di Guido Mazzoni
[E’ appena uscito il numero 22 de «L’Ulisse – rivista di poesia, arti e scritture» diretta da Italo Testa e Stefano Salvi. Il numero è dedicato al tema Lirica & Società / Poesia & Politica. Pubblichiamo qui il saggio di Guido Mazzoni].
1. La poesia non muta nulla
Vorrei cominciare dicendo delle cose che tutti sanno consapevolmente o inconsapevolmente, ma che molti dimenticano, perché così vuole il gioco sociale di cui facciamo parte e l’illusione che lo rende possibile. Le dico all’inizio per evitare che la discussione diventi irrealistica e velleitaria, come succede spesso quando si parla dei rapporti fra cultura e politica.
La poesia è un sistema sociale separato: non ha quasi alcun rapporto con la politica intesa come prassi. Chiunque vinca la battaglia fra le poetiche, il risultato pratico là fuori sarà sostanzialmente lo stesso, cioè nullo. La poesia non muta nulla. In questo è davvero una «meridiana della filosofia della storia»(1); annuncia infatti una marginalità più ampia, quella della cultura umanistica tutt’intera. Le generazioni nate dagli anni Quaranta in poi sono culturalmente bilingui. Sono cresciute in mezzo a due paradigmi: il primo, la cultura umanistica tradizionale, lo hanno scoperto a scuola, il secondo, la cultura pop, lo hanno incontrato nell’etere discorsivo della propria epoca. Il primo ha avuto un peso politico diretto fino a quando la società ha conservato gerarchie fondate sull’autorità dei corpi intermedi, cioè strutture di potere di tipo notabilare; ma quanto più si transita da una società fondata sul potere pastorale e sull’egemonia delle élites a una vera società di massa, tanto più il peso politico della cultura tradizionale si attenua. In Italia il passaggio decisivo coincide con la crisi del sistema politico nato nel dopoguerra e basato sulla mediazione dei gruppi dirigenti colti, fondamentali nei grandi partiti del secondo Novecento. Coincide in altre parole col momento in cui il proprietario della televisione privata, il capo della società dello spettacolo, il principale fornitore di cultura pop del paese prende il potere nel 1994, sancendo una metamorfosi della grammatica politica e intellettuale che aveva già avuto luogo nel decennio precedente.
Se oggi centinaia di scrittori firmano un appello a favore dei migranti, la politica non se ne occupa; se Claudio Baglioni ne parla al festival di Sanremo, allora questo è un evento politico. Nel 2000 centinaia di intellettuali si schierarono per la cancellazione del debito dei paesi in via di sviluppo: la politica non se occupò. Poi Lorenzo Cherubini, in arte Jovanotti, ne parlò al festival di Sanremo e due giorni dopo venne ricevuto, insieme a Bono Vox, dal presidente del consiglio Massimo D’Alema. Quando nel 1946 il segretario del Partito comunista italiano, su «Rinascita», sente il bisogno di rispondere all’editoriale con cui si apre «Il Politecnico», è l’uomo politico Togliatti a muoversi sul terreno dello scrittore Vittorini, a discutere, in forma lunga e argomentata, su un tema complesso, come fanno gli intellettuali. Quando nel 2018 il Ministro dell’Interno Salvini provoca Roberto Saviano minacciando di togliergli la scorta o polemizza con lui per la politica sui migranti, è Saviano a rispondere al Ministro dell’Interno usando le stesse forme brevi e spettacolari, adoperando cioè la grammatica di cui Salvini è erede, quella che Italia viene formalmente inaugurata, nel 1994, da Silvio Berlusconi.
Oggi la cultura tradizionale conserva un effetto politico nei luoghi dove persiste una forma di autorità, come accade nelle scuole di ogni ordine e grado. Quello che si dice a scuola ha ancora un valore politico; quello che si scrive nei libri destinati al ristretto pubblico colto molto meno. Da tempo la poesia ha perso il suo mandato sociale(2). In Italia ciò avviene in due momenti. Il primo cade all’inizio del Novecento: testi come Lasciatemi divertire di Palazzeschi («Infine io ò pienamente ragione, | i tempi sono molto cambiati, | gli uomini non dimandano | più nulla dai poeti, | e lasciatemi divertire»)(3) e La Signorina Felicita di Gozzano («io mi vergogno, | sì, mi vergogno di essere un poeta»)(4) segnano plasticamente questo passaggio. Il secondo cade nel corso degli anni Settanta, e il Festival di Castelporziano ne è l’allegoria e l’acting out. Son cose che tutti conosciamo, non mi ci soffermo. Mi importa invece ridire che questa perdita è l’avanguardia di una perdita più ampia. Oggi gli intellettuali tradizionali non sono più dei profeti o dei legislatori: sono degli interpreti(5). Il legame fra politica e intelligenza, così forte fra la seconda metà del Settecento e gli anni Settanta del Novecento, si è rotto, e questa frattura è un aspetto decisivo di ciò che chiamiamo populismo. Ora parliamo di poesia.
