[E’ uscito da poco in libreria Materialismo radicale. Itinerari etici per cyborg e cattive ragazze, di Rosi Braidotti (traduzione di Angela Balzano), edito da Meltemi. Pubblichiamo l’introduzione al libro, firmata da Rosi Braidotti e Angela Balzano].
Introduzione
di Rosi Braidotti e Angela Balzano
Questo libro aspira ad aprire orizzonti di pensiero, esplorando da diverse collocazioni le filosofie e le pratiche politiche affermative. Seguendo molteplici intinerari etici – dallo spinozismo critico che anima le filosofie dell’immanenza radicale (Foucault, Deuleze e Guattari) alle teorie femministe – esso vuole mostrare in che modo l’etica affermativa possa rappresentare un’inesauribile risorsa per il pensiero critico e la prassi politica.+
Nei momenti storici in cui si impongono le asfissianti retoriche della politica dell’emergenza e si diffondono passioni negative come la paura, diventa oltremodo facile instaurare uno stato di crisi e guerra globali e permanenti. Lo abbiamo visto a partire dagli Stati Uniti all’alba del Terzo millennio. Oggi, con diversa sceneggiatura e diversi protagonisti, un film simile è proiettato in Europa e altrove nel mondo. I media ci restituiscono immagini di corpi a pezzi e città ridotte a ruderi, i news feeds ci propongono una serie infinita di cadaveri galleggianti e di campi profughi dilaganti, mentre i politici promettono sicurezza e i tecnocrati dispensano dispositivi di controllo sempre più pervasivi.
L’atomizzazione sociale tipica del capitalismo avanzato è acuita dai veloci e molteplici sviluppi delle bio-info-tecnologie, così come la sua struttura violenta ne risulta amplificata. Le promesse di perfezione prostatica fatte dalla tecnocultura occidentale vanno passate al vaglio di una lucida critica. È arrivato il momento di ribadire fermamente che i bianchi corpi high-tech non valgono più dei corpi dei migranti che l’Europa respinge cinicamente. La diffusione dei dispositivi necropolitici di controllo (Mbembe 2016) è oggi più che mai evidente su scala globale: da Nizza a Bagdad, da Instabul a Bruxelles assistiamo a una vera e propria proliferazione non solo dei meccanismi di sorveglianza e di controllo, ma anche delle violenze, che elevano i lutti a livello di norma quotidiana (Butler 2015). La presenza materiale oltre che visiva di tali dispositivi si esplica sia nell’immaginario proto-pornografico del divenire-cadavere di gente e luoghi cioè della morte veicolato sui media mainstream e sui social – sia nello spazio già civico ed ora incivile – cioè nelle metropolitane e nelle strade, nei luoghi pubblici sempre più militarizzati in cui siamo costrette/i a muoverci.
L’immaginario sociale sembra avvelenato – ed è bene ricordare che quella del veleno è l’immagine prescelta da Spinoza per definire il male nel suo versante sociale di violenza e negatività. I nemici – poco importa se siano nati in occidente, se siano membri organizzati di gerarchie terroristiche o singoli non appartenenti a nessun gruppo – sono sempre ascritti alla matrice neofondamentalista islamica, l’attentato è sempre spiegato nei termini dello “scontro di civiltà”. Tuttavia, il neofondamentalismo ha purtroppo molteplici declinazioni, compresa una notevole componente occidentale di radice cristiana (Cooper 2013). Già dagli anni Novanta, agli albori delle teorie sul soggetto nomade (Braidotti 1995), veniva ribadita l’importanza di criticare gli essenzialismi culturali, i miti eterni della patria e degli eroi. Già allora era urgente, infatti, ripensare l’estraneità, l’ibridazione, i nomadismi e le creolizzazioni. Criticare le falsità dell’attuale scena politica, malata di carrierismo e di moralismo interessato, serve a ribadire la dignità e l’intelligenza di coloro che non esitano a mettersi dalla parte del torto, dalla parte minoritaria – delle/i profughe/i, delle/i clandestine/i, di quelle/i che passano, o cercano di passare, puntando altrove. Dicotomizzare il dibattito, opponendo allo straniero violento l’europeo (e/o l’occidentale) civilizzatore, non ci aiuterà di certo a costruire un pianeta in cui la libertà di circolazione sia diritto di tutte/i, e non solo la caratteristica di merci, dati, capitali e mega-bytes informatici. Immaginare un mondo in cui ogni soggetto sia libero di muoversi e di esprimersi è la sola maniera di garantire i diritti di base e quindi la libertà di tutte/i. Certo che, nel clima di paranoia diffusa nel quale viviamo, le fonti d’ansia si moltiplicano: passiamo da una crisi – economica, finanziaria, sociale, politica, diplomatica – all’altra. Le guerre non solo aumentano, ma sembrano cambiare formato: da una parte si fanno postumane con i droni e le tecnologie d’assalto, dall’altra regrediscono a tempi passati – sembra di esser tornate in Guerra fredda, e dunque il calore accecante del nucleare comincia di nuovo a crepitare. La condizione detta dell’Antropocene, cioè il riscaldamento del clima e la crisi ecologica del nostro pianeta, ci porta a dover pensare l’estinzione in termini molto più prossimi ed intimi di quelli a cui ci eravamo abituati nell’era atomica. In un effetto di paradossale dilatazione dello spazio e del tempo, tutto si avvicina, ma diventa allo stesso tempo più remoto e alieno. Si sente sempre più spesso ribadire la necessità di ricomporre un senso comune di umanità – per esempio nei discorsi e nelle pratiche umanitarie, o nell’ethos aziendale della globalizzazione responsabile – ma in realtà le fratture interne e i divari socio-economici – sia fra le/gli umane/i che tra le/gli umane/i e i non-umani – sono più profondi che mai. L’attentato inatteso, la crisi finanziaria, il bombardamento aereo o l’epidemia che colpiscono chiunque e dovunque, hanno la precipua funzione di indurre tutte/i a sentirsi immediatemente vulnerabili e in quanto tali bisognose/i di tutele. Si compie quindi la frettolosa creazione di un “noi” generico, un’umanità riunita nella paura e nella vulnerabilità (Braidotti e Gilroy 2016).
