di Leonardo Manigrasso

 

La casa editrice Quodlibet ha ripubblicato, a cura e con un saggio di Riccardo Donati, un singolare libretto sulla guerra (la prima) uscito in anni di guerra (la seconda). È Soldati e altre prose di Giulio Trasanna (Macerata, Quodlibet, 2019, pp. 134), una raccolta di prose edita nel 1941 per i tipi di Guanda. Singolare, si diceva, soprattutto per la personalità eccentrica del suo autore. Trasanna fu un pugile friulano della classe del 1905, giovanissimo testimone degli eventi prodottosi a ridosso di uno dei più terribili teatri di guerra di tutto il fronte italiano. Rimasto in Friuli dopo l’armistizio, si trasferì nei secondi anni Venti a Milano, la città dove sarebbe rimasto quasi per tutta la vita. Qui, romanzescamente folgorato dalla lettura di Nietzsche, frequentò alcuni fra i più animati circoli culturali della città e diede sfogo, sostanzialmente da autodidatta, ai primi tentativi letterari; ne derivarono nel 1938 una raccolta di poesie, Annate, e poi queste prose brevi che rievocano gli episodi e le atmosfere di cui aveva avuto esperienza a due passi dal fronte. Il libretto ebbe critiche positive ma scarsa eco, e fu una prima volta rimesso in circolazione da Mondadori nel ’91 con alcune varianti, presumibilmente d’autore; questa nuova stampa di Soldati reintegra invece la lezione originale e presenta il testo con alcune preziose appendici, fra cui spiccano le Due prose del’17, l’una sull’esperienza di piccolo profugo di Caporetto di passaggio a Milano, la seconda sulla morte di un cavalleggero abbattuto dalle retroguardie austriache in rotta dopo il Montello.

 

Il volumetto curato da Donati non si limita però a ripresentare il libro, ma è pensato come uno strumento utile a introdurre ai lettori la figura certo poco nota dell’autore. Le pagine di Trasanna sono infatti inquadrate da un’accurata nota biobibliografica, da una scelta delle prime critiche a Soldati, e soprattutto da un bel saggio inedito che studia a fondo gli aspetti ideologici e stilistici del libro. Le prose propriamente dette sono invece tripartite in sezioni: la prima si concentra in modo panoramico sugli episodi che vanno grosso modo da Caporetto a Vittorio Veneto; la seconda risente di un taglio più scopertamente autobiografico, seppure senza rinunciare a quella sorta di “protagonista collettivo” che è uno dei tratti più specifici del libro; la terza invece si sgancia dal tema della guerra per volgersi alla vita delle masse contadine, alla loro sottomissione ai cicli naturali, alla rassegnazione al dolore come componente ineliminabile dell’esistenza.

 

Le prose di Trasanna sono dunque gli scritti sul tempo di guerra di un uomo che la guerra non l’aveva fatta, ma che pure ne aveva sperimentato sulla pelle la vicinanza, le notizie confuse, le grandi manovre logistiche, le incursioni aeree, i bombardamenti. Più nello specifico, la posizione di Trasanna rispetto al cuore dell’evento è per così dire caratterizzata da un doppio regime di prossimità: geografica e anagrafica. Geografica, perché Trasanna crebbe con la madre a Udine, la “capitale della guerra” che ospitò subito a ridosso del fronte il Comando Supremo dell’Esercito italiano fino a Caporetto; un centro che fu snodo ferroviario nevralgico per lo smistamento delle truppe che affluivano da tutta Italia, e che impresse nella memoria del bambino e nella prosa dell’adulto una vivace babilonia di dialetti e di volti, oltre che di tremende bestemmie che turbavano la pia comunità friulana. Ma quella di Trasanna è anche prossimità anagrafica, perché la guerra, si diceva, lo sorprende poco più che bambino, e si sedimenta così negli scritti più autobiografici come un appello irresistibile, un desiderio di partecipazione interdetto, quasi un rito di maturità mancato. Ben altra consistenza tragica avrà su di lui l’abbandono del Friuli e lo sfollamento oltre il Piave nell’autunno del ’17, eppure è come se nel suo immaginario si creasse una sorta di vuoto dell’esperienza, un buco nero che – a dispetto delle sofferenze patite e delle privazioni – conferiranno alla furia della guerra una sorta di potere di fascinazione sull’autore. Una fascinazione che forse spiega l’ascendente che il torvo vitalismo fascista e le manganellate delle squadracce eserciteranno sulla sua adolescenza e che lo spingeranno – secondo le parole di Donati – «vicino all’ala sinistra del fascismo, quella di matrice antiborghese, anarcoide e socialisteggiante».

 

