di Angelo Ferracuti

 

[Esce oggi per Mondadori La metà del cielo, un romanzo in cui Angelo Ferracuti ripercorre la sua biografia e l’esperienza dolorosa della morte della moglie. Proponiamo il secondo e terzo capitolo del libro, ringraziando l’autore e l’editore].

 

All’oncologa l’avevo comunicato il giorno dopo, per lei doveva essere stato un colpo, l’ennesima sconfitta. Non so perché, ma era stato come se avessi dovuto farle una confessione. Avevo avuto questa impressione. Dire che Patrizia era morta era come ammettere davanti al giudice istruttore un delitto, un’atrocità che però non avevo commesso io. Sono colpevole, mia moglie è morta. Non l’avevo uccisa veramente, però non ero riuscito a salvarla. Avevamo fatto degli errori, e parte di quegli errori erano iniziati con i miei suggerimenti. Avevo sviato certi incontri, ne avevo suggeriti altri che lei non aveva voluto accettare, quel dottore del Forlanini non rispose mai al cellulare per tutta l’estate malgrado i molti tentativi, da quell’altro del Gemelli di Roma quella testarda non c’era voluta andare neanche per un consulto nonostante io avessi insistito parecchio, a Benevento avevamo detto di no, la terapia sperimentale non ci convinceva. «Dopo gli animali?… La faccia lei!» avevo risposto a brutto muso a quel cinico professorone. Ricordavo quando dovevamo andare da un dottore che da ragazzino giocava nella mia stessa squadra di calcio. «Se è bravo a operare come lo era a fare il terzino sono dolori» le dissi. E invece magari aveva proprio ragione il difensore fallito, che voleva fare il “raschiamento”. Spesso mi chiedo cosa sarebbe successo se fossimo andati davvero da lui. Forse sarebbe cambiato tutto, la nostra avrebbe potuto essere una storia diversa. Comunque la Sfinge, quando l’avevo chiamata lì in reparto, dopo aver detto «mi dispiace», aveva ripetuto due volte «sua moglie non ha mai risposto alle cure… non ha mai reagito, sa». Non aveva detto altro. Io continuavo a ripetere con un groppo in gola «è andata così» e mi sentivo uno scemo.

 

Ci sono stati giorni durante i quali telefonavo di continuo e lo dicevo a tutti. «Sono Angelo» cominciavo, e già all’altro capo del filo gli amici sapevano cosa li aspettava. Raccontare la mia storia terribile mi liberava la testa dalle cose assurde che stavo pensando. Nel raccontarla diventava sempre più uguale, usavo le identiche parole e intonazioni, calibrate nello stesso modo, solo così, solo nella ripetizione mi sentivo meglio. Era come sputare il veleno, liberarsi dalle tossine, alleggerire la zavorra. Quand’ero bambino c’era una vecchia zia severa e un po’ ottocentesca che mi portava nelle case a vedere i morti durante le veglie, prima dei funerali. Forse per questo non mi hanno fatto mai veramente paura, avevo alle spalle una sorta di allenamento e dentro di me un’abitudine al macabro. Quelle persone ormai erano incapaci di nuocere, anche i cattivi che la vita aveva imbarbarito cambiandone la fisionomia, quelli imbolsiti con i colli enormi, le mani grasse e callose, le pance gonfiate. Allora questa vecchia zia Giuseppina mi afferrava per mano e andavamo nelle case, o alla camera mortuaria dell’ospedale civile, a vedere i trapassati, e lei m’invitava a toccarli. Non volevo, facevo resistenza ogni volta. Ma lei insisteva. «Dài, solo una carezza» diceva. «Che c’è di male? Solo una carezza.» Mi prendeva la mano, portandola verso quelle bare aperte, i corpi distesi nel raso colorato, costringendomi ad accarezzare i cadaveri. Sentivo, al tatto, il gelo su quei corpi, come se fossero stati conservati nelle celle frigorifere. Le cose che mi colpivano di più erano i tratti del viso e soprattutto le mani, che poi mi sarebbero apparsi di notte nei sogni. I nasi, ad esempio, erano sempre diversi da quelli che avevano avuto da vivi. Quello di Patrizia era più piccolo, come asciugato, eroso dalla malattia. Era rimasto l’osso, un grazioso osso che spuntava su un viso sempre dolce, senza rancori. Era il suo, il viso di una persona tranquilla. Aveva proprio un’aria serena, e sembrava che sorridesse. Nei giorni successivi ricevetti parecchi telegrammi e alcune lettere di amici che volevano manifestarmi il loro affetto; le lessi commosso, senza mostrarle alle mie figlie, preparai le risposte. Notai che erano quasi tutte donne. Aveva chiamato anche Jean Paul. La nostra era stata una conversazione molto fredda, poche parole in croce. Non credo di essergli mai andato a genio. Neppure lui mi era del tutto indifferente, ma alla fine, dopo tanti anni, era diventato solo uno dei nomi della prima vita di mia moglie. Ricordo l’immagine struggente di loro due ragazzi che si baciavano, conservata in un vecchio album lacerato. Forse se avesse sposato lui avrebbe vissuto un’altra vita, in un altro paese, immaginavo. In quel momento per me quella fotografia a colori aveva un valore diverso. Ogni volta che la guardavo, avrei voluto strappare da quell’istantanea un momento della sua felicità, farlo rivivere. Era stata scattata a Giulianova nell’agosto del 1983, Patrizia non aveva neppure vent’anni ed era una ragazza florida, viso roseo e capelli nerissimi. Indossava una gonna scura larga e una camicia di jeans. Nella polaroid sbiadita baciava questo ragazzo francese biondissimo dagli occhi verdi, probabilmente erano tornati da poco dalla spiaggia. Credo fosse felice. Ogni volta che la guardavo, sentivo una stretta al cuore, e una gelosia struggente mi aggrediva. Poi tutto si trasformava in malinconia, e allora sorridevo, dandomi dello stupido, e alla fine chiudevo l’album per non vedere più, non soffrire più.