Lo stesso occidente si fa paladino del femminismo e dei diritti civili solo davanti all’aumentare dei femminicidi, o all’indomani di una strage come quella di Orlando in Florida o in nome di guerre neocolonialiste da condurre altrove.
Proliferano all’interno dello stesso mondo forze neofondamentaliste foriere di altrettante violenze e di più sottili meccanismi di esclusione e interdizione, articolati intorno ai nodi dell’etnicità e della “bianchezza”, della giovinezza e della magrezza, della salute e dell’abilità corporea, del corpo e della sessualità, per nominare solo le assi più visibili di un fenomeno che si contraddistingue per la sua complessità.
Il populismo di Trump e Johnson è la forma palese di manipolazione che oggi incarna purtroppo queste tendenze. Siamo nel regime politico della “postverità”, alimentato da passioni negative quali risentimento, odio e cinismo. Riteniamo che il compito dei docenti risieda nel combattere con gli strumenti critici del pensiero, dell’insegnamento, ma anche della resistenza politica: non solo nelle aule, ma nella sfera pubblica. In quanto filosofe crediamo necessario portare avanti una critica dei limiti della democrazia rappresentativa, a partire dallo spinozismo critico e dall’esperienza storica dei femminismi. Non possiamo fermarci all’antagonismo, non è sufficiente la fede nella dialettica della storia, dobbiamo elaborare una politica dell’immanenza e dell’affermazione, che richiede cartografie politiche precise dei rapporti di potere dai quali siamo attraversate/i. Dopo la disfatta del femminismo liberale di Hillary Clinton negli USA, abbiamo bisogno di ri-radicalizzare in primis noi stesse/i.
Già da decenni i dibattiti postcoloniali e quelli sulla razza hanno eroso il privilegio dei bianchi e delle altre gerarchie razziste scuotendo dalle fondamenta il tacito consenso intorno a cosa costituisca l’essenza di un soggetto umano (Gilroy 2000; Hill Collins 1991). Come ci insegnano gli studi femministi e di genere, le ricerche postcoloniali ed anti-razziste, è chiaro che non tutte/i siamo vulnerabili allo stesso modo: tutte le persone non bianche, le donne e le soggettività LGBTQ sanno da sempre quanto sono esposte al cinismo di ogni sorta di fondamentalismo, razzismo e conservatorismo. Pur registrando l’acuirsi dei discorsi razzisti ed eteronormativi, vogliamo innanzi tutto contestare tutte le ricomposizioni affannose di una nuova “umanità” unita solo nella vulnerabilità e nella paura. Non possiamo dimenticare lo stretto legame esistente tra l’economia politica neoliberale, la moltitudine di discorsi e pratiche di esclusione, marginalizzazione ed eliminazione di strati interi della popolazione umana e la devastazione degli agenti non-umani e del pianeta nella sua sostenibilità stessa. La risposta e la reazione a questi fenomeni, passa attraverso la composizione collettiva di pratiche collegate all’etica dell’affermazione di alternative condivise, situate ed applicabili. Quello delle passioni negative non è il linguaggio preferito dell’etica affermativa che qui proponiamo come antidoto all’avvelenamento dei nostri legami sociali. Ci ritorneremo.
Oltre l’uomo e la natura: verso le pratiche e le teorie femministe
Vorremo iniziare la composizione di alternative situate ponendo l’accento sulle ricadute materiali del neofondamentalismo nostrano, fornendo alcuni esempi per essere più chiare. Secondo le statistiche raccolte dalla Federazione Nazionale Aborto (NAF) dal 1977 a oggi, negli Stati Uniti e in Canada ci sono stati 17 tentati omicidi, 383 minacce di morte, 11 morti, 13 feriti, 100 attacchi con l’acido, 373 invasioni fisiche, 41 attacchi con bombe commessi contro le cliniche che offrono servizi legati ai diritti riproduttivi. Non si contano ovviamente gli atti vandalici e i cortei violenti dei pro-life [1]. Tra gli attentati di matrice neofondamentalista cristiana quello avvenuto il 27 novembre 2015 è emblematico: un uomo armato ha attaccato una clinica Planned Parenthood di pianificazione familiare a Colorado Springs, uccidendo tre persone e ferendone altre nove, per poi dichiarare, durante il processo, di aver agito per difendere il “non-nato” [2].
Ora torniamo in Europa: non abbiamo certo la violenza nord-americana, ma non ci manca l’estremismo, anche perché è stato importato da una campagna ben coordinata dai fondamentalisti cristiani. Pensiamo all’Irlanda dove, nonostante la vittoria determinata dalle femministe al referendum, ancora si attende la legalizzazione dell’aborto, pensiamo alle proposte di legge che ieri in Spagna e oggi in Polonia attentano alle libertà riproduttive di tutte/i negando il diritto all’interruzione volontaria di gravidanza. Pensiamo all’Italia e al dilagare dell’obiezione di coscienza, al fatto che l’accesso alle nuove tecniche di fecondazione assistitita è ancora negato a single, lesbiche e gay (Balzano e Flamigni 2015).
E con la mente a questi esempi ci chiediamo: che senso hanno le nuove tecnologie se non rappresentano strumenti di liberazione soggettiva e al contempo cooperativa? Che significa affermare che tecnologie della vita e nuovi media sono dispositivi normativi ed economici biopolitici?
Lo spiazzamento dell’antropocentrismo viene perseguito dal capitalismo avanzato in forme perverse (in quanto “illusorie e alienanti”) grazie alle sue estese reti tecno-scientifiche. Il convergere di diverse, e in passato ben distinte, branche della tecnologia, in particolare nanotecnologie, biotecnologie, tecnologie dell’informazione e scienze cognitive, porta alla stessa problematizzazione dei tradizionali modi di concettualizzare l’umano. Il capitalismo contemporaneo ha una struttura biogenetica, per questo invita a investire sulla “Vita” intesa come sistema informazionale. L’intervento biotecnologico su animali, semi, cellule e piante, la ricerca sulle cellule staminali in ambito umano e non solo, ha in parte determinato l’acuirsi del controllo scientifico ed economico e della mercificazione di tutto il vivente. Siamo quindi convinte che, in forme paradossali e piuttosto opportuniste, il capitalismo assuma oggi le sembianze di un postantropocentrismo a vantaggio delle forze di mercato che impunemente privatizzano la vita stessa (Rose 2008; Braidotti 2014b).
Contraddizione delle contraddizioni, sembrerebbe esservi un assunto in comune tra il postantropocentrismo economico e quello critico. In entrambe le prospettive la vita, invece di essere intesa come proprietà qualificante una sola specie, quella umana, su tutte le altre, invece di essere santificata come un assunto predeterminato, si afferma in quanto transpecie e non-umana. Una sorta di democratizzazione degli organismi è in corso: un egalitarianismo bio/zoe/geo-centrato (Ansell-Pearson 1999) che apre a possibilità produttive in termini di relazioni, alleanze e specificazione reciproca (Protevi 2013; Braidotti 2014a).
Proprio in quanto consapevoli dei rischi insiti nella declinazione neoliberista del postantropocentrismo, ritieniamo ancora doveroso tentare una critica dell’economia politica del capitalismo avanzato, a partire dagli strumenti proposti da Deleuze e Guattari nella loro anatomia politica del capitalismo come schizofrenia. Il valore del capitale risiede oggi nella sua prepotenza assiomatica – cioè nel fatto che non si ritiene in dovere di fornire alcuna spiegazione per il suo modo di funzionare. Il capitale che conta davvero si fonda sulla potenza informativa della materia vivente in sé. La capitalizzazione della materia vivente, permessa dall’avvento delle nuove tecnologie, accelera l’articolarsi di una nuova economia politica, che Melinda Cooper (2013) chiama “la vita come plusvalore”. Nella società del rischio mondializzato non ci si limita ad analizzare i rischi di interi sistemi sociali e nazionali, ma ci si spinge fino a analizzare interi settori della popolazione (Beck 1999). Oggi il vero capitale coincide con le banche dati di informazioni, immensi magazzini virtuali in cui vengono stipati affetti e relazioni, dati anagrafici e bio-genetici.
L’economia globale può essere definita postantropocentrica poiché raggruppa tutte le specie sotto l’imperativo del mercato, minacciando con i suoi eccessi la sostenibilità dell’intero nostro pianeta. Questo è il motivo per cui la vulnerabilità si sta affermando come categoria capace di creare legami in grado di modellare la nuova “panumanità”. Le teorie femministe, postcoloniali e della razza (Eisenstein 1998; Vandana 1999; Chakrabarty 2009) hanno colto subito la necessità di denunciare la natura ipocrita di tale precipitosa ricomposizione di un legame pan-umano basato sul timore condiviso dell’estinzione. Esse hanno riportato le relazioni di potere alla crisi del cambiamento climatico e ambientale (Nixon 2011).
Assumiamo qui la chiave di lettura delle filosofie dell’immanenza radicale, del materialismo vitalista e della politica femminista della collocazione: prendere il volo verso un’idea astratta di “umanità” risulterebbe del tutto inutile. Potrebbe essere più produttivo redigere cartografie incarnate e incorporate, relazionali e affettive, dei rapporti di potere che informano l’attuale ordine geo-politico.
