di Massimo Palma

 

[È appena uscito per Castelvecchi Nico e le maree di Massimo Palma, racconto fantastico della vita di Christa Päffgen ovvero Nico, attrice, modella, artista. Ne proponiamo quattro brevi estratti, ringraziando l’editore].

 

Documenti

 

[…] Manchester, finalmente, dopo mille concerti inutili nelle cittadine inglesi, la band stanca, lei fuori fase. Fuori, nelle stradine del quartiere ebraico dove ha trovato affitto a pochi pound, il cielo nevica pioggia fine, sciupando l’odore denso degli sbuffi dei fornai. Fa il solito freddo atroce in casa, appena piegato dalla luce tragica delle candele ovunque. Nico batte i tasti forte e non corregge mai i refusi. All’inglese alterna qualche frase in tedesco, dei frammenti in francese.

 

Da quando ha smesso di bucarsi, la scrittura in prosa accompagna il metadone. Lo sciroppo la mattina, poco dopo il tè. Scrive appena possibile, il più possibile, negli intervalli tra un concerto e l’altro. Qualcuno le rileggerà i passi più oscuri. Qualcuno si occuperà di montarle i pezzi.

 

Non è un memoriale: non ricorda affatto bene le esperienze, i buchi, i fallimenti – “fa niente” si dice sputando saliva rossa nel lavabo. L’importante è proseguire. «Questo libro dev’essere un omaggio alla mia vita interiore». Perché per Nico dentro di lei c’è tutto. Del fuori ricorda poco, ricorda male.

 

Giusto qualche istante per rivedere ancora il sangue adorato sul suo volto. Le fossette insozzate. Sono giorni che le fa male un dente. È un moto ascendente, il dolore entra piano poi diventa puntura di spillo che si insinua sul nervo fino a farla urlare. Finché non si ficca un cubetto di ghiaccio in bocca. Ma l’analgesico più meraviglioso al mondo non può usarlo. “Voglio una vita da asceta” si dice. “Mi piace l’esercizio del dolore”. Intanto la lingua si ficca proprio lì, indaga sull’ascesso, sopra la gengiva. Cerca di fermarla, ma la lingua fa da sola. Il ghiaccio si tinge di sangue. Nico si china, lo fa scivolare nel lavabo. Poi si volta di scatto verso la finestra, a caccia di spie nei palazzi di mattoni rossi inceneriti di Prestwich. Non scorge nulla. Una lamentazione di un haredì, due piani più sotto, una nenia che la culla. La pioggia fuori. Si siede sulla poltroncina di pelle, bucata in cima, a fissare il foglio.

 

Kein Volk lebt länger als die Dokumente seiner Kultur, scrive senza refusi. ‘Nessun popolo sopravvive ai documenti della sua civiltà’. In quel punto non c’entra niente, ma Nico sente che deve scrivere e basta, fissare cose che le suonano importanti. “In fondo è per questo che devo scrivere” – pensa, e sorride da sola, spinge la nuca indietro, come quando è imbarazzata. La lingua spinge il sangue dalla gengiva ovunque. Infetta la bocca. Si alza a cercare altro ghiaccio. Nico ha sempre voluto estinguersi, lo ha detto nelle interviste di fronte alle creste punk adoranti. Da qualche tempo, però, le interessa questa faccenda dei documenti che restano in vita nonostante la morte dell’autore. Quella frase antica le rimbomba in testa, la fa ponderare. Rimbalza in lei da un fondo occluso l’accento marziale, persuasivo. Per far sopravvivere i suoi documenti Nico sa che deve partire dall’inizio, dall’infanzia, dalla guerra e dalle sue conseguenze. Da Christa. Più indietro. Deve parlare della madre e del padre, dei nonni, quali nonni? – deve recuperare il tempo che si è fatto nuvola dentro di lei. Più dei ricordi le piacciono i numeri. Tra meno di un anno farà quarantanove anni, 7 volte 7. Se lo scrive e lo appunta infinite volte. Adesso, mentre scrive quelle righe di fatica, è il suo quarantanovesimo anno – è l’esplosione dei sette. «Quando ho fatto sette anni per la prima volta è finita la guerra. La guerra è prima di 7. Devo partire da prima di 7, da così in basso». Accende una candela, la mette sul tavolino accanto alla macchina da scrivere, e affonda nella guerra mentre la cera cola.

 

*

 

Otzak

 

I servizi, le pose, una sfilata, missioni ovunque. La segue ovunque la direttiva di Ibiza, la svolta che ne muove gli arti lunghi, ne raffredda l’immagine. A vent’anni il nome nuovo è un abito perfetto, pare sedurre, non svela.

 

Il 1959 comincia nel furore dell’apatia, che Nico contrae come compagna di vita. Poi un viaggio a Roma che non prometteva nulla di nuovo si trasforma in occasione imperdibile. Su come sia andata è dura scovare il vero, discernere ciò che è mito e ciò che è storia. Le voci si mischiano, i rumor si affollano, ma tutti convergono su un punto: Nico è stata vista. Per alcuni è stata vista portare un candelabro verso la persona giusta: i testimoni dicono abbia attraversato la sala in diagonale e che sia calato il silenzio; dicono che gli uomini cercassero di spogliarla con lo sguardo ma senza riuscire a sostenerne la forma divina. Per altri Nico è stata vista scendere le scale di un appartamento privato, mentre al piano di sotto Federico Fellini e Dino De Laurentiis litigavano, ma al vederla tacquero entrambi e non ricordarono più perché stavano discutendo, perché uno bloccava il braccio dell’altro, perché l’altro strattonava la camicia dell’uno: entrambi guardavano altrove.

 

Nico era stata vista e scelta – il film per cui la scelsero si chiamava La dolce vita. Nico adorava quel titolo, le sembrava che corrispondesse in tutto a Roma, alla vita che si poteva vivere lì. E dunque tutto prende una piega imprevista. La sosta diventa un soggiorno; le fughe notturne a Fontana di Trevi realtà. La primavera monta in quella Roma esausta e insieme frizzante. Nelle lunghe giornate di riprese, Nico si lascia conoscere per quell’adorabile svagatezza che sembra segnare il suo personaggio per sempre. Ogni tanto sparisce, ogni tanto dice cose fuori luogo.

 

Spesso è in ritardo, spesso ammicca ma non si risolve. Chi la scorge mentre si aggira negli studios non manca di notare l’incanto che si porta dietro. La sua eleganza, le sue amnesie. A volte non ti riconosce. A volte ti segue fino a diventare l’aria che respiri.

 

*

 

A.D.

 

A Cannes nel 1960 La dolce vita trionfa. La sua comparsa di lusso ha ventun anni, un volto superbo e un nome che tutti ricordano. Ma arriva tardi agli appuntamenti con i registi che le vogliono dare il ruolo principale. Si sveglia tardi, non è affidabile. Poi, alle feste, se c’è una pasticca, Nico la prende sempre. Se qualcuno la corteggia gli dà in pasto la sua immagine, ride molto, appare grata, ma se l’orecchio cui il tipo si appoggia è quello sbagliato, Nico è evasiva, risponde a caso, guarda oltre e poco dopo si alza. E poi è incapace di malizia. Nei rotocalchi ormai è presenza fissa. Adesso che è solo immagine in cornice, il volto campeggia senza fascino, né seduzione – è la perfezione riprodotta, è perfezione seriale. In Francia ottiene il ruolo da protagonista in Striptease, dove appare anche Gainsbourg, ma Ariane è fredda, acconciata come una Jackie Kennedy qualunque. Sono tutti modi per far affezionare il pubblico al suo volto. Ma Nico non produce affetto – e non è più una modella.

 

Naturalmente, perché così va la vita, accadde anche che in quell’anno Nico senza cognome incontri Niko Papatakis, il meticcio che le aveva dato il nome della sua indeterminazione. Era il 1960 e si trovarono seduti l’uno al fianco dell’altra a un tavolo di un ristorante della Rive Gauche, a Parigi. Lo scambio di battute fu tutto attorno al nome, all’origine. Si riconobbero nello specchio. Vissero insieme un paio d’anni, tra New York e Parigi, diradando presto l’erotismo, annullandolo per far posto a mani che si tengono complici. Per due anni Niko & Nico continuarono a girarsi assieme, nello stesso momento, quando udivano il loro nome per strada.

 

*

 

Lavoro

 

In quei mesi di vita in comune, Nico vede il mondo di Warhol sciogliersi in un torrente di chiacchiere e chimica, una simmetria paurosa tra recita e vita. La mattina vede le superstar uscire ammaccate, la sera sanguinanti dai bagni della Factory.

 

La cosa più strana di tutte è che quel frastuono ciarliero e indisponente di gay, tossici e disadattati, quel mettersi in mostra e performare senza pietà la propria deriva, quel mescolarsi di umori ed esperimenti di autodistruzione, tutto questo è esattamente ciò che Andrew Warhola, con i suoi pantaloni di velluto, la magliettina a righe, la timidezza esposta e venduta come celebrità, chiama lavoro. In quei mesi, mentre Edie e Mary e Viva e tutte le superstar barcollano in una nuvola di fumo azzurro, seguite da cineprese e obiettivi, Warhol continua ad arrivare alla Factory la mattina presto, appena un cenno di occhiaie, benché non dorma da giorni. «La cosa più importante è lavorare». Solo lui conosce il segreto, solo lui bandisce la verità al ballo di debuttanti strafatti di cui è portavoce. Per lui ognuno ha un talento, una capacità, una qualità, una dipendenza da vendere e valorizzare. È il grande straccivendolo di New York.

 

L’East 47th, il vialone di Manhattan dove troneggia il riflesso argento cenere della prima Factory, si trasforma in ritrovo di parassiti, di marginali che ragliano della loro vita di relazione. Mentre Nico tace, mentre Lou prende appunti, Andy passa e sorride con voce flautata: «Lo vedo che state lavorando». Factory: davvero è un’industria, produce immagini. E ci sono pure gli operai specializzati di Andy: quegli uomini-donne che guardano Nico ora con astio ora incredule, sei come noi non sei come noi, Candy Darling su tutte. Anche loro lavorano, sbozzano la loro immagine a sua immagine, rifiniscono il loro corpo per dargli l’apparenza più simile di tutte al desiderio. Andy ne vede la fatica tremenda e sapiente, le lascia fare, ingoiare ormoni, le filma quando recitano disperazione, quando la vivono di notte, le riprende infine ridere sguaiate e scarlatte nella loro infima, stordente liberazione, quando qualcuno le abbraccia forte, quando il sudore si fa sincero. La fabbrica borbotta anche nel sonno, Nico lo capisce molto tardi, quando tutto, dopo la quasi morte di Andy due anni dopo, cambia.

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