 

*

 

Non abito più in quell’appartamento da dieci anni. Vado lì di rado per cercare qualche libro, recuperare una maglia, arieggiare le stanze. Le mie camicie, le scarpe con le stringhe, molti dei miei libri migliori sono a casa della moglie della mia seconda vita, Alessandra, nel centro storico, dove mi sono trasferito. Dormo in un altro letto, dalle finestre vedo un paesaggio diverso, il risveglio è differente, sono un’altra persona, anche il cane non è più lo stesso, adesso è un boxer di taglia media, pelo corto, solitamente malinconico, gli occhi lucidi e lo sguardo interrogativo. Qualche pomeriggio arrivo là per stare da solo. Mi siedo sul divano, sto un po’ di tempo con la testa per aria a pensare, oppure fumo un mezzo toscano. L’appartamento ha ormai l’anima cupa di un luogo disabitato, le rubinetterie rilasciano ruggine, gli infissi stanno cedendo, l’odore prevalente è di muffa e umidità, i pavimenti sono polverosi. Le mie figlie vivono a Bologna e Milano, si trasferiscono qui solo nei mesi estivi. In autunno e inverno solo i topi passeggiano sui tetti e riescono a intrufolarsi in mansarda, grattano le scaffalature, rosicchiano i dorsi dei volumi. Sotto abitano i miei vecchi genitori novantenni, che conservano dentro di loro il mondo arcaico e contadino che c’era nelle terre qua intorno, le strade di polvere e la puzza di merda, il fascismo, i partigiani nella nebbia, poi il dopoguerra con l’ansia di ricostruire della generazione bombardata, questa casa a più piani, frutto dei mutui ipotecari e delle privazioni di ogni tipo di una coppia di cattolici votati alla vita francescana, spoglia di ogni cosa superflua in questa piccola città di morti, spopolata dentro le mura antiche dove ti contano anche i passi e pensano di sapere tutto di te. Ormai i miei genitori sono solo racconti autistici e artrosi, indifferenza per il futuro e melina per sopravvivere, fanno manutenzione della solitudine ammazzando il tempo in un appartamento troppo grande. Mamma, certe volte, dice che casa sua non è questa. Mi chiede se posso accompagnarla in quella dell’infanzia dove la aspettano suo padre e sua madre, e i tre fratelli. Dice – anche se non è più capace di camminare – che vuole vestirsi, prendere la borsa, andare via. È già tardi, la stanno aspettando per la cena, mi ricorda mentre la guardo stupito. Temporeggio, poi le propongo di aspettare, «tra poco andiamo, vengo a prenderti». Lei mi guarda contenta con gli occhi dolci e un’aria soddisfatta, «tra poco» ripete, «ti aspetto» dice trepidante. Così quando lascio la stanza me ne vado sempre con, addosso, un lieve senso di rammarico.

