Ecologie della trasformazione, rubrica a cura di Emanuele Leonardi

di Laura Centemeri

 

Nei miei lavori mi sono occupata di territori dell’industria ma anche di territori delle grandi infrastrutture, principalmente in Italia (Centemeri 2005, 2017). Ho poco indagato l’interno della fabbrica e il mondo del lavoro e rivolto prevalentemente la mia attenzione alle comunità e alle dinamiche di mobilitazione nei territori.

 

Mi sono dunque occupata di territori abitati ed inquinati e alle diverse forme di danno che l’inquinamento causa, in quanto danno all’ambiente – nel senso generale del termine. Mi sono anche interessata alle diverse forme di riparazione di questi danni. Riparazione, innanzitutto, ma non unicamente, nei termini di una richiesta di giustizia.

 

Mi sono cioè interessata prevalentemente a come emerge in un territorio inquinato una mobilitazione che denuncia l’inquinamento, a partire dalle molteplici esperienze situate del danno all’ambiente. Perché il danno all’ambiente è danno alla salute delle persone, ma anche danno agli ecosistemi, spesso danno d’immagine per una comunità, danno economico, danno che tocca gli affetti – nella morte di persone care, nella distruzione di luoghi cari e dei loro abitanti non umani – , danno che tocca modi di vivere, abitudini, cose banali a cui, però, si tiene.

 

Questa mia riflessione sull’inquinamento e il danno all’ambiente è nata da una ricerca che ho condotto sul disastro di Seveso. In questa ricerca mi sono interessata a quello che è successo dopo la contaminazione da diossina che ha colpito l’area della Brianza milanese compresa tra le città di Seveso, Meda, Desio, Seregno e Cesano Maderno a seguito dell’esplosione il 10 luglio 1976 di un reattore della fabbrica chimica ICMESA di proprietà della multinazionale svizzera Hoffman-La Roche.

 

Questa mia riflessione è stata profondamente marcata dall’incontro con Laura Conti, incontro avvenuto purtroppo solo attraverso i suoi scritti e i racconti delle persone che l’hanno conosciuta. Tra i suoi scritti sono soprattutto il suo libro-testimonianza Visto da Seveso (1977) e il suo romanzo Una lepre con la faccia da bambina (1978) che mi hanno permesso di mettere meglio a fuoco le dinamiche della mobilitazione che seguì l’incidente e in particolare di comprendere alcune delle ragioni che spiegano la sconfitta che a Seveso conobbe il Comitato Tecnico Scientifico Popolare.

 

Il Comitato Tecnico Scientifico popolare fu un organismo di base sorto per iniziativa di un gruppo di personalità scientifiche e del mondo intellettuale dove confluirono collettivi femministi, di studenti e di lavoratori dell’industria legati al sindacato. Un’espressione, dunque, di “ambientalismo operaio” (Barca 2012 Barca e Leonardi 2018). Tra gli intellettuali in primis Giulio Maccacaro che aveva appena lanciato nel maggio 1976 l’iniziativa di costituire il movimento Medicina Democratica e che purtroppo morì prematuramente nel gennaio del 1977 dopo aver consegnato alle pagine della rivista Sapere un’insuperata analisi del disastro della diossina come “Crimine di pace”, in un editoriale che uscì postumo.

 

Parlo di sconfitta perché la gran parte della popolazione di Seveso non appoggiò il Comitato Tecnico Scientifico Popolare nella sua volontà di rappresentare le vittime del disastro e di denunciare i danni subiti, in particolare alla salute, e la loro richiesta di giustizia.

 

Parlo di sconfitta perché così fu vissuta dai protagonisti

In un intervento tenuto nel 1988 in un convegno in ricordo di Maccacaro, Giorgio Bignami, attivista di Medicina Democratica, parla di quello che definisce il “collasso” del movimento a Seveso, che causò scoraggiamento tra i militanti e mostrò che i lavoratori e le forze politiche, come anche “cittadini intimiditi”, non sono contro un certo modello di sviluppo nemmeno quando confrontati alle sue estreme conseguenze (Bignami 1988).

 

Sulla stessa linea di Bignami, gli studiosi Michele Citoni e Catia Papa (Citoni e Papa 2017), in uno scritto dedicato a “Sinistra ed Ecologia in Italia. 1968-1974”, parlano della “scarsa crescita delle soggettività operaie e studentesche nel contesto locale” di Seveso, come ragione principale del collasso del movimento. Aggiungendo che l’analisi e l’elaborazione dei movimenti accorsi a Seveso furono invece “di alto spessore”.

 

Questa spiegazione si basa sull’idea che la mobilitazione conobbe una sconfitta perché il contesto era un contesto di cittadini appunto intimiditi e poco politicizzati; un contesto di istituzioni pubbliche piegate agli interessi del capitale, con lavoratori poco sindacalizzati.

 

C’è molto di vero in questa spiegazione, ma c’è anche una forma di cecità rispetto a quella che fu l’obiettiva difficoltà di questo movimento a comprendere gli abitanti di Seveso e le loro ragioni, e a costruire con questi abitanti un’azione collettiva.

 

E di azione collettiva questi abitanti furono capaci. I cittadini di Seveso portarono avanti per quasi tre anni – dalla fine del 1976 all’inizio del 1979 – una vera e propria lotta contro la regione Lombardia che aveva proposto la costruzione di un inceneritore nella zona più contaminata dal disastro, la Zona A. L’inceneritore doveva servire a smaltire in modo sicuro i rifiuti tossici della bonifica. Nella zona A, dopo l’evacuazione degli abitanti, si era proceduto a distruggere le case, estirpare tutta la vegetazione, ad abbattere a scopo preventivo i capi di bestiame e ad asportare la parte superficiale del suolo.

 

Parlo di lotta perché si arrivò a gesti molto forti come quello di un gruppo di donne di Seveso che bloccarono con i loro corpi alcuni camion che trasportavano rifiuti tossici da altre zone inquinate verso la zona A.

 

Il cosiddetto “Gruppo di lavoro e di coordinamento” che si creò per coordinare appunto la lotta, federò diversi comitati spontanei di artigiani, di casalinghe e di giovani, oltre a gruppi di quartiere. Questo gruppo di lavoro non chiese che l’inceneritore fosse costruito altrove. Chiese che non fosse costruito nessun inceneritore e che si sperimentasse invece la tecnica utilizzata per i rifiuti radioattivi, cioè creare nella zona A delle discariche speciali interrate, procedendo poi a una riforestazione della superficie per creare un bosco. Il che fa sì che oggi a Seveso nell’ex zona A c’è un parco, il “Bosco delle Querce”, che la regione Lombardia ha riconosciuto recentemente come area di interesse naturalistico. Si trattò della prima esperienza di riforestazione in Lombardia e di un caso che ha fatto scuola.

 

Questa mobilitazione contro l’inceneritore e per il bosco trovò l’appoggio non solo delle autorità comunali ma anche di scienziati e ambientalisti italiani e stranieri, tra cui il noto attivista americano Barry Commoner. Per quest’ultimo, la contestazione al progetto dell’inceneritore si basava principalmente su argomenti di tipo tecnico, che mettevano in dubbio l’efficacia e la sicurezza dell’impianto. Per molti cittadini, invece, la critica contro l’inceneritore poggiava sul fatto che avrebbe stravolto il loro territorio, ne avrebbe irrimediabilmente compromesso il paesaggio, avrebbe reso indelebile il disastro. Nonostante non pensassero esattamente la stessa cosa, queste diverse resistenze si trovarono d’accordo, seppure temporaneamente, e si riconobbero reciprocamente in una comune volontà di proteggere Seveso da un ennesimo scempio industriale.

 

Mi sono dilungata perché non mi torna che una popolazione capace di una lotta così sia poi la stessa popolazione descritta come intimidita e incapace di comprendere la gravità del danno della diossina e i veri responsabili di quel “crimine di pace”.

 

Certo, Seveso non era e non è una città operaia, era una città in prevalenza artigiana e in prevalenza di cultura cattolica. Ma un errore del Comitato Scientifico Tecnico Popolare fu proprio quello di non fare attenzione a come fosse organizzata la vita a Seveso, a che lingua si parlasse, per così dire. L’errore fu allora di arrivare sì con analisi di alto spessore ma senza cercare le buone traduzioni, le buone mediazioni e i giusti mediatori, adeguati rispetto al contesto, capaci di rendere le “analisi di alto spessore” sensate a partire dall’esperienza di vita di quel luogo, della sua storia e dei modi condivisi di vedere.

 

Come scrissero De Luca, Romano e Rozzi in un articolo del celebre numero di Sapere dedicato a “Seveso un crimine di pace”: «Se i movimenti di sinistra vogliono confrontare la realtà del problema di socializzare il sapere in una popolazione colpita dalla catastrofe, allora non possono ignorare il ruolo svolto dalle forme comunitarie di aggregazione nel creare partecipazione o nell’indebolirla. Si tratta di un approccio diverso alla partecipazione che apertamente fa i conti con il bisogno di includere la varietà di forze sociali che sono attive nel territorio”.

 

Come ricorda Andrea Poggio, che partecipò alle attività del Comitato tecnico scientifico popolare di Seveso: “A Seveso arrivarono il nuovo ambientalismo di sinistra, i tecnici e i gruppi e diedero vita al “comitato popolare”, ma erano impreparati a parlare con la gente. Per cui gli abitanti vedevano una politica fatta sulla loro testa, da noi non meno che dalle istituzioni, e ci respinsero” (cit. in Citoni e Papa 2017).

 

Le ragioni culturali del fallimento del Comitato Tecnico Scientifico Popolare furono comprese chiaramente da Laura Conti. All’epoca dell’incidente all’Icmesa Laura Conti aveva 55 anni. Stava finendo di scrivere Che cos’è l’ecologia (1977b), un piccolo classico della divulgazione scientifica. Da sei anni era consigliere alla Regione Lombardia per il Pci, mentre continuava la sua attività di medico scolastico e del lavoro all’Inail. Coinvolta in prima persona nei fatti di Seveso, Laura Conti ne fu profondamente segnata, al punto di scrivere che l’inquinamento di Seveso aveva costituito, per lei, una svolta. Fu infatti a partire da Seveso che Laura Conti precisò la sua idea di «ambientalismo scientifico» che avrebbe poi trovato, nel 1980, nella creazione della Lega per l’Ambiente un tentativo di tradursi in pratica politica. Tentativo che doveva poi rivelarsi in parte deludente negli esiti, visto che la prospettiva di Laura Conti restò per lo più di minoranza.

 

A base del suo ambientalismo scientifico c’era una visione dell’ecologia come «scienza di esperienza». In un testo dell’attivista milanese Angela Alioli, alla cui generosità nel trasmettermi la sua esperienza di amicizia e collaborazione con Laura Conti devo molto di quello che oggi so di questa fondamentale figura dell’ambientalismo italiano, ho trovato riportata questa definizione che Laura da dell’ecologia: «L’ecologia si serve delle scienze sperimentali ma non è una scienza sperimentale: è una scienza di esperienza e non di esperimento, perché non può lavorare su modelli della realtà ma può soltanto osservare la realtà”.

 

Per Laura Conti un ambientalismo scientifico è un ambientalismo che cerca di costruire ponti tra l’esperienza soggettiva dell’ambiente e il sapere che le scienze (naturali e sociali) producono su questo stesso ambiente. Un ambientalismo scientifico si deve anche interrogare su come le persone e le comunità costruiscono la loro relazione all’ambiente, su cosa conta per loro in questa relazione.

 

Cosa debba contare, e come, lo determinano in larga parte le condizioni sistemiche e le strutture. Eppure c’è sempre un margine di non totale determinazione. E’ anche dalla comprensione del contesto e delle forme specifiche della sua irriducibilità alle dinamiche strutturali che è possibile partire, per trovare nuovi e diversi margini di manovra, a volte minimi, per trasformare dal basso queste relazioni, che sono relazioni tra umani, ma anche tra umani e non umani.

 

Laura Conti fu profondamente consapevole dell’intreccio di materialità e cultura che dà forma alle relazioni ecologiche. Voglio citare un passaggio da questo punto di vista esemplare che troviamo in Visto da Seveso (1977a: 85):

“Cominciavo a rendermi conto che “ambiente” non è solo l’insieme di acqua, aria, terra; che non si può considerare l’uomo nel suo rapporto con la natura se non lo si considera anche nel suo rapporto con gli altri uomini, e nel suo rapporto con gli oggetti che fabbrica o con le piante che coltiva. Considerare “i sevesini” non aveva senso se non si consideravano anche gli orti dietro le case e le araucarie davanti alle case (…) Che rapporto possa esserci tra lʼuomo e il territorio non lo rivela lʼoperaio, soldato di ventura del capitale. Non lo rivela nemmeno il contadino, perché il contadino può trasformarsi in pioniere, e dove ci sono zolle sotto i suoi piedi e un corso dʼacqua là è la sua patria, magari solitaria. Lo rivela invece lʼartigiano di tipo brianzolo, un artigiano che realizza una divisione del lavoro con gli altri artigiani, io faccio le parti in legno, tu le parti metalliche, lui le parti in cuoio, e lʼoggetto – il salotto per gli sposi – è il prodotto non di una bottega ma di un territorio, di un rapporto fra momenti lavorativi insediati lʼuno accanto allʼaltro, in una curiosa dialettica di integrazione e competizione”.

Non stupisce che Laura Conti sia stata spesso considerata un’eretica, dentro il PCI ma anche dentro Legambiente. Chi l’ha conosciuta parla della sua marginalità e del coraggio con cui sempre portò avanti posizioni scomode, spesso fraintese, come quella a difesa della caccia.

 

Questo perché lei colse con grande capacità di visione che le questioni della comunità e del legame al territorio erano importanti e che, a sinistra, bisognava trovare un modo per prenderle sul serio. Cioè bisognava capire su cosa poggiava il senso di identità e di comunità delle persone e lavorare per farlo evolvere verso un’apertura a un orizzonte di lotta comune – che per Laura Conti resterà sempre la lotta di classe – ma una lotta in cui si doveva poter partecipare vedendosi riconosciuti anche nella propria differenza.

 

Per esempio, Laura Conti cercò di identificare a Seveso una proposta politica da rivolgere ai sevesini in cui il loro legame con il territorio venisse riconosciuto come valore, al tempo stesso articolandolo a una causa più generale. Questa proposta politica fu quella di una bonifica intesa come momento collettivo, processo condiviso e partecipato tra istituzioni e cittadini. Scrive Laura Conti (1977a: 88):

“La rimozione della terra inquinata avrebbe potuto diventare un grande impegno collettivo, una colossale impresa nella quale il recupero dell’identità sarebbe avvenuto in chiave di lotta per un mondo salubre e pulito: pulito non solo rispetto alla diossina, ma anche rispetto alla mortificazione di essere stati calpestati e vilipesi come la “pattumiera d’Europa” (…). L’idea di un grande impegno per rimuovere prima i vegetali e poi la terra inquinata nasceva – è ovvio – da una considerazione tecnica (…) ma aveva un valore, un significato assai più che tecnico: un valore di coinvolgimento collettivo, di recupero dell’identità a un livello più alto. (…) lo slancio della bonifica – se della bonifica si fosse riusciti a fare non soltanto un fatto tecnico ma un fatto di partecipazione – avrebbe richiamato intorno a questo popolo la solidarietà di tutta Italia e anche dei popoli stranieri. La bonifica come atto di speranza, ma soprattutto come atto di volontà”.

 

C’è da dire che Laura Conti non fu tenera coi sevesini, non tacque sulle discriminazioni verso gli immigrati veneti e meridionali, sull’emergere prepotente di quel “noi” e “loro” nel dopo disastro. Lo raccontò nel romanzo Una lepre con la faccia da bambina, perché Laura Conti amava passare dal registro insieme rigoroso e accessibile dei suoi saggi al registro narrativo del racconto di finzione, ma sempre frutto di esperienza. Perché era l’esperienza che le interessava.

 

Laura Conti non fu dunque tenera con i sevesini ma non li considerò né irrazionali, né incapaci di vedere i problemi, né in una situazione di diniego rispetto a quello che succedeva. Vedevano benissimo quello che succedeva e il problema, forse, stava proprio lì. Si interessò invece a quello a cui le persone davano importanza e che le conduceva a definire delle priorità a volte incomprensibili a uno sguardo esterno. Fu antropologa, parlò tantissimo con la gente di Seveso, fu vicina a loro riconoscendone la sofferenza. Anche quando si trovava su posizioni lontanissime cercava una via per comunicare come primo passo per una relazione trasformatrice. Riconoscere la cultura dei sevesini non voleva dire per lei non sfidarla: voleva dire pensare la trasformazione come il risultato di una relazione da cui nessuna delle due parti può uscire indenne.

 

Dietro alla tragedia ecologica, Laura Conti intuì la tragedia culturale di Seveso, la tragedia di individualismi rampanti a cui rispondevano altrettanto inquietanti comunitarismi, come quello del movimento cattolico Comunione e Liberazione per cui il disastro di Seveso fu un banco di prova politico importante. La tragedia di un’identità sempre più legata al possesso, quella “idea del possesso tracannata come un cognac di fuoco e di vita a ogni nuovo mattino” che già Gadda ne La cognizione del dolore aveva individuato come tratto distintivo dei brianzoli. Questa tragedia culturale aveva contribuito ad aprire la via allo scempio che l’Icmesa faceva impunemente dei territori di Seveso e Meda da anni, ben prima del 10 luglio 1976.

 

Voglio di nuovo citare Laura Conti, questa volta riprendendo una sua intervista contenuta nel libro di Marcella Ferrara Le donne di Seveso (1977), libro che racconta il dramma delle donne incinte coinvolte nel disastro e che furono confrontate alla decisione se abortire o meno, in ragione del rischio teratogeno della diossina. La violenza che tutte queste donne subirono, quelle che abortirono come quelle che non abortirono, è uno dei crimini più odiosi rimasti impuniti nella vicenda dell’Icmesa.

 

Racconta Laura Conti a Marcella Ferrara:

“Queste donne alle quali voglio bene e che mi vogliono bene, continuano a dirmi: io non sono comunista, ma con lei si può parlare. E mi sono resa conto che per loro, cattoliche come sono, l’aborto è un delitto infame. L’idea che la società provveda all’aborto l’avrebbero accettata se avessero visto la società muovere cielo e terra per far fuori la diossina. Allora avrebbero detto: bene, si fanno tante cose, fra queste c’è anche l’aborto. Invece non c’è stato niente d’altro, solo l’aborto. (….) E’ gente conformista in molti sensi negativi della parola, ma anche in un senso positivo. Perché il loro conformismo discende dall’ipotesi che ognuno faccia bene il proprio mestiere. (…) Il loro conformismo nasce dunque da questo presupposto favorevole, il loro pregiudizio è favorevole. Se [la diossina] fosse velenosa non lascereste i nostri bambini nel pericolo, vuol dire che non è pericolosa. Questo ragionamento che sembra idiota, perché appare come una delega totale, è in fondo il ragionamento di gente onesta che aspetta onestà dagli altri. (…) Mi rendo conto che quanto dico fa apparire il mio amore per questa gente un amore da antropologa: non appartengo certo a questa vita, a questo costume. Ma per poterli capire, per poterli descrivere, ho bisogno di amarli”.

Di nuovo, credo che emerga distintamente da questo passaggio il modo rivoluzionario in cui Laura Conti si pose rispetto alla comunità contaminata di Seveso. Cioè prima di tutto in ascolto e con la volontà di stabilire una relazione reale (“ho bisogno di amarli” dice) in cui si da riconoscimento, pur nella differenza. La sua fu un’attenzione amorevole, appunto, ma non in senso pietistico; di un amore che trasforma se stessi (Laura Conti fu trasformata da Seveso) e gli altri, attraverso la relazione.

 

Vorrei concludere sottolineando l’attualità di queste riflessioni di Laura Conti.

 

Penso che lo studio e il presidio delle comunità inquinate e contaminate dall’industria, le comunità dell’ambientalismo operaio, sia cruciale per