2. Lirica e poesia moderna
I generi letterari sono degli spazi, dei campi di forze che hanno un centro e una periferia. Da due secoli il centro della poesia occidentale è indiscutibilmente la lirica. La lirica è la norma, il mainstream, mentre la poesia non-lirica viene di solito percepita come sperimentale. Ma che cos’è la lirica?
Storicamente il termine ha due significati. Nella poetica greca e latina, è lirica la poesia cantata al suono della lira e, per estensione, degli strumenti a corda; poi, quando il rapporto con la musica si perde, il termine finisce per designare il genere lirico per eccellenza, l’ode, il suo elemento caratteristico, il pathos di stile alto. La seconda accezione emerge a metà del Cinquecento, quando la categoria estende il proprio spettro semantico e viene usata per designare una delle tre grandi forme (l’epica, il dramma e la lirica) in cui viene diviso lo spazio testuale che all’epoca si chiamava ancora ‘poesia’, come nella cultura greca e latina, e che, a partire dalla seconda metà del Settecento, si sarebbe chiamato ‘letteratura’. La tripartizione nasce in Italia e si estende alle altre culture europee, ma diventa egemone solo col Romanticismo. In questa accezione è lirico qualunque testo in versi, o in prosa poetica, che parli di argomenti personali in uno stile che vuole essere personale, cioè distante dal grado zero della comunicazione ordinaria.
Nel corso dell’Ottocento le forme della letteratura si specializzano progressivamente: la narrativa si identifica con la prosa (durante l’Ottocento il poema narrativo è ancora popolare, all’inizio del Novecento comincia a essere percepito come un genere arcaico), la lirica guadagna l’egemonia sulla scrittura in versi e la tripartizione fra epica, dramma e lirica si trasforma, di fatto, nella tripartizione fra narrativa, teatro e poesia. Ancora oggi i libri di poesia continuano a ospitare, a larga maggioranza, testi brevi che parlano di argomenti personali in una forma che vuole essere personale. Nell’accezione moderna di lirica, il rapporto del testo col pathos di stile alto è secondario rispetto al rapporto con la soggettività. Esiste una poesia lirica di tono serio-tragico così come esiste una poesia lirica in stile comico-ironico. Se si guarda alla logica interna dei testi, le poesie di Gozzano, di Giudici o di Sanguineti dopo Laborintus non sono meno liriche di quelle di Leopardi, Montale o Sereni: in entrambi i casi abbiamo a che fare con testi brevi o di media lunghezza retti da una prima persona che parla di aneddoti egocentrici, della propria vita interiore o delle proprie opinioni. Alla soggettività nell’ordine dei contenuti corrisponde la soggettività nell’ordine della forma: i temi sono egoriferiti; lo stile si allontana dal senso comune e dalle convenzioni pubbliche che hanno governato la scrittura in versi. La metamorfosi riguarda tutti gli aspetti del testo: la metrica, la sintassi, il lessico, e i tropi. Se per millenni la poesia si era definita in funzione del metro (era poesia ciò che andava a capo secondo il rituale collettivo del verso), nella seconda metà dell’Ottocento nasce il verso libero. Whitman e Mallarmé, che sono tra i primi a usarlo, sono anche i primi a riflettere sulla sua novità epocale e collegano il verso libero alla nascita dell’individualismo moderno(6). Se per millenni la poesia è stata scritta in una sintassi grammaticale e pubblica, alla fine dell’Ottocento diventa possibile mettere le parole in libertà. Se per millenni il lessico della poesia era rimasto separato dal lessico della prosa dentro lo spazio chiuso di ciò che Wordsworth chiamava poetic diction(7), fra l’inizio dell’Ottocento e l’età delle avanguardie, con cronologie diverse a seconda delle diverse letterature nazionali, diventa possibile adottare un registro qualsiasi, non diverso da quelli usati in prosa. Infine i tropi. Fino alla seconda metà dell’Ottocento il loro uso incontrava dei limiti: la poesia rimaneva parafrasabile. A partire dalla seconda metà dell’Ottocento i poeti si prendono una libertà senza precedenti nell’uso delle metafore e delle metonimie e la poesia può sfuggire alla comprensione ordinaria e diventare oscura, cioè imparafrasabile.
Ma la forma lirica non esaurisce la poesia moderna. Esistono vaste periferie antiliriche che comprendono la tradizione del poema narrativo o saggistico, la poesia simbolista che rifiuta esplicitamente l’io o quella che Jean-Marie Gleize ha chiamato post-poesia. Da queste linee sono nate opere non meno importanti di quelle prodotte dalla lirica in senso stretto. Esiste però un elemento comune a tutta la poesia moderna. Adorno lo attribuisce alla sola lirica, ma invece vale per tutto il nostro genere letterario, ed è il rapporto con la soggettività. Nel caso della forma lirica la presenza dell’io è doppia perché agisce sul lato del contenuto e su quello della forma; nel caso della poesia non-lirica l’io si mostra solo nel medium della forma, in quella soggettività senza soggetto, cristallizzata nello stile, che chiamiamo straniamento. Il senso comune del lettore colto non specialista esprime questa percezione attraverso due topoi: il topos secondo il quale la poesia moderna è oscura e il topos secondo il quale una parte consistente della poesia moderna non-lirica è sperimentale, cioè lontana da ciò che tutti capiscono(8).
3. Adorno oggi
Secondo Adorno, il contenuto politico della lirica è la protesta della soggettività contro il mondo reificato, che riduce gli individui a parti di una serie trattandoli come merci o come numeri. Merce e numero corrispondono ai dispositivi della società civile moderna, il capitalismo e la burocrazia, e al loro strumento percettivo, il calcolo. In quanto antitesi della «fungibilità universale», la lirica è un genere assolutamente moderno perché presuppone che l’individuo sia diventato un valore, mentre «le manifestazioni dello spirito lirico a noi familiare […] dei tempi andati brillano solo isolatamente»(9). Lo sviluppo pieno dell’individuo e il rapporto armonico, non conflittuale fra i singoli e la società sono per Adorno i primi contenuti dell’utopia, e l’utopia è un mondo in cui, come dice un aforisma celebre dei Minima moralia, si possa essere diversi senza avere paura(10). Il Discorso su lirica e società legge la conciliazione fra soggetto e oggetto che la lirica riuscita irradia qui e ora come il risultato di un privilegio di classe e al tempo stesso come segno di una liberazione utopica, quella che potrebbe aver luogo se il privilegio fosse redistribuito. Per Adorno è importante che il segno rimanga inconsapevole e che si esprima in modo immanente, cioè nella forma. Adorno diffida dell’arte impegnata: la sua simpatia va alle opere della tradizione grande-borghese e alle opere di avanguardia; ciò che cade in mezzo a questi due estremi, a cominciare dalla poetica dell’engagement, è sospetto(11).
Nel Discorso su lirica e società, come in tutte le sue opere, Adorno esecra la riduzione del singolo all’intero ma resta un hegeliano. Continua a pensare che gli esseri umani vivano dentro una totalità che tende alla chiusura, dentro il grande sacco dell’intero; e anche se rimanda la sintesi al piano dell’utopia, immagina la realtà come un sistema connesso da una forza centripeta che esige una conciliazione, o che comunque fa percepire l’assenza di conciliazione come un problema. Non pensa mai in termini di flusso anomico, moto centrifugo, metamorfosi, anarchia, divenire senza telos. Lo si vede quando parla del luogo in cui la cultura europea ha per la prima volta e più esplicitamente annunciato l’inevitabilità del relativismo e della disseminazione – il giudizio di gusto. Per Adorno in arte si danno opere riuscite o fallite; nel caso della lirica è possibile che la soggettività finisca per significare solo se stessa, «indugiando nella casualità della semplice esistenza scissa»(12), ma il problema del relativismo, del fatto che gli individui autoespressivi rispondano a un bisogno che formalmente è in tutti lo stesso, ma che produce immagini del mondo inconciliabili, non viene posto mai. Adorno attraversa Nietzsche per ritornare a Hegel.
La poesia del nostro tempo coglie lo Zeitgeist perché esprime un mondo che si pensa come fatto di parti contrapposte al tutto e il merito principale del Discorso su lirica e società è di aver fissato con chiarezza questo punto. Ciò che invece appartiene solo a Adorno, e non alla poesia moderna, è l’idea di soggettività che dà al Discorso la sua piega utopica. Questa idea non tiene. Non tiene per due ragioni, una storica e una metafisica. La prima è legata all’immagine dell’alienazione che Adorno ha in mente, un’immagine vagamente totalitaria, articolata secondo il paradigma dell’omologazione, quello che rende possibile, nei Minima moralia, accostare la società dei consumi americana al nazismo. È anche per questo che Adorno concepisce la protesta della soggettività come tendenzialmente buona. Ma ammesso e non concesso che si voglia ancora usare la categoria di alienazione, oggi sappiamo che il volto ipermoderno di quest’ultima non è l’omologazione. Chi ha visto ciò che è accaduto nei cinquant’anni che ci separano dalla morte di Adorno lo coglie immediatamente. Il primo volto dell’alienazione contemporanea è il delirio della particolarità, il narcisismo di massa che ha distribuito alle moltitudini, in forma collettiva e depotenziata, gli ideali romantici dell’autoespressione e dell’originalità. O meglio: ha mostrato che quegli ideali hanno conseguenze politiche molto diverse da quelle che Adorno o le avanguardie avevano attribuito loro nel corso del XX secolo. Il brulichio egocentrico o neotribale delle soggettività non è una protesta o una liberazione; è invece il compimento, su un piano di massa, della società liberale e della sua capacità di creare piccole bolle di autonomia attorno ai singoli individui. Queste sfere sono la versione impoverita, ma alla portata di molti, dell’emancipazione che ha in mente Adorno. Il risultato complessivo è la moltiplicazione dei micromondi personali o locali. La poesia contemporanea si confronta in ogni momento con questi effetti di deriva: l’esplosione dei canoni, l’incomunicabilità fra le correnti, la crisi dei protocolli di intesa(13).