Classe, razza, genere e orientamento sessuale, età e abilità fisica sono qualcosa di più di semplici “attributi” della “normalità”. Sono le chiavi per accedere a quella cosa che chiamiamo “umanità”. In questo momento ci sono diversi e in potenza contraddittori progetti in gioco nella ricomposizione dell’“umanità”. Stando alle indicazioni che ci ha lasciato in eredità Foucault nel 1976, la biopolitica è al contempo produzione e gestione del vivente umano, vale a dire che si esplica seguendo le due direttrici fondamentali di bios e tanatos. Il 1976 è un anno molto importante per comprendere l’intera traiettoria del pensiero di Foucault. È l’anno in cui, con la pubblicazione del primo volume della Storia della sessualità, La volontà di sapere, e il corso al Collège de France Bisogna difendere la società Foucault propone la sua particolare accezione dei termini biopolitica e biopotere, griglie interpretative atte a leggere i mutamenti del potere dalla fine del XIX sec. in poi. Collegando il corso Bisogna difendere la società al libro La volontà di sapere, notiamo come la concettualizzazione della biopolitica in Foucault avviene in modo parallelo e complementare. In Bisogna difendere la società Foucault parte dall’analisi della teoria giuridica della sovranità per arrivare al potere disciplinare, passando per il problema della guerra e chiedendosi soprattutto come si esercita il potere di morte ai tempi del controllo del biologico. In La volontà di sapere parte dalla messa a tema della sessualità, dei dispositivi che la normano e la producono. Oggi risulta ancora dirimente adottare il suo stesso approccio, continuare a chiedere: in che modo vengono esercitati il diritto di uccidere e la funzione omicidiale, all’interno di una tecnologia di potere che ha come oggetto e come obiettivo la vita? Se è vero che il fine delle biopolitiche governamentali occidentali è quello di potenziare la vita, di prolungarne la durata, di moltiplicarne le probabilità, come è possibile che un potere siffatto uccida, esponga alla morte non solo i suoi nemici ma persino le/i sue/suoi stesse/i cittadine/i?
Se seguiamo ancora i suggerimenti del Foucault di Bisogna difedere la società, il razzismo rimane l’unica via di accesso al potere sovrano di uccidere, punto di partenza per l’articolazione di ogni dispositivo o discorso necropolitico. Grazie al razzismo è stato possibile introdurre una separazione tra ciò che deve vivere e ciò che deve morire. La prima funzione del razzismo è frammentare, istituire delle censure all’interno di quel continuum biologico che il biopotere investe. Per Foucault, la seconda funzione del razzismo è evidente nel nazismo e nel fascismo: “Se vuoi vivere occorre che tu uccida”. La morte delle razze inferiori è ciò che rende la vita più sana. Le attuali politiche e le retoriche dell’esclusione, dei respingimenti e dei campi di identificazione e esplusione di migranti e richiedenti asilo ci ricordano, purtroppo, che la posta in gioco non è solo militare, ma anche biologica. Il razzismo è quindi legato al funzionamento di una governamentalità che è obbligata a servirsi della razza per esercitare il suo potere sovrano. Per continuare a esercitarsi il vecchio potere sovrano del diritto di morte si serve dell’attivazione di ogni tipo di discorso e dispositivo razzista, senza per questo entrare in contraddizione con il reciproco svilupparsi della razionalità neoliberista e delle tecnologie del biopotere. La popolazione è diventata oggetto della ragion di stato già dal XVIII sec. (Foucault spiega il ruolo che hanno giocato la polizia e la statistica per la regolazione delle popolazioni nel suo corso Sicurezza Territorio Popolazione 2005b). Nel XIX e nel XX secolo è cambiato lo scenario globale e per regolamentare il “corpo massa” della popolazione bisognava trovare dei dispositivi “individualizzanti”. Nel XIX sec. la risposta la si trovò nella congiuntura tra scienze mediche e scienze umane (si prenda ad esempio la psicanalisi, Deleuze e Guattari 1975). Dal XX sec. in poi è stato necessario trasformare la popolazione in capitale umano, trattare la vita umana in sé come fonte di plusvalore e non solo come potenziale forza lavoro (si veda sempre Foucault: Nascita della Biopolitica 2005a).
Tuttavia il biopotere non è rimasto uguale a se stesso, ha scavato a fondo dentro l’umano e ora estende tecnologie e dispositivi di controllo e produzione ben oltre i confini della nostra specie, diventando anche zoepotere (Braidotti 2008). Così, siamo già un passo oltre Foucault: il nodo fondamentale per divenire oggetto di controllo e valorizzazione non è più solo la classica appartenenza alla specie umana. Il biocapitale ha il volto postumano delle femmine delle specie (Balzano 2015). Nei mercati globali dei futures, oltre che sul bios, si specula oggi su zoe (Braidotti 2014b): l’andamento non lineare del capitalismo avanzato tende ad appropriarsene in nome dell’autoperpetuazione del profitto e dello sfruttamento. Fluidi, tessuti e cellule, estratti dalle più svariate forme di vita, producono profitto e normazione. Le forme che assume oggi il lavoro riproduttivo eccedono le canoniche fuzioni domestiche della cura: la riproduzione esce dalle case per entrare nelle cliniche, nei laboratori, nei centri di ricerca. I corpi, umani e non, vengono segmentati e parcellizati, diventano materia biologica alla base di mercati transnazionali. Nonostante ciò, noi riteniamo che non ci sia alcuna necessità di voltare le spalle alla scienza nella sua totalità o di condannarla come impresa umana: bisogna solo saper adottare una prospettiva critica e non assumere atteggiamenti ideologicamente tecnoutopisti o in alternativa reazionari. Scienze naturali e informatica hanno assunto un ruolo di autorità senza precedenti nella vita occidentale del XX sec.
