dell’East London. Quelli che erano andati lontano, in uniforme, erano tornati più felici di coloro che erano tornati da quell’altra guerra, la Prima (del resto, anche se non fossero stati più felici, non ne avrebbero parlato comunque, perché gli inglesi sanno tacere sulle loro sventure). I profughi, invece, correvano a vedere i Re, a vedere le chiese, i palazzi, entravano nelle fabbriche, e tornavano la sera, nei lontani sobborghi, per poi ingombrare, il giorno seguente, i corridoi dei vari uffici di collocamento, dove cercavano un impiego. Parlavano certe lingue strane che nessuno a Londra comprendeva, avevano certi nomi strani che nessuno riusciva a pronunciare. E arrivavano, continuavano ad arrivare, sempre più numerosi, a migliaia e migliaia. Centinaia di migliaia. E con loro, nell’ultimo anno di guerra, era arrivato anche quello strano, terribile, inverno, che durava da mesi.

La gente di Mill Hill, come quelli degli altri sobborghi di Londra, è tranquilla, taciturna e modesta. Una volta tornata dal lavoro, va a dormire presto, e non chiede conforto, a nessuno (sono vuote anche le chiese). Se in casa si trova un po’ di pesce e di patate, a patto che ci sia, e oltre a questo, del tè, quella gente si siede, soddisfatta, a cenare. Quelle case, quei pollai, quelle piccionaie, sono tutti uguali. Alle nove si ascolta il radiogiornale, poi viene intonato l’Inno inglese. E poi si sale al primo piano, a dormire. Mariti e mogli giacciono sul letto, tranquilli, uno accanto all’altra, come giaceranno nella tomba. «Non è bene – gli dice – che non abbia stretto amicizia con i suoi vicini. Sono brave persone. Sono brave donne». Un tempo, nella vecchia, spavalda Inghilterra, le persone si distinguevano dal numero di bottiglie che si scolavano, regolarmente, ogni giorno. Li definivano: da una bottiglia, da due bottiglie, da tre bottiglie. Ora, invece, in ogni famiglia, ciascuno era conosciuto per il numero di tazze di tè che prendeva. Con o senza zucchero (a quel tempo, a Londra, lo zucchero era una rarità e ancor più rari erano il latte e il carbone).

Quell’inverno, quando ha inizio la nostra storia, cominciò lo scontro tra due mondi e lo scontro tra un uomo e un’immensa città, di quattro, otto, quattordici milioni di abitanti. A quell’uomo gli inglesi volevano insegnare ciò che gli occorreva e ciò che non gli occorreva. Ciò che nella vita umana ha un senso e ciò che invece non ce l’ha. Cercavano di dimostrare a quegli infelici che tutto sarebbe andato per il meglio, quando i loro figli si fossero trasformati in inglesi, su quelle isole. E quegli espatriati guardavano, con gli occhi sbarrati, in lontananza, dove, come in una nebbia, scomparivano fra le lacrime i volti di coloro che gli erano stati cari, e che – lo sapevano – non avrebbero rivisto mai più. Nikogda. Mai.

 

I volti delle madri, delle mogli, dei figli.

Dov’era in Inghilterra la piacevole vita di società, di cui gli avevano parlato durante il corso di rieducazione? Dov’era la felicità? «Neokončennaja fan- tasmagorija. Un’infinita fantasmagoria», mormorava qualcuno, voltandosi, quando, con il battente, aveva iniziato a colpire la porta e a chiamare con voce roca: «Nadja, Nadja!».

È con quel bussare alla porta che inizia il prossimo capitolo di questa storia. Sarà il racconto non solo di quell’uomo a Londra, e di sua moglie, non solo del loro amore, ma anche di tutti gli altri russi che erano giunti a Londra, prima di loro, molti anni prima. Erano tutte persone “espatriate”. Tuttavia, questa non sarà una storia solo su di loro, ma anche su quelle moltitudini che al mattino sono trasportate, come sardine in scatola, al lavoro a Londra, e che la sera da Londra tornano, dando a Londra le spalle. E soprattutto su quell’immensa città, il cui abbraccio è stato mortale per tanti uomini e donne, che guarda ogni cosa in silenzio come una gigantesca Sfinge, che ascolta un passante dopo l’altro chiederle: «Dov’è la felicità?». Che senso ha questo entrare e questo uscire, in solitudine o in massa, di questi passanti, di questi quattro, otto, quattordici milioni di anime?

 

[Immagine: David Granick, Whitechapel Road, 1965].

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