di Antonio Moresco

 

[Esce domani per SEM Canto di D’Arco, il nuovo romanzo di Antonio Moresco. Il 24 ottobre il libro verrà presentato a Milano presso la sede della casa editrice, in via Cadore 33. Pubblichiamo un estratto del romanzo].

 

Un secondo dopo ha sollevato il bordo della mantella e ha sparato.

Però la raffica deve esserle partita all’improvviso e prima che se l’aspettasse, perché ha fatto un balzo all’indietro ed è quasi caduta.

La sposa è piombata a terra, attraversata da molti colpi sparati a distanza ravvicinata. Il suo vestito bianco era tutto sporco di sangue, crivellato e bruciato.

Anche Quella era sporca di sangue, sulla mantella, sui capelli, sul volto, quando mi è venuta incontro mentre io sbucavo da dietro lo spigolo dove ero rimasto nascosto e ci siamo guardati in silenzio e poi ci siamo abbracciati.

Le ho preso il mitra ancora caldo, con una mano, mentre con l’altra la continuavo a tenere abbracciata e le accarezzavo i capelli sporchi di sangue.

Pensavo che tutto fosse finito, invece un istante dopo, da dietro una macchina parcheggiata all’altro lato della strada, sono saltati fuori improvvisamente due bambini, pallidi, muti, vestiti uno da paggio e l’altra da damigella, che si sono avventati su di noi come due furie e hanno cominciato a colpirci con due pugnali.

Ho sparato due o tre raffiche brevi e li ho falciati.

Ci siamo allontanati da lì, e poi non ricordo con precisione dove siamo andati e cosa abbiamo fatto, perché quello che ci stava succedendo e che ancora doveva succederci era così in- concepibile che non si può quasi ricordare e neanche raccontare. Ricordo solo che qualche finestra si è accesa e spalancata di colpo e che qualcuno svegliato dagli spari si è affacciato e ha gridato, e poi che abbiamo raggiunto la macchina e che, quando siamo stati tutti e due dentro, al buio, le ho scoperto il fianco e ho cercato di vedere la sua ferita, per accertarmi che non fosse grave, e che le ho tirato via il sangue con un fazzoletto. E che poi siamo ripartiti e che abbiamo cominciato ad andare alla cieca, lungo le strade morte della città dei vivi, mentre stavano venendo dei lontani rumori di sirene, degli sbirri vivi che convergevano verso il luogo che avevamo appena lasciato, e che a un certo punto lei ha visto una insegna luminosa e mi ha chiesto di fermarmi.

 

Siamo scesi, abbiamo raggiunto un locale da ballo aperto anche di notte e siamo entrati.

Non saprei dire che locale era e che balli erano quelli, perché io non me ne intendo di queste cose. So solo che mi sembravano balli di altri tempi, se ci sono stati altri tempi, di prima ancora che ci fossero solo queste due sterminate città dei vivi e dei morti, e che anche i ballerini erano vestiti con degli abiti di altri tempi o che almeno non avevo mai visto prima, o forse mi sembrava solo così perché quella notte era la mia prima notte di combattimento con lei e tutto mi appariva come mai visto prima e non capivo niente.

Siamo rimasti per un po’ ai lati della pista gremita di ballerini e di ballerine che si spostavano guardandosi negli occhi mentre ruotavano su se stessi, allacciati, e c’era anche una piccola orchestra che stava suonando in qualche punto in penombra che da lì non si vedeva, e anche una voce che stava cantando con enorme dolcezza, dal buio.

 

«Vieni, balliamo!» mi ha detto lei, all’improvviso.

«Ma io non so ballare!» le ho risposto, perché io sono solo uno stupido sbirro e non ho mai avuto tempo per queste cose, perché io sono solo capace di combattere senza speranza e di vuotare il mare del male con un cucchiaio.

«Non importa» mi ha detto.

Mi ha preso per mano, siamo andati al centro della pista e ci siamo sorretti l’uno all’altra abbracciandoci forte.

Siamo rimasti così per molto, immobili, muti, fronte contro fronte, stanchi, feriti, armati fino ai denti, abbracciati, con i vestiti e i volti imbrattati di sangue, tanto nessuno vedeva niente in quella luce che c’è di notte nella città dei vivi, in mezzo a quelle coppie di ballerini che continuavano a ruotare attorno ai nostri due corpi allacciati nella vita e nella morte del mondo, e lei non diceva niente e io non dicevo niente, non pensavo a niente, non capivo niente, non capivo neppure chi stavo tenendo tra le braccia e chi stavo amando.

 

Poi, a poco a poco, mi è parso che gli altri ballerini avessero cominciato a ruotare sempre più lentamente attorno a noi e che si stessero addirittura fermando, anche se eravamo tutti e due a occhi chiusi e non vedevamo niente, mi è parso che quel leggero vento spostato dai loro vestiti che volteggiavano nella sala non arrivasse più contro i nostri volti e che anche loro alla fine si fossero bloccati e fossero rimasti fermi a guardarci, immobili, muti, a corolla, attorno ai nostri due corpi insanguinati e abbracciati al centro della pista e del mondo.

 

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