di Antonio Montefusco
[E’ da poco uscito per Raffaello Cortina Editore In cattedra. Il docente universitario in otto autoritratti, a cura di Chiara Cappelletto. Pubblichiamo un estratto dell’autoritratto di Antonio Montefusco].
Eros e dogma
L’autobiografia di Abelardo è un testo cruciale per la disciplina che insegno: filologia della letteratura latina medievale. Si può partire dalle sue parole per introdurre gli studenti a molte tematiche: la nascita dell’università, i grandi cambiamenti ecclesiastici tra XI e XII secolo, la nuova importanza della dialettica, la definizione del soggetto e lo sviluppo dell’autobiografia. Abelardo è, per me, una figura doppia, perché è cruciale per la storia dell’Occidente ma anche per la sua capacità di farsi insieme maschera e specchio del mio ruolo di docente.
“Qui a Parigi c’era una giovinetta di nome Eloisa…” Prima di questo momento chiave del testo, Abelardo ha ripercorso il suo accidentato e inquieto cammino tra le scuole dell’epoca. Il punto in cui avviene l’innamoramento per la dotta e giovanissima Eloisa coincide con quello del suo maggior successo. Per Abelardo, vero archetipo del magister, tale successo consiste nella conquista – dopo una lunga serie di vittorie e cadute – della cattedra nel luogo in cui aveva studiato: la scuola di Notre-Dame. Siamo nel 1114, Pietro Abelardo ha 35 anni ed è, dunque, nel mezzo del cammin, a metà del suo percorso vitale secondo le teorie medievali. L’urto dell’amore di Eloisa, più giovane di vent’anni, è totale. Non lo ripercorro nel dettaglio; mi interessa presentare Pietro come allegoria del docente universitario “eroico”, archetipo continuamente presente e in qualche maniera modello a cui noi, come umanisti, tendiamo in maniera inevitabile.
L’amore che Abelardo prova per Eloisa confligge con l’acume e la potenza che egli aveva dimostrato nelle cose della filosofia, e che gli avevano procurato la fama: “Ma più ero posseduto da questo incanto, meno potevo dedicarmi alla filosofia e all’insegnamento. Mi era divenuto terribilmente fastidioso dover andare e trattenermi a scuola; altrettanto duro, quando passavo le notti insonni nell’amore, il dedicarmi allo studio di giorno”. Dall’altra c’è il rapporto con l’istituzione: quella matrimoniale – anch’essa considerata tradizionalmente inadeguata alla vita del filosofo –, ma anche quella ecclesiastica e di potere. Lo zio di Eloisa, Fulberto, canonico nella chiesa dove Abelardo insegnava, non accettò la decisione di tenere segreto il matrimonio che i due amanti avevano escogitato per continuare a garantire al docente gloria e successo. La decisione fu tragica: una notte, con l’appoggio di un servo, ad Abelardo venne tagliata la parte del corpo con cui aveva peccato. L’evirazione, tuttavia, non lo priva della possibilità della ricerca della verità. Anzi: richiamandosi agli eunuchi della storia, Pietro passa dall’essere filosofo “mondano” a essere filosofo “di Dio”.
Questo intreccio tra virilità, ricerca della verità e carisma professorale è evidente dall’unico scritto che ci è rimasto di uno dei due maestri di Abelardo, Roscellino: una lettera redatta poco prima della condanna dell’allievo. Abelardo è ormai monaco a Saint-Denis e ha ricominciato da poco a insegnare a Maisoncelles. Qui iniziano quelle sue lezioni di teologia che saranno alla base del trattato sulla trinità che gli varrà la condanna ecclesiastica al concilio di Soissons nel 1121. Lo scambio epistolare che ci è rimasto – e che è la traccia di una corrispondenza che dovette essere più ampia – ci dimostra che la pubblicazione del trattato di Abelardo è al centro di uno scontro intellettuale tra allievo e maestro. Abelardo aveva scritto al vescovo di Parigi, Gilberto, preoccupato perché Roscellino aveva già cominciato una campagna denigratoria contro il volume. In questa lettera egli offre un’immagine miserevole di Roscellino, descritto come nemico della fede, ostile ai nomi più importanti della teologia e della devozione del tempo. Addirittura evita di inserire il nome del maestro nella lettera: “Ho stimato inutile indicare col nome costui, perché la singolare infamia della sua miscredenza lo ha già reso abbastanza famoso”. Abelardo, dunque, sembra premunirsi rispetto agli attacchi di Roscellino, facendo leva, soprattutto, sullo statuto di paria di quest’ultimo – aveva affrontato già due esili ed era incorso in una condanna ecclesiastica – e invocando, quindi, un certo conformismo dei colleghi per salvaguardare la propria ultima pubblicazione.
Nella risposta di Roscellino si percepisce immediatamente la rabbia del teologo che si sente ormai isolato e attacca l’ex allievo con critiche di merito (nei confronti dei ragionamenti sulla trinità) e di metodo, ma soprattutto personali: “Veramente avevo deciso di diffamarti con molte e chiare verità, ma siccome ho da trattare con un uomo incompleto, lascio incompleta l’opera iniziata”. Il riferimento all’incompletezza attraversa l’intera argomentazione, ma si esplicita in una violenta presa in giro rispetto all’evirazione di Abelardo. Per Roscellino, Pietro è inclassificabile nella società; la sua mutilazione lo rende “fuori dai cardini”, impossibile da considerare nella sua completezza:
Se dunque non sei né chierico, né un laico, né un monaco, non son capace di trovare un nome per definirti. Ma trarrei in inganno per abitudine chi può ancora per caso chiamarti Pietro. Però sono certo che un nome di genere maschile, se decadrà dal suo genere, si rifiuterà di significare il medesimo oggetto. […] E così, tolto il tetto a una parete, la casa non potrà essere chiamata casa, ma casa incompleta. Tolta dunque la parte che rende uomo, tu non puoi essere chiamato Pietro, ma Pietro incompleto.
Lascio da parte il dibattito che è sullo sfondo di questa invettiva apparentemente sconclusionata, ma molto seria da un punto di vista concettuale-filosofico, per sottolineare un momento fondativo di quella che mi sembra la forma mentis del docente universitario come anello di una catena della trasmissione del sapere, che si ha la tendenza a chiamare “scuola”. Le discussioni, nella scuola, tendono a reiterare meccanismi di forte gerarchia e allo stesso tempo di compressione della novità (l’allievo Abelardo) e dell’altro (la donna Eloisa come il castrato Abelardo), in un dispositivo fallocentrico che qui Roscellino svela al grado zero e che produce – e continua a produrre laddove si realizza – esclusione, scomuniche e volontà di rivalsa. Il pensiero della differenza ha ampiamente riflettuto su questi aspetti, ma il punto su cui vorrei insistere è un altro: la “funzione-Abelardo” nella lunga storia della docenza universitaria. Al netto delle “valutazioni” delle pubblicazioni concorsuali, come docenti del campo umanistico ricerchiamo continuamente un senso nel lavoro di ricerca che sia un compromesso tra verità e trionfo del sé, tra vanità dell’affermazione dialettica e acquisizione di risultati da mettere a disposizione dell’intera comunità scientifica.
[Immagine: Tomba di Eloisa e Abelardo, Père Lachaise, Parigi].
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