Inoltre Adorno pensa l’espressione di sé e la bellezza che l’espressione riuscita produce, come forme dell’esperienza umana, secondo uno schema che proviene dalle Lettere sull’educazione estetica dell’uomo di Schiller e che troviamo anche in Fortini(14). Né Schiller, né Adorno, né Fortini si pongono con la stessa enfasi il problema dei contenuti particolari di cui queste forme universalmente umane si riempiono. Ogni individuo ha il bisogno ontologico di esprimere se stesso; se il mondo frustra un desiderio simile, la frustrazione è percepita come una violenza. Ma se l’esigenza di autoespressione unisce, il contenuto delle autoespressioni divide: quanto più si lasciano le soggettività libere di prendere la parola, tanto più il mondo comune si segmenta in piccoli mondi divergenti. La «casualità della semplice esistenza scissa» non si mostra solo nelle opere fallite; si mostra anche nelle opere riuscite. La prima ragione per cui la poesia perde il mandato sociale è questo processo centrifugo: a tutti interessa esprimere se stessi; a pochi interessa leggere le autoespressioni altrui, perché i mondi divergono. Si può interpretare la tendenza del nostro genere a sviluppare dei ‘poetesi’, dei linguaggi stereotipati, riconoscibili e perciò aggreganti, anche come una risposta a questa deriva anomica. L’individualismo moderno ha un nucleo antipolitico: distrugge ciò che sta es to meson, in mezzo, al centro dell’agorà, nell’elemento comune che fonda l’idea di verità e di condivisione democratica(15). L’unica utopia di cui può farsi carico è liberale, microcomunitaria e fondata sulla separazione radicale fra la parte e il tutto: un’utopia di segno molto diverso da quella cui Adorno pensava.
4. Ognuno riconosce i suoi
Se il risultato pratico delle lotte interne al campo della poesia è sostanzialmente nullo, queste lotte sono tuttavia molto importanti per chi vi partecipa e cerca di fare in modo che la massima del suo comportamento possa valere come norma universale. Oggi il conflitto più importante riguarda proprio il valore politico della lirica. Le poetiche che si definiscono di ricerca ne hanno messo in discussione la forza conoscitiva. Lo hanno fatto in nome di due diffidenze speculari che più volte sono affiorate nel Novecento e nel XXI secolo – il sospetto per l’io dell’individualismo moderno, topos carsico della filosofia degli ultimi secoli da Marx a Deleuze, e il sospetto per l’assertività, per la postura «io, autore, ti dico che» senza la quale non c’è lirica. Quest’ultimo ha un’origine letteraria prima che filosofica; sembra la ripetizione, all’altezza del XXI secolo, di un atteggiamento emerso con l’ironia romantica e poi con l’ironia distruttiva di Flaubert, il primo ad aver scritto testi fondati sulla virgolettatura di tutto, sulla frustrazione pubblica della pretesa che qualcuno possa dire qualcosa di non-falso o di non-stupido.
Tutto ciò ha una sua ragion d’essere profonda, coglie un tratto della nostra epoca e ha prodotto opere significative. E tuttavia c’è qualcosa di reticente, di difensivo in questa poetica, qualcosa che lascia fuori territori di cui la letteratura deve rendere conto se si vuole rappresentare il nostro tempo per intero. L’inflazione della soggettività, l’inflazione dell’assertività, la miopia dei nostri ego, la serialità della nostra esistenza di individui – di entità superficiali costrette a preferirsi, abbagliate dalle nostre piccole differenze, piene di opinioni su cose che non conoscono, impegnate in una guerra a bassa intensità di tutti contro tutti – non cancella il fatto che gli esseri umani siano anche, siano soprattutto questo. A ciò si aggiunge la forma specifica della modernità. Lo stato di cose che ha reso possibile l’individualismo moderno è ancora lì, e sarebbe incomprensibile se, nell’epoca più egocentrica della storia, la letteratura si rifiutasse di usare l’io col rischio di tagliar fuori dai testi una parte considerevole di ciò che esiste veramente. La poesia moderna non è egocentrica per caso: è egocentrica perché in una simile miopia parla una condizione epocale. Per questo uno dei suoi compiti rimane quello di acclimatare il pronome di prima persona singolare al nostro tempo, un tempo che moltiplica il narcisismo e disgrega l’io come organo di controllo e come epicentro. Alcune delle opere decisive degli ultimi decenni sono tali perché, in modo molto diversi fra loro, hanno saputo costruire modelli plausibili di prima persona, da De Angelis a Magrelli, da Anedda a Benedetti o a Bordini – per citare autori e autrici italiani che oggi, in questo convegno, sono assenti.
Il compito della letteratura non è educare: è dire la verità. Educazione e verità sono attività opposte: la prima occulta le pulsioni che dobbiamo nascondere perché ci sia civiltà e società, la seconda le rivela. Per me è sempre vero, ma lo è soprattutto quando si parla della poesia moderna. In questa forma simbolica c’è qualcosa di profondamente antisociale – per due ragioni: perché il genere divide il singolo dal senso comune e perché favorisce la divisone del mondo in mondi. La «protesta della soggettività che risuona nella lirica» non si rivolge contro la società reificata, come dice Adorno; la protesta della poesia moderna, lirica e non-lirica, si rivolge contro la società in generale: contro le menzogne che ci diciamo per vivere insieme fra estranei ripetendo parole che non ci appartengono davvero, contro il disagio della civiltà. Detto in modo frontale e senza aloni: si rivolge contro la società alienata nella misura in cui ogni società, dal punto di vista dell’io, implica qualcosa di alieno: una limitazione della soggettività, un’uscita da sé. La poesia moderna è il luogo di un conflitto radicale fra la parte e il tutto: lascia parlare l’inappartenenza, il desiderio di non usare le parole della tribù. L’universale che la poesia moderna cerca di cogliere attraverso un’individuazione senza riserve(16) ha un valore utopico solo per chi accetta la metafisica e la metapolitica di Adorno, perché in sé la poesia moderna esprime solo la volontà della parte di ottenere un riconoscimento senza dover uscire da sé, senza mediare. D’altra parte la letteratura rimane un atto di comunicazione; i suoi gesti di rottura, come le scenate dei temperamenti melodrammatici, non vanno presi alla lettera. Alla fine la poesia rinuncia alle parole della tribù ma si rifugia nelle parole di un piccolo clan. La anima il desiderio di parlare a chi condivide certi presupposti, il desiderio di stare con chi ci assomiglia. Ciò che Montale scrive in uno dei suoi emistichi più belli e terribili è per la poesia moderna vero alla lettera: ognuno riconosce i suoi.
Note.
(1) Th. W. Adorno, Rede über Lyrik und Gesellschaft (1957), trad. it. Discorso su lirica e società, in Note per la letteratura, Torino, Einaudi, 1979, p. 57.
(2) W. Benjamin, Über einige Motive bei Baudelaire (1939), trad. it. Di alcuni motivi in Baudelaire, in Angelus novus, Torino, Einaudi, p. 89.
(3) A. Palazzeschi, E lasciatemi divertire! (Canzonetta), in Id., L’Incendiario (1910), ora in Id., Tutte le poesie, a cura e con un saggio di A. Dei, Milano, Mondadori, 2002, p. 238. Cito dall’edizione 1910 di L’Incendiario. Negli anni successivi la poesia verrà leggermente riscritta e si intitolerà Lasciatemi divertire.
(4) G. Gozzano, La Signorina Felicita ovvero la Felicità, in Id. I colloqui (1911) ora in Id, Tutte le poesie, testo critico e note a cura di A. Rocca, Milano, Mondadori, 1980, p. 178.
(5) Z. Bauman, Legislators and Interpreters. On Modernity, Post-modernity, and Intellectuals (1987), trad. it. La decadenza degli intellettuali. Da legislatori a interpreti, Torino, Bollati Boringhieri, 1992.
(6) S. Mallarmé, Crise de vers (1886) e Sur l’Évolution littéraire (1891), in Id. Oeuvres complètes, p. 363 e pp. 866-67; W. Whitman, Notes Left Over, in Complete Prose Works (1892), in Complete Poetry and Collected Prose, a cura di J. Kaplan, New York, The Library of America, 1982, p. 1056.
(7) W. Wordsworth, Preface (1800, 1802) to W. Wordsworth, S. T. Coleridge, Lyrical Ballads, ed. by R. L. Brett e A. R. Jones, London, Methuen, 19652, p. 246.
(8) Per una trattazione più ampia rimando a G. Mazzoni, Sulla poesia moderna, Bologna, Il Mulino, 2005, capitoli I, II e III.
(9) Th. W. Adorno, Discorso su lirica e società, cit., p. 50.