Eppure, per noi, questa non è una constatazione da assumere acriticamente, senza chiedersi grazie a quali rapporti di forza e in quali relazioni di potere le bio-infotecnologie si sono sviluppate. Queste domande sono diventate ineludibili grazie alla pressione dei movimenti femministi ed ecologisti, che hanno intravisto nella scienza e nella tecnologica siti privilegiati di assoggettamento e devastazione ambientale. Le scienze sono neutrali in relazione a problemi e valori sociali? O piuttosto esse si sviluppano grazie ad un’interazione più stretta con il loro contesto storico e culturale? Già negli anni Ottanta molte teoriche femministe ponevano interrogativi simili, tentando sempre di non rinunciare alle possibilità di cambiamento aperte dagli sviluppi scientifici:
Una direzione che si apre alla ricerca femminista è quella di mirare a una sintesi di natura e cultura che da un lato non distrugga la natura e dall’altro non porti ad un rifiuto totale della tecnologia (Rothschild, 1986, p. 66).
Grazie al contributo delle epistemologie femministe e materialiste possiamo oggi serenamente affermare che i tradizionali concetti di natura e cultura non si trovano più impegnati in una dialettica costante, ma si sviluppano reciprocamente. Come capiremo nel corso del libro, un apporto fondamentale in questa direzione è stato quello di Donna Haraway, la quale abilmente sintetizza nei concetti di tecnoscienza e naturacultura questa rottura epocale. Haraway, nel ricordarci che l’accesso al progresso scientifico non è garantito a tutte/i a livello globale, ci esorta a non accettare con rassegnazione il fatto che solo ad alcuni soggetti sia riservato l’esercizio pieno dei propri diritti, mentre altre/i vengono discriminate/i. La presenza di così elevati livelli di mediazione bio-info-tecnologica, non garantisce, in sé, più autonomia e più libertà. Vi sono ancora ampi ambiti delle nostre vite che potrebbero trarre beneficio dalle nuove tecnologie ma che rimangono bloccati tra frontiere, normative proibitive e mercati dai prezzi spropositati (Balzano 2016; Cooper e Waldby 2015). Per sbloccarli, occorre innescare percorsi collettivi e condivisi di riappropriazione della scienza. Questa consapevolezza accompagna pratiche e teorie femministe attraverso le generazioni:
Se c’è infatti una cosa che insegna il movimento delle donne è che non ci possono essere soluzioni individuali a problemi collettivi. Una trasformazione in senso femminista del pensiero tecnologico deve includere la demistificazione dei vecchi miti della tecnologia come minaccia o trionfo e il ripensamento della retorica che li accompagna (Gee Bush 1986, p. 241).
Proprio in quanto situate nel bel mezzo del clamore tecnopolitico e della retorica paranoico-securitaria ci chiediamo: è ancora possibile immaginare pratiche e teorie politiche affermative, capaci di diffondere alternative sostenibili e orizzonti sociali di speranza e di resistenza? Che strumenti abbiamo per non consegnarci al nichilismo, per non arrenderci all’individualismo, per non chiuderci in noi stesse/i rifiutando l’altra/o? Ancora: cosa i nostri corpi sono in grado di sopportare/sostenere al tempo dell’alleanza tra neoliberismo e nuove tecnologie? In che misura scienza e tecnologia aprono spazi per l’alternativa, per la creazione di nuovi comportamenti etici, nuove pratiche politiche?
I saggi raccolti nella prima parte del libro cercano, in modi diversi, di rispondere a questi interrogativi. Qui, seguendo un approccio cartografico, l’attenzione è rivolta alle pratiche politiche, socio-culturali e artistiche trasformative sviluppate dai nuovi femminismi, tentando di tracciare i posizionamenti più interessanti per chi intende confrontarsi con i cambiamenti in corso senza cedere a nessuna morale universalistica. La seconda parte, adottando un approccio più critico-genealogico, è un tentativo di delineare una vera e propria etica politica, una cornice concettuale in grado sia di catalizzare sia di sostenere le istanze trasformative che attraversano il presente. In particolare si prova qui a rispondere alle domande: quali sono gli itinerari etici che possono condurci a elaborare una politica affermativa che sia anche una politica dell’affinità e della relazione con l’alterità macchinica e non-umana? In che misura è possibile pensare e agire un’etica materialista che esalti le soggettività nomadi e libere, dunque le loro differenze, in quanto capaci di sostenere nuovi modelli di partecipazione e azione politica condivisa e situata?
Il filo rosso che lega prima e seconda parte del volume è l’esigenza stessa di tornare a pensare il corpo nella sua radicale materialità, nella sua immanenza, nella sua sostenibilità e complicità con i regimi tecnologici. Abbiamo dalla nostra potenti etiche politiche: da Spinoza a Donna Haraway, da Foucault a Deleuze. Soprattutto abbiamo pratiche all’altezza della sfida: dalle Riot Grrrls alle Pussy Riot, passando per le cyborg-ecofemministe e le attiviste antirazziste e antispeciste, innumerevoli irriverenti e cattive ragazze rivendicano autodeterminazione, creano nuovi immaginari e nuove forme di affettività. Muse ispiratrici per modelli di soggettività alternativi a quelli costruiti sull’isolamento, queste cattive ragazze ci insegnano che le modalità di resistenza alle violenze e alle contraddizioni del presente viaggiano di pari passo alla creazione di stili di vita in grado di sostenere i desideri di giustizia sociale e trasformazione.
Itinerari etici: il punto di partenza
Per amare devo amare un’anima. Può un’anima esistere senza un corpo? Lo stato fisico è separato da quello mentale? La mente è il corpo.