Lo “stato di prossimità” dal quale Trasanna rievoca quegli anni imprime alla narrazione del conflitto un taglio fondamentalmente evocativo, in nulla interessato ad una prospettiva eziologica o raziocinante; sostenuto da una sintassi spesso paratattica, funzionale a un resoconto scorciato, per frammenti, il registro è scandito in primo luogo dall’alta frequenza di metafore e similitudini, che conferiscono un taglio soggettivizzante al discorso. È il caso, poniamo, di questa affollata scena di combattimento: «I granatieri mordevano le bombe come arancie, mentre i bosni rialzavano ogni volta facce da spazzacamini; e a chi gridava come una tromba, gli affannati granatieri rispondevano per le rime […]; un furore allungava le loro pupille come neri incendi, e le fucilerie glieli spegnevano, sfasciandoli poi interamente come liquide statue. Voci roche venivano da sotto mucchi di indumenti abbandonati. Altri battuti, le tenere braccia come corde contorte su se stesse, mandavano umili urli. Chi poi osava alzare il fucile diceva in tempo Dio Dio due volte, e moriva volentieri. Gli ultimi superstiti come larghi falchi sulla collina, si afflosciavano sulle fumose spalle e sui neri rami delle braccia, schiumandosi nella sepoltura» (p. 22). Tuttavia la risorsa retorica più collaudata è l’uso dilagante di quel plurale d’indeterminazione già brevettato dalla contemporanea prosa d’arte. Volentieri associato all’ellissi dell’articolo, questo dispositivo produce un effetto di ridondanza poetica, di moltiplicazione “epica” del dato di realtà: «sulle liscie linee sostavano le moltitudini militari avviate alle mete generali del conflitto, e molte scendevano inquiete dai predellini credendo di trovarvi un piazzale di feste sotto quella tettoia ferroviaria. Altre scalmanate e innumerevoli si accucciavano nei convogli, andandosi a rinchiudere nei territori di combattimento. I fuochi bassi dei treni-feriti giungevano alle porte degli ospedali. E nuove fanterie risalivano i rossastri merci, interminabili di pagliericci e gavette, mentre gli isolati forzavano contenti gli sportelli per tornare al loro paese» (23-24); «Nelle piovose campagne i campanili andavano indietro, mentre cavalli e mucche si afflosciavano facilmente. Carreggi d’ogni sorta voltati con l’aiuto di due mani, rimanevano a loro modo nei fossati; gli zaini rimasti sulle erbe parevano soldati abbandonati nel sonno» (p. 30).

 

Queste strategie sono d’altronde conformi alla scelta di Trasanna di adottare una prospettiva risolutamente antiromanzesca, non solo nello stile, ma anche nel rifiuto sostanziale del dialogismo e di ogni forma di individuazione del personaggio. Ad emergere sarà piuttosto un personaggio “collettivo”, come già si anticipava. Infatti il protagonista di queste prose è sempre molteplice, corale: sono l’«andar e venire dei reggimenti e dei soldati» (p. 24), le «divisioni fradice e affrante di sole» (p. 49), la «folla minuta» degli agricoltori e dei carrettieri (p. 52), le «mogli con le sottane lunghe» (p. 69), «la serale marcia contadinesca» (73). D’altronde la cornice psicologica alla quale Trasanna dà voce è proprio quella delle masse rurali del Friuli, visto che – scrive Donati – «il dato contingente, storico-documentaristico, interessa solo in quanto chiave per far proprie, e provare a raccontare, le sofferenze patite da un popolo senza nome» (p. 117). Focalizzato il vero protagonista del libro nelle masse contadine del nord-est che subirono la coscrizione e l’esodo, la tragedia sta allora in Trasanna – più che nella morte in trincea – nell’antitesi violenta fra continuità e rottura, nell’assistere cioè a un momento di spaventoso sovvertimento di un ordine retto da leggi tanto antiche quanto incapaci di integrarlo. La vita dei contadini narrati da Trasanna infatti, specie nelle prose intitolate Ruralia, prevede come unico sfondo di attesa la permanenza di un destino immobile: del futuro non può esserci attesa fiduciosa, se non per quanto riguarda la prosecuzione della vita come dev’essere ab eterno, giacché ogni scucitura della trama non può darsi che in termini di disgrazia, malattia, calamità. E se i mali pure devono colpire – perché lo devono – l’unico augurio è che siano miti, giusti, “naturali”, che colpiscano i vecchi e i «piccoli nati male» (70), dato che i giovani e forti devono sostenere sulle loro braccia la fatica di vivere. Proprio quei giovani e forti che invece la guerra reclama e consuma nel suo fuoco, spezzando come una maledizione il destino – l’unico concepibile – delle loro comunità.

 

Ma in questo senso si può affermare che il libro sia testimone ignaro di una tragedia al quadrato: uno dei motivi di maggiore interesse del libro infatti sta in un dato che Trasanna non poteva intuire, ma che viene messo allo scoperto molto bene da Donati. Scrive il curatore: «Ma proprio come il Pasolini di quegli anni, Trasanna non sembra neppure intravedere l’imminente eclissarsi di questa fatale ruota delle generazioni contadine, fatta di oscura, viscerale pasta arcaica: una scomparsa che pure le due sezioni precedenti in qualche misura annunciano. Quasi che l’orrore della modernità bellica – di quella trascorsa, e di quella in atto mentre Trasanna scrive – non portasse con sé l’inevitabile tramonto di quell’universo popolare» (p. 123). Ciò che insomma l’esperienza della guerra rivela non è una spaventosa ferita inferta ad un regime di vita ancestrale, ma la testimonianza che quel mondo – senza accorgersene – è già stato spazzato via, il sintomo apocalittico di uno sconvolgimento tanto più profondo quanto meno avvertito. Ai posteri cui il libretto capiti fra le mani spetta il compito di riconoscere i segni del mutamento epocale soggiacente alla prosa di Trasanna, l’involontario tono da epicedio, il lamento funebre di una società in disfacimento, poiché la guerra industriale è destinata a farsi, da evento catastrofico ma contingente, sfondo strutturale in cui il quotidiano, con i suoi regimi di produzione e consumo permanenti, non sarà che la continuazione di quella stessa modernità con altri mezzi.

 

[Immagine: Soldati italiani sul Montello, 1918].

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