(10) Th. W. Adorno, Minima moralia. Reflexionen aus dem beschädigten Leben, trad. it. Minima moralia. Meditazioni della vita offesa, Torino, Einaudi, 1954, 66 (Mélange), p. 114.
(11) Cfr. soprattutto Th. W. Adorno, Engagement (1962), trad. it. Impegno, in Id., Note per la letteratura 1961-68, Torino, Einaudi, 1979, pp. 89-110 e Id., Teoria estetica, Torino, Einaudi, 1977, pp. 410 ss.
(12) Th.W. Adorno, Discorso su lirica e società, cit., p. 47.
(13) A. Berardinelli, Effetti di deriva, in Il pubblico della poesia, a cura di A. Berardinelli e F. Cordelli, Lerici, Cosenza, 1975.
(14) Cfr. per esempio F. Fortini, Mandato degli scrittori e fine dell’antifascismo, in Verifica dei poteri (1965), e Id. Opus servile (1989), entrambi in Id., Saggi ed epigrammi, a cura di L. Lenzini, Milano, Mondadori, 2003, pp. 176 ss. e pp. 1641-52.
(15) Cfr. J. P. Vernant, Les Origines de la pensée grecque (1962), trad. it. Le origini del pensiero greco, Milano, SE, 2019, p. 52.
(16) «La creazione lirica spera di conseguire l’universale attraverso un’individuazione senza riserve». Th. W. Adorno, Discorso su lirica e società, cit., p. 47.
[Immagine: © David Leventi, Teatro Regio, Torino].
Caro Guido
Ma non l’avevi già detto tutto questo? In ogni caso, ogni volta che ti leggo mi dico “bene, splendido riassunto della fine di un’epoca”. Mi manca il dopo: se la fine è, perché è, è il Reale che diventa mythos? Non è più la distinzione lirica vs postlirica. Siamo già nel “post”. Più che altro come dovremmo reagire alla caduta avvenuta del soggetto bell’oggetto? Ma anche questa è questione trita, heideggeriana.
SEGNALAZIONE
http://www.poliscritture.it/2019/10/28/ma-cose-sta-noe/
“ 1981 [settembre] – sono venuto / a trovarti / caro poeta / era un po’ tardi / era chiuso / c’erano tre / vigilantes / uno mi fa: / lei dove va? / il travertino / dell’università / era bianco / le luci / gialle / e giallo anche / il cartello: / festival / dei poeti. “.
“New York, novembre o dicembre 1938
Ho sognato che Hölderlin era chiamato Hölderlin perché suonava sempre un flauto di legno di sambuco [Holunderflöte]”.
Theodor W. Adorno, Traumprotokolle., herausgegeben von Christoph Gödde und Henri Lonitz, Surkamp Verlag, Frankfurt, 2005 p. 10
Guido Mazzoni è sempre il migliore l’unico che sa tenere insieme il Tutto.
” 4 maggio 1984 – L’intervento di Fortini al convegno sulla poesia? Dormiva e russava. Quando toccava a me si era fatto tardi. Intanto la vecchia professoressa zitella riceveva nel retrobottega le attenzioni di quel sadico del pizzaiolo. (Un sogno) “.
“ Lunedì 4 marzo 2002 – Stamani penso che aveva ragione il mio quasi maestro Fortini ha insistere tanto sul « mandato sociale » (degli scrittori). Penso che quando si scrive è bene sapere per chi lo si fa, chi ti ha chiesto di farlo, perché e come è stato deciso che qualcuno scrivesse. Naturalmente il concetto di « mandato sociale » è più ricco di questi poveri esempi. La società non si scomoda per così poco, dico per istigare qualcuno a mettere quattro parole in fila. Il « mandato sociale » ha dimensioni storiche, epocali, è un mondo intero che « manda », che allestisce gli specchi in cui contemplarsi. Comunque sono cose che bisogna sapere. A non saperle, invece di un « mandato », si rischia di scoprire solo che ci sono « mandanti », anche nel senso più criminoso del termine. Il mio quasi maestro Fortini, essendo poi, come era, un professore – in questa veste l’ho conosciuto io -, aveva di fatto deciso che, per quanto riguardava la letteratura, i soli che potevano rivendicare l’esistenza di un « mandato sociale » erano ormai proprio i professori. Dopotutto era questa la lezione che avrei dovuto imparare. (Mi sembra molto probabile che esista un « mandato sociale » dei registi (di cinema). Non giurerei che ne esista uno dei giornalisti, anche se è vero che per fare un « lavoro sporco » un mandante si trova sempre. È assolutamente sicuro che non esiste un « mandato sociale » dei diaristi. A meno di non voler credere che, di ogni disgrazia che ti capita, la colpa è sempre di qualcun altro) “.
“Roma, ottobre 1966
A Roma, con Gretel, in una bella e spaziosa camera d’albergo. Mi accorgo con stupore che nel caseggiato dirimpetto, in un timpano, si è raccolta una folla infinita, una mostruosa marmaglia composta da persone con il cranio rasato e con tentacoli, come mi è già capitato di sognare un’altra volta. Ci minacciano e allora scopro che sono anche sospesi, come grappoli d’uva, proprio sotto la nostra finestra e sono pronti a slanciarsi su noi. Mi sveglio, con un senso indicibile di orrore. (Qui il motivo potrebbe essere la formazione di un’ala cinese nel Partito Comunista Italiano).”
Theodor W. Adorno, Traumprotokolle., herausgegeben von Christoph Gödde und Henri Lonitz, Surhkamp Verlag, Frankfurt, 2005 p. 63
“ Martedì 29 ottobre 2019 – Poi c’è Occhetto che dice « Ezra Pound » invece di « Casa Pound ». Dove si vede che la poesia non sta messa così male come si dice. “.
Contro le robinsonate liberali di Mazzoni
1.
« La poesia non muta nulla».
Avere il naso ( o gli occhi, ecc.) cambia il mondo? No. Il naso (ecc.), però, ce lo teniamo perché ci serve per conoscere quantomeno gli odori (e le puzze) del mondo. Così accade per la poesia. Non è che si fa poesia per cambiare il mondo ma per conoscerlo anche attraverso la poesia. Nel suo non avere « quasi alcun rapporto con la politica intesa come prassi», se si cancella il «quasi» si commette un errore mortale.
2.
«Se oggi centinaia di scrittori firmano un appello a favore dei migranti, la politica non se ne occupa; se Claudio Baglioni ne parla al festival di Sanremo, allora questo è un evento politico. Nel 2000 centinaia di intellettuali si schierarono per la cancellazione del debito dei paesi in via di sviluppo: la politica non se occupò. Poi Lorenzo Cherubini, in arte Jovanotti, ne parlò al festival di Sanremo e due giorni dopo venne ricevuto, insieme a Bono Vox, dal presidente del consiglio Massimo D’Alema».
La politicità dei portatori o produttori di linguaggi (scrittori, Jovanotti, Bono Vox, ecc.) starebbe nel grado di ascolto che riescono ad avere dai potenti di turno (D’Alema o altri)? Il problema dei migranti sta lì irrisolto e aggravato. Sia dopo l’appello di centinaia di scrittori che dopo il ricevimento di Jovanotti da parte di D’Alema. Anche Jovanotti non ha mutato nulla. E allora perché sopravvalutarne il peso politico? « La poesia non muta nulla»? Ma anche la canzone non muta nulla. Per spostare i rapporti di forza tra dominati e dominanti ci vuole altro. Fortini lo sapeva: «Certo aveva ragione quel grande scrittore e poeta cinese che negli anni Trenta circa diceva che una canzone battagliera anche di pessima qualità, come possono essere gli inni patriottici, serve benissimo per incitare gli animi, per commuoverli, ma che per battere il nemico – Lu Sun parlava degli ufficiali di artiglieria – è meglio usare i cannoni» (Che cos’è la poesia? RAI Educational,8/5/1993). Mazzoni l’ha scordato o non ha mai condiviso questi “estremismi”.
3.
«Il legame fra politica e intelligenza, così forte fra la seconda metà del Settecento e gli anni Settanta del Novecento, si è rotto, e questa frattura è un aspetto decisivo di ciò che chiamiamo populismo. Ora parliamo di poesia».
Che disinvoltura! Si è rotto il legame fra politica e intelligenza e noi che, per questo, siamo diventati sicuramente più intelligenti, ci adeguiamo e, stop, passiamo ad altro: «Ora parliamo di poesia»! Azz, che avanzamento del pensiero critico. Chissà che poesia verrà fuori da tale calata di braghe. No, ora ci sarebbe da discutere del perché s’è rotto questo legame e se e come sia possibile ricostruirlo. Non per riavere quel mandato sociale perso, ma per reinventarlo in altre forme, se *è* indispensabile. E questa da fare è una scelta di politica e di poetica. Se uno fa l’altra, accettando invece la separazione tra poesia e politica, ha tutto il mio disprezzo.
4.
«Il primo volto dell’alienazione contemporanea è il delirio della particolarità, il narcisismo di massa che ha distribuito alle moltitudini, in forma collettiva e depotenziata, gli ideali romantici dell’autoespressione e dell’originalità».
Però. Sia omologare (Adorno citato da Mazzoni) sia portare al delirio le particolarità sempre alienazione resta. E , cioè, noi tutti restiamo in una condizione di sofferenza, di disagio della civiltà, ecc. O i cinquant’anni che ci separano dalla morte di Adorno ci hanno svelato una nuova legge naturale a cui inchinarci?