Kathy Acker, Don Chisciotte
La storia della filosofia non è interamente segnata dalla tradizione dualista e dialettica: al cuore stesso della modernità si situa uno dei pensatori più efficaci del monismo materialista, Baruch Spinoza. Con lui la filosofia materialista diviene propriamente etica, la questione della soggettività incarnata si pone in maniera dirompente, l’esigenza di democrazia è espressa in modo gioioso. L’Etica di Spinoza rappresenta una forte ipotesi teorico-pratica in grado di funzionare come alternativa alla morale, senza per questo farci ricadere nello scetticismo o nel relativismo. Spinoza delinea la sua etica pratica come desiderio di vita in comune tra le soggettività, che proprio dalla cooperazione tra loro traggono gli elementi che accrescono la loro potenza e la loro autonomia singolare, contribuendo così ad aumentare la felicità collettiva. Questo libro intende pertanto ribadire che il pensiero critico materialista non può essere ricostruito come un susseguirsi ininterrotto di pars destruens. Una nuova traccia materialista, nomade e pluricollocata, attesta l’esistenza di una attiva pars costruens (Braidotti 2008). Molte/i pensatrici/ori hanno avvertito la necessità di indossare le lenti materialiste del modesto ottico olandese per meglio riconoscere la potenza e le specifiche differenze di ogni corpo, ma soprattutto per individuare le zone di contatto e relazione che intercorrono tra i nostri corpi e il mondo intero. Spinoza innova il materialismo non solo perché lo riporta al monismo, la sostanza che è unica pur esprimendosi in attributi differenti, ma soprattutto perché collega, lo si evince dai vari strati di composizione dell’Etica, la potenza conoscitiva, immaginativa e affettiva umana alla potenza della soggettività tutta, intesa come co-implicazione di materia e forma.
Il primo aspetto del pensiero di Spinoza che va sottolineato è il monismo, proprio perché pensa l’unicità della sostanza, come l’unico essere capace di autocontenersi, e spiega l’esistenza della mente e del corpo non come due sostanze separate, ma come due attributi della medesima sostanza. Non vi è dunque spazio nell’Etica di Spinoza per il privilegio accordato da Cartesio alla mente, dal momento che la mente è solo un modo e che per giunta si trova a condividere lo stesso statuto di modo con il corpo. Non esiste nel suo pensiero qualcosa di simile a una sostanza individuale, eppure, sottolinea Lloyd, la nostra singolarità incarnata non viene negata, sotto nessuno dei due modi:
Essere un corpo singolare, dal punto di vista di Spinoza, significa essere precisamente parte di più larghi insiemi. E così significa essere inseriti nella totalità che costituisce la singolarità di ogni cosa (1994, p. 11).
Tra ciò che sente il corpo e ciò che pensa la mente vi è dunque una fitta rete di interrelazioni che potremmo definire proporzionali: quanto più il corpo agisce, è causa adeguata dei suoi effetti, tanto più la mente comprende; quanto più il corpo patisce, è causa inadeguata, tanto più la mente erra. La Lloyd si sofferma su questo punto per precisare che la mancanza di comprensione che fa perdere potenza e libertà ha origine, secondo Spinoza, dalla cesura tra l’esistenza della singolarità e quella della totalità, dall’isolamento a causa del quale la singolarità non riesce a vedere i nessi che la legano al tutto e dunque misconosce le vere cause dei propri affetti e delle proprie passioni:
La tendenza a isolare i corpi singolari, il proprio e quello degli altri, dalla totalità è per Spinoza connesso a uno stato di passione distruttiva, di schiavitù […]. L’ignoranza delle cause dei nostri piaceri e dei nostri dolori arreca ossessione. La mente, ostaggio delle passioni, perde molte delle sue capacità di godere di un ampio raggio di attività (1994, p. 29).
Una mente che riesce a capire a pieno il proprio corpo è invece capace di godere di quell’ampio raggio di attività. Le suggestioni per una nuova etica delle soggettività incarnate non tardano ad arrivare, e la prima è che una singolarità così concepita sa aprirsi all’interazione senza soccombervi.
Sul rapporto conoscenza/potenza di agire della mente Deleuze sembra concordare con quanto sostenuto da Lloyd: fin tanto che non riusciremo a comprendere la natura dei nostri affetti, fin tanto che non sapremo valutare correttamente i nostri incontri, allora la nostra potenza non aumenterà.
La potenza non si esaurisce, infatti, in un atto volontaristico e decisionista, non è qualcosa che ci proponiamo di ottenere e che conseguiamo solo a patto di comportaci conformemente a un’idea superiore, piuttosto noi abbiamo un “tot di potenza”, abbiamo la possibilità di farla aumentare e di farla durare nel tempo e solo in proporzione a essa siamo in grado di esprimere delle singole volizioni:
Gli enti non vengono più definiti secondo l’essenza, ma secondo la potenza: potranno averne di più o di meno e questo determinerà la portata dei diritti esigibili. Diritto significa potenza (Deleuze 2007, p. 84).
Una conferma di ciò si trova nella Prefazione alla Parte IV dell’Etica, dove Spinoza prima ricorda che l’origine dell’errore umano sta nella sopravvalutazione delle cause finali, poi anticipa che la causa finale è la stessa potenza di durare, lo stesso desiderio, considerato come causa primaria e immanente, e che pertanto bene e male sono soltanto modi del pensare, nozioni che formiamo nel confrontare le cose singole.