 

Quando salgo al piano superiore dove vivevo con Patrizia e le figlie, in genere spalanco le finestre, lascio entrare aria buona nelle stanze, mi fermo sul balcone a guardare il paesaggio di colline che sconfinano verso l’orizzonte. In fondo vedo i Sibillini, i miei giganti della montagna, alti e rocciosi. Poi vado in cucina. È tutto al suo posto: il tavolo ovale al centro, un acquisto d’impulso in nome del design, i componibili della cucina, candidamente bianca, che avevamo comprato prima del matrimonio, la portafinestra che dà sul balcone, quello dove abbiamo fumato migliaia di sigarette e conversato sul futuro nostro, dei figli e dell’Italia, di come sarebbe cambiato il mondo e diventato più giusto. «Non è successo, Patrizia, hanno vinto i barbari» mi scappa di dire qualche volta prima di chiudere la finestra e rientrare in soggiorno, «è stato un fallimento.» Certi giorni mi chiedo cosa direbbe lei di questo mondo, del caos che ci governa, di questo cupo e perenne tempo presente. È quello il cuore della casa. Lì si entra e si sta durante il giorno, da lì si accede alla zona notte, con le due stanze da letto e un piccolo bagno; e sempre da quel punto si raggiunge anche la parte arredata del balcone, dove d’estate si mangiava. Oltre il soggiorno, la porta laccata di nero che dà sulla zona notte: entro in bagno con naturalezza per lavarmi le mani. Vado a guardare le camere, la mia è perfettamente in ordine, le lenzuola ben tirate sul letto; quella delle ragazze troppo piena di cose, lo scaffale delle scarpe straripante, i libri che prima stavano sopra le due scrivanie in fondo impilati uno sopra l’altro, le tende stropicciate. Tutte le volte che le immagino piccole a dormire raggomitolate nel letto a castello, i respiri lievi nel cuore della notte, mi commuovo. Ci sono giorni in cui salgo la scala a chiocciola in metallo che porta nello studio, quello che Patrizia chiamava “la tana”. Una piccola mansarda bassa e soffittata, alta non più di due metri, i cui finestroni danno sulla campagna, al centro una scrivania e sulle pareti libri e ragnatele. Accendo la luce e ispeziono gli scaffali, dove sono custoditi gli americani, i tantissimi London, Melville, Mark Twain, naturalmente, e l’assortimento dei Quarantanove di Hemingway che ho acquistato nelle diverse edizioni con l’impeto del collezionista, Saul Bellow e Roth, fino agli ultimi, con Carver in testa. Ognuno appartiene a una stagione della mia vita. Nella parete opposta ci sono gli italiani, Verga, Pirandello e Svevo, e poi Volponi e Fenoglio. Dello scrittore di Alba mi erano sempre piaciuti anche la fisicità e la postura, questa fierezza provinciale e allo stesso tempo il disincanto. Se penso a quanti fallimenti ho collezionato negli anni con la scrittura, sento che tutto questo ha persino contribuito al fatto che io sia invecchiato peggio, siano aumentate le rughe sul mio viso, mi sia calata sensibilmente la vista. Sono stato uno sciocco, penso certe volte, non è servito a niente, neanche quello risolve: un romanzo ben scritto, un racconto che fila, un atto unico ben fatto. Quanto tempo ho sacrificato della mia vita, ore e ore a brigare dietro quelle frasi. Me ne vergogno persino, certe volte.

 

Mentre scrivevo, le erbacce infestavano il giardino, non uscivo più neanche con gli amici e disertavo addirittura il cinema che tanto mi aveva appassionato una volta, ma non ero capace di farne a meno. Sono stato un cretino, e quello può considerarsi il mio fallimento maggiore, lasciarmi andare a una pulsione del genere, assecondarla, finirci dentro fino al collo e farmi completamente risucchiare. Mia figlia Lorenza saliva talora quatta quatta la scala a chiocciola, felpata come nessuno, mi faceva tana all’improvviso e io balzavo via dallo spavento. Potevo alterarmi, biascicare qualche improperio, ma poi sorridevo divertito. In quello spazio astratto eppure concretissimo delle parole che apparivano sullo schermo del pc, mia figlia veniva a rammentarmi che là sotto in cucina, nelle camere, in tinello, c’era la mia famiglia, che c’era la vita e mi si scioglieva il tempo, quel tempo che non avrei visto e sentito mai più. Scrivere diventava una vera e propria esperienza. Poteva capitarmi di andare a dormire esausto, amareggiato per la piega negativa che aveva preso il libro, svegliarmi la mattina, rileggere, e trovare l’incipit straordinario, talmente potente da produrre in me un immediato cambio d’umore. L’euforia si alternava allo scoraggiamento. Adesso racconto soprattutto storie dal vero, basta finzione: viaggio. Vado e torno. Vado e torno

 

 

[Immagine: © Philip-Lorca diCorcia, Hartford, Storybook Life, 1979 ].

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *