di Vanni Santoni
[Pubblichiamo, su gentile concessione dell’editore, la prefazione di Vanni Santoni a La parte inventata di Rodrigo Fresán,uscito per LiberAria il 31 ottobre].
Una delle prime cose che si insegnano agli aspiranti scrittori – e La parte inventata di Rodrigo Fresán è anche un libro sugli aspiranti scrittori – è di non esagerare con le epigrafi: se già apporne due invece di una sola rischia di far sembrare presuntuoso l’autore qualora il libro non si rivelasse gran cosa, tre o più lo faranno apparire certamente ridicolo se il libro non è almeno un “romanzo-mondo”. Si capisce allora che un volume che apre con sedici epigrafi tende a prendersi un certo rischio e a creare determinate aspettative nel lettore, anche qualora le epigrafi, come è questo il caso, recassero in sé un gioco: l’unica cosa che cambia è che il lettore si aspetterà un romanzo dal carattere giocoso oltre che un’opera grandiosa. Per fortuna – diciamolo subito onde sgomberare la piazza dagli equivoci (e lasciar posto alla cattedrale) – La parte inventata soddisfa in pieno entrambe le aspettative.
Che tipo di gioco sia quello che si mette in atto in questo libro, è facile intuirlo non appena si incontrano – e avverrà per tutte le sue settecento pagine – teorie di ogni genere sulla letteratura (c’è spazio anche per un canone immaginario e una biblioteca ipotetica): una delle tante cose che fa La parte inventata è ribadire che oggi, per sopravvenuta e piena integrazione della lezione modernista e di quella postmoderna, i romanzi-mondo e i “grandi romanzi”, qualunque cosa si intenda con tali proteiformi espressioni, non possono prescindere dalla metaletterarietà e dall’intertestualità. Se è vero che una volta i protagonisti dei libri più importanti erano dèi, poi diventarono semidei, poi eroi, poi nobili, poi borghesi, poi uomini comuni, poi emarginati e infine scrittori, il protagonista della Parte inventata, preso in diverse età della sua vita, è naturalmente, ineludibilmente, uno scrittore. Uno scrittore vero, ovvero un uomo che ha consacrato la propria esistenza alla letteratura, e che tuttavia si è a un certo punto stancato di tutto ciò che gira attorno ai libri (o sono i lettori a essersi stancati di lui?), senza aver però rinunciato all’idea fissa che sta dietro a ogni percorso letterario che si voglia dir serio: la ricerca di una verità ultima attraverso di esso. Finché si è in tempo, perché nell’aria aleggia un dubbio ulteriore: che tanto disincanto giunga dall’aver annusato la fine della cultura libresca per come l’ha conosciuta chi è cresciuto nel Novecento.
Che fare allora? Dato che stiamo giocando, e dato che la lezione del postmodernismo nel frattempo è stata sì assimilata, ma anche sublimata in nuove direzioni, su tutte il post-materialismo, il nostro scrittore senza nome decide di scomparire e al tempo stesso rendersi finalmente pervasivo nel modo più drammaticamente cosmico (e comico) che si possa immaginare: intrufolarsi al Large Hadron Collider del CERN, fondersi al Bosone di Higgs – la cosiddetta “particella di Dio” – e disintegrarsi diventando una sorta di meta-autore assoluto, innervante la realtà medesima. Il gioco è fatto allo scoperto e dietro si scorgono diverse allegorie – uno scrittore che scompare nel nulla ma influenza chiunque: stiamo parlando di Salinger? O sarà forse Pynchon? –, sulle quali spicca una domanda centrale: perché scriviamo? Perché leggiamo? Cosa speriamo di ottenere?
Quando appare un libro che, per la portata delle domande che pone, oltre che per dimensioni e ambizione, aspira legittimamente alla grandezza, fioccano subito i paragoni, di solito scelti per accostamenti facili, di temi o di macro-area geografica, e per La parte inventata sono già stati tirati in ballo il Cortázar di Rayuela, che c’entra poco, e il Bolaño di 2666, che c’entra pure poco (ma almeno Bolaño era un buon amico di Fresán), due testi rispetto ai quali questo è, piuttosto, affiancabile, in quanto ulteriore esempio della sublimazione della lezione di Borges in romanzi di ampissimo respiro. Volendo restare “latini”, si potrebbe chiamare in causa il Paradiso di José Lezama Lima, dove vastità, ingenuità e spessore filosofico si incontrano come mai prima, ma anche qua il paragone sarebbe un po’ forzato: La parte inventata non è un affresco come Paradiso, dato che il suo tuffo è tutto interiore. Il lettore avveduto – o almeno, quello appassionato di romanzi-mondo, narrazioni fluviali & affini – troverà piuttosto, in certe scelte formali di Fresán, echi di Gaddis (eccolo citato anche nel testo, quando, all’accusa di difficoltà, risponde “se il lavoro non mi risultasse difficile senz’altro mi annoierei a morte”) e Glass, se non già di Wallace. Il fatto è che siamo di fronte a un romanzo che, al netto dell’influenza capitale di Borges, è molto poco latino e molto nordamericano (oltre che non poco europeo) per le soluzioni strutturali che sceglie di usare, per l’approccio iniziale squisitamente proustiano e anche per le ossessioni dell’autore, di cui il romanzo stesso è summa e discussione: Francis Scott Fitzgerald, Hemingway, Nabokov, Faulkner (sebbene il protagonista debba ancora leggerlo!), i Pink Floyd, Bob Dylan, Stanley Kubrick… Poco latino, e quindi poco argentino? Varrà la pena ricordare quello che scrisse proprio Borges nello Scrittore argentino e la tradizione, ovvero che la tradizione argentina è “l’intera cultura occidentale” – e di certo a Fresán, che pure omaggia a più riprese Borges, preme prendere le distanze da certi cliché in voga ai tempi dei suoi esordî (e oggi meno incistiti anche grazie a Bolaño), quando dall’autore latino, non importava se per niente colombiano, tutti esigevano realismo magico alla Márquez, e così nella Parte inventata si immagina l’“irrealismo logico”, che non è altro poi che una bella fetta del canone occidentale: “Se il realismo magico è realismo con dettagli irreali, allora l’irrealismo logico è il suo gemello opposto: irrealtà con dettagli realistici… Quei racconti e romanzi con un tempo drammatico e un ordine degli avvenimenti perfettamente calcolati e amministrati, come Madame Bovary.”
Per quanto le soluzioni strutturali usate nel romanzo debbano molto ai postmoderni statunitensi – e nordamericani, pure, sono i fantasmi che lo popolano (si ha l’impressione che, nel mondo di Fresán, sia stato Fitzgerald a farsi disintegrare, per come, assieme al suo Tenera è la notte, pervade il campo elettromagnetico di ogni pagina) –, la vera chiave strutturale della Parte inventata arriva dall’oriente, per stessa ammissione (naturalmente incorporata nel testo) dell’autore: “Il biji,” spiega Fresán, o meglio lo scrittore protagonista del libro di Fresán, “è un genere della letteratura classica cinese, che si può tradurre come «libro di appunti», e un biji può contenere aneddoti curiosi, appunti quasi al buio, pensieri sparsi, speculazioni di tipo filosofico, teorie private su questioni molto intime, annotazioni su altre opere, e qualsiasi cosa il suo proprietario e autore consideri pertinente.”
Così, con le sue “zone a punti”, i suoi elenchi, le sue elucubrazioni e le sue scatole cinesi, La parte inventata appartiene in pieno al genere del biji e tuttavia, lungi dal distanziarsi dalla forma-romanzo, come potrebbe sospettare un lettore poco attento (o uno di quei critici che a ogni stagione hanno la tentazione di rilanciare il tormentone della presunta morte di tal genere), quest’opera in tre atti e sette parti, nel suo essere sia il romanzo di formazione di un bambino che vuole diventare uno scrittore (e che “sa che non può considerarsi un vero scrittore finché non avrà pubblicato e, a passeggio per una libreria, contemplato com’è stata esposta la propria opera per poi spostarla e sistemarla sui tavoli più in vista”), sia “un libro che pensa come uno scrittore nell’atto di mettersi a pensare a un libro, a cosa pensa quando gli capita di pensare a un libro, quando quel libro gli capita, e cosa capita a quel libro”, è un vero e proprio manifesto del romanzo contemporaneo, anzi del romanzo tout-court: un monumento alla sua natura meticcia, capace di inglobare ogni cosa, nonché un promemoria circa il suo essere, oggi più che mai, l’ammiraglia che la letteratura può schierare nel tentativo di venire a capo della realtà – tutto questo, ma anche una scintillante storia sul modo in cui gli scrittori da un lato divorano e dall’altro falsificano le proprie vite per distillarne materiale letterario, e su quanto tale processo sia simile a ciò che ci porta a disegnare, attraverso la nostra biografia ricordata, l’idea che abbiamo di noi: un romanzo capace di farci ammettere, come il Gerald Murphy dalla cui vita Fitzgerald attinse a man bassa per scrivere Tenera è la notte, che “solo la parte inventata della nostra storia – la parte più irreale – ha avuto una vaga struttura, una vaga bellezza”.
[Immagine: © Diane Simpson, Window Dressing: Background 2, Bowler, 1994/2007]
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