Bisogna che apprendiamo cosa possono i nostri corpi per renderli più potenti, ovvero la loro capacità di essere affetti, il loro grado di intensità. Deleuze arriva perfino a dire che questa è la questione più urgente da dirimere, perché ci permetterebbe di riappropriarci di gran parte del sapere tramite la scrittura di mappe di affetti, cosa che avrebbe il pregio di evitare al contempo antropocentrismo, fallologocentrismo e individualismo. Nello stendere queste mappe va sempre ricordato che il potere di essere affetti, il nostro grado di intensità, può connotarsi positivamente e negativamente. Come accennavamo, non tutte le singolarità e non tutti gli incontri sono uguali. Alcuni incontri saranno più fruttuosi per alcune singolarità, altri meno, e nostro compito, grazie al secondo e al terzo genere di conoscenza, sarà capire il perché, studiare la combinazione di corpi che è all’origine dell’affetto. L’affetto sarà pertanto sia la crescita sia la decrescita della potenza. Proprio per questo Deleuze può affermare senza errore, anche se Spinoza non ha mai impiegato tale termine, che l’affetto è una variazione perenne, di cui bisogna cercare di formare almeno delle idee-nozioni, ovvero delle idee adeguate alla conoscenza della causa. Tali idee adeguate sono per natura comuni a più corpi e si formano solo quando più corpi sono affetti positivamente. Pertanto abbandonarsi alla tristezza significa anche abbandonarsi all’ignoranza, poiché tra corpi tristi è quasi impossibile si formino nozioni comuni:
“Spinoza ci rivela una cosa molto semplice: la tristezza non rende mai intelligenti […], per questo i potenti hanno bisogno della tristezza degli assoggettati” (Deleuze 2007, p. 58).
Contro razionalismo, pessimismo e relativismo a Spinoza ci ispiriamo per disegnare un’etica e una politica affermative, perché nella sua filosofia non vi è traccia di metafisiche descrizioni o dialettiche oppositive tra bene e male. Vi sono solo degli affetti, delle idee singolari, dei desideri capaci di causare un aumento o una diminuzione della nostra potenza. Pertanto non vi è un’idea di bene in sé che dovrebbe orientare le azioni o rappresentare il fine di ogni singolarità incarnata, piuttosto vi è qualcosa di utile, che si dice tale solo nel momento in cui aumenta la capacità di agire (e di pensare). E vi è poi qualcosa di più utile ancora, che è l’armonia, questa sì delicata e di difficile realizzazione, tra i conatus delle differenti singolarità incarnate e le cose utili alla vita in comune. In nessun luogo Spinoza invita ad astenersi dall’impegno politico e dalla vita attiva, molto concretamente egli vede che più conosciamo le nostre e le altrui passioni, più siamo in grado di vivere bene con noi stesse/i e con la collettività: tanto semplice perché poco morale. Spinoza non spende pagine a giustificare alcun dover essere che non corrisponderà mai a ciò che è, e scrive con convinzione, lo si legge alla Prop. LXVIII della Parte IV, che se potessimo nascere e rimanere libere/i non formeremmo mai alcuna idea di bene e di male.
Incursioni politiche: l’affermazione
La mente si sforza di immaginare solo quelle cose che pongono la sua potenza di agire.
B. Spinoza, Prop. LIV, Parte III, Ethica more geometrico demonstrata
Nella politica neofemminista dell’affermazione il corpo riveste una nuova e accentuata importanza, perché è nel corpo che è radicata la nostra capacità creatrice e immaginativa, in quanto primo luogo e momento di comprensione/ organizzazione del desiderio. Noi tendiamo a immaginare quello che ci rende autonome/i produttrici/ori di quantità intensive di potenza, ci sforziamo, desideriamo riconoscerci come quelle soggettività che esprimono, in continuità e libertà, livelli sempre unici e irripetibili di potenza. Il nostro fine è il nostro mezzo, in questo senso il conatus è causa immanente, libera, della soggettività, suo processo costituitivo e al contempo tensione costruttiva del mondo in comune alle essenze singolari.
I nostri nessi mente-corpo, grazie all’accumulo di conoscenze ed esperienze, imparano ad allontanare le passioni tristi, a rimpiazzare ogni affetto negativo con uno positivo: l’etica della generosità può guidare le nostre esistenze singolari ma pur sempre interrelate. Senza l’interrelazione, senza quel “tra” deleuziano, la soggettività, non formando nozioni comuni, non potrebbe sapere, non potrebbe cambiare:
La costruzione spinoziana non ha risolto il mondo sistematicamente, ma lo ha in realtà dissolto sistematicamente, per condurlo alla verità dell’azione etica, come affermazione della vita contro la morte, di amore contro l’odio, di felicità contro tristezza, di socialità contro abbrutimento e solitudine (Negri 1995, p. 215).
La via etica è la sola, rivoluzionaria, via d’accesso all’affermazione e all’autodeterminazione. La politica dell’affermazione parte dal presupposto di dover comprendere e accettare la finitudine della volontà umana. L’anomalia di un tale posizionamento politico consiste forse nel fatto che questo riconoscimento del limite causa una passione gioiosa, quasi ci rende migliori, come a dire che più molecolari diventiamo più potenti siamo (Braidotti 2003). La morale non crea e non cambia nulla perché è invenzione mistificatrice che nasconde dietro il soggetto molare – risultato asettico e obbediente di un’operazione dialettica che nulla annette all’essere in termini di potenza e libertà – la soggettività autonoma capace di un’etica sostenibile. L’etica assume solo possibili e sempre contingenti stili di vita in grado di renderci un tantino più felici. Solo a partire da questo più di gioia le soggettività producono un mondo in comune degno di essere vissuto. L’etica è perciò già una politica. Affermare che ogni soggettività è in divenire, cioè capace di variare la potenza dei suoi desideri, significa seguirla nei suoi processi di costituzione trasversali e aperti all’esterno, valorizzarne la multipuntuale e cooperativa attitudine all’agire.
Il conatus si configura così come desiderio della soggettività di cooperare, di connettersi al fine dell’aumento proporzionale delle potenze della singolarità e della collettività, come capacità di durare e resistere nominata al femminile: è la potenza, mai il potere, l’affermazione e mai l’assoggettamento. Il desiderio stesso di vivere all’altezza di ciò di cui siamo capaci ci orienta nella scelta degli stili di vita etici.
Seguendo le coordinate di postrutturalismo e femminismo materialista, ci pare che per leggere l’attualità battendo il suo tempo sia oggi necessario reinventarsi come soggettività nomadi e libere, capaci di autodeterminazione e desiderose di partecipazione politica (Braidotti 2011b). Certo, soggettività nomadi non si nasce, si diventa. Per questo è ancora molto importante la politica del posizionamento, della collocazione: da quale luogo proviene la nostra parola? È una domanda fondamentale. Altrettanto fondamentale è chiedersi: cosa sono diventati, oggi, i nostri corpi? Come pensiamo e conosciamo i nostri corpi al tempo delle biotecnologie e del capitalismo avanzato? La categoria di soggettività nomade (Braidotti 1995, 2008), non quella di soggetto monolitico, è la chiave per la ricerca di una soluzione etica e non relativistica per le nuove sfide che il diverso assetto del biocontrollo ci chiama ad affrontare.
Come soggettività sessuate al femminile non crediamo di essere mai state umane. Certo abbiamo lottato perché riconoscessero la nostra autonomia come soggettività, ma forse non è stato un male non aver mai occupato la posizione privilegiata del maschio bianco della specie umana. Forse questo posizionamento decentrato può oggi tornarci molto utile, perché permette di avvicinare i nostri corpi a tutte/i le/gli altre/i portatrici/ori di differenze, a tutte le alterità ambientali/animali/ macchiniche con cui veniamo in contatto. Anche il nostro rapporto alle tecnologie della vita e dell’informazione dev’essere messo quotidianamente in discussione. In termini spinoziani suona così: o le nuove tecnologie aumentano le capacità dei nostri corpi di divenire autonomi e nomadi, o ci aiutano nella ricerca di vie di fuga costituenti di nuovi legami postumani, o esse ci assoggettano, ci depotenziano. Dobbiamo moltiplicare le domande e di conseguenza le pratiche politiche perché: “Se il potere è complesso, diffuso e produttivo, così deve essere la nostra resistenza a esso” (Braidotti 2014b, p. 35).
Beninteso, resistenza e durata non implicano alcun immobilismo, alcuna rigida presa di posizione che non fa che attestarsi un tantino più in là del problema da risolvere. La resistenza è, nella condizione postumana, un divenire costituente che apre nuovi spazi di soggettivazione: punta all’autodeterminazione della soggettività incarnata, piuttosto che alla rappresentazione di una sua totalità astratta e universale. Resistere, durare: ovvero impegnarsi in un tenace e costante lavorio etico-pratico, artigianale e quotidiano, che attraverso l’attività potenziante dei desideri singolari costruisce nuove pratiche e nuovi discorsi, sperando siano in grado di sabotare le macchine paranoiche e nevrotiche che riproduciamo abitualmente e i dispositivi di controllo ed esclusione del biocapitalismo cui fanno da stampella. Mentre cerchiamo di capire come r/esistere, il nostro invito è ad attenersi a una modesta precauzione di metodo: le trasformazioni affermative non sono naturali né spontanee, avvengono solo quando le soggettività incarnate sono disposte a mettere in gioco tutte le loro differenze, a confluire verso spazi comuni, luoghi di incontri altamente contaminanti. L’etica è un processo, non un prodotto, quello che ha di importante sta nel mezzo.
Note
1 https://prochoice.org/education-and-advocacy/violence/violence-statistics-and-history/
2 parenthood-shooting-civilian-victims
[Immagine: Annette Messager, Mes Voeux, particolare].
MATERIALISMO RADICALE, “CRITICA DELLA RAGION PURA”, E “CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA”. Itinerari etici….
“Non c’è dubbio che ogni nostra conoscenza incomincia con l’esperienza; da che infatti la nostra facoltà conoscitiva sarebbe altrimenti stimolata al suo esercizio, se ciò non avvenisse per mezzo degli oggetti che colpiscono i nostri sensi, e, per un verso, danno origine da sé a rappresentazioni, per un altro, muovono l’attività del nostro intelletto a paragonare queste rappresentazioni, a riunirle o separarle, e ad elaborare per tal modo la materia greggia delle im pressioni sensibili per giungere a quella conoscenza degli oggetti, che chiamasi esperienza? Nel tempo, dunque, nessuna conoscenza in noi precede all’esperienza, e ogni conoscenza comincia con questa.
-Ma sebbene ogni nostra conoscenza cominci con l’esperienza, non perciò essa deriva tutta dalla esperienza” (I. Kant, “Critica della Ragion Pura”, “Introduzione”, 1787).
* Sul tema, mi sia lecito, si cfr. “CHI” SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4198); LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=3085), e, PER IL “RISCHIARAMENTO” (“AUFKLARUNG”) NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!! FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4829).
Federico La Sala