5.
«Il brulichio egocentrico o neotribale delle soggettività non è una protesta o una liberazione; è invece il compimento, su un piano di massa, della società liberale e della sua capacità di creare piccole bolle di autonomia attorno ai singoli individui. Queste sfere sono la versione impoverita, ma alla portata di molti, dell’emancipazione che ha in mente Adorno. Il risultato complessivo è la moltiplicazione dei micromondi personali o locali».
Se «queste sfere sono la versione impoverita, ma alla portata di molti, dell’emancipazione che ha in mente Adorno», perché bisognerebbe accettare una versione impoverita dell’emancipazione? Mazzoni che tipo di emancipazione vuole al posto di quella di Adorno? Quella liberale, mi pare. (Cfr. 7)
6.
«Ogni individuo ha il bisogno ontologico di esprimere se stesso; se il mondo frustra un desiderio simile, la frustrazione è percepita come una violenza. Ma se l’esigenza di autoespressione unisce, il contenuto delle autoespressioni divide: quanto più si lasciano le soggettività libere di prendere la parola, tanto più il mondo comune si segmenta in piccoli mondi divergenti.»
Ma è perché *non sono* libere che reagiscono così. È falsa libertà (Lu Hsun!) da contrastare e sostituire con quella “vera”.
7.
«L’individualismo moderno ha un nucleo antipolitico: distrugge ciò che sta es to meson, in mezzo, al centro dell’agorà, nell’elemento comune che fonda l’idea di verità e di condivisione democratica. L’unica utopia di cui può farsi carico è liberale, microcomunitaria e fondata sulla separazione radicale fra la parte e il tutto: un’utopia di segno molto diverso da quella cui Adorno pensava.»
Mazzoni e arrivato a convincersi che «l’unica utopia» possibile sia quella liberale. Non fa altro che difendere l’io-io. Non vuole più pensare al noi, che potrebbe (l’ ha tentato tra Otto e Novecento) di rivoluzionare il mondo liberale dell’io-io. E credo non voglia sentire neppure più parlare di un problematico, inquieto, io-noi, che residua e resiste, minoritario e marginale, anche dopo i fallimenti di costruzione di un noi socialista/comunista. Un esempio di dogmatismo liberale l’avevo in Montale. Adesso ne ho qui un altro, contemporaneo che ripete l’osceno ritornello «ognuno riconosce i suoi» .
Aggiunta (del lato in ombra della posizione di Mazzoni)
AL VOLO
(dalla bacheca FB di Maria G Meriggi)
La filmmaker ternana Greca Campus ha intitolato un film su queste vicende Lotta senza classe. Qui sta il punto. Da un lato, i rapporti di potere: da almeno due o tre generazioni, le lotte collettive non la spuntano contro il potere invisibile e ferreo del capitale finanziario e della globalizzazione, e le trasformazioni nel modo di produzione sottraggono le basi materiali dell’identità di classe. Dall’altro, l’offensiva ideologica: la classe non esiste, l’unica solidarietà è la beneficenza, non esiste la società ma solo gli individui (Mrs. Thatcher), bisogna farsi “imprenditori di se stessi” come dicevano negli anni’80, il “merito” individuale è la sola misura dell’umanità, la classe retrocede a folla.
E’ la lezione che ripete ancora il liberalismo clintoniano e renziano e che culmina con “uno vale uno” dei cinque stelle (con la patetica parodia Pd del “tu vali tu”).
E’ diventato senso comune, peraltro falso e bugiardo, perché in una società sempre più diseguale è sempre meno vero che uno è uguale a uno. Uno significa semplicemente sei solo, siamo davvero una folla solitaria, in cui sono molto flebili e sempre meno convinte le voci che provano a ricordarci che
noi insieme valiamo più della somma dei nostri uno.
Un tempo lo sapevamo.
( DA https://ilmanifesto.it/dalle-lotte-operaie-fallite-alla-folla-solitaria-di-terni/)
Errata errata corrige
Chiedo scusa, ma solo ora mi sono ricordato bene:
“ Senza data [1974] – « Euneu calì ptobì / E l’occhiata lampeggia / Fatto! / Moi, mon image » (Montale rivisited) “.
In Conversazione su Dante: ‘Per arrivare alla meta bisogna tenere conto del vento che soffia in una direzione diversa e prenderlo. Identica è la legge del bordeggio a vela… Non dobbiamo dimenticare che Dante visse nell’epoca della fioritura dell’arte della navigazione a vela, e poté osservarne i migliori esempi… Il ventiseiesimo canto dell’Inferno è la più velica tra le composizioni dantesche, quella che più bordeggia,che meglio manovra’”.
Serena Vitale, Commento , in Osip Mandel’stam, Quasi leggera morte, Milano, Adelphi, 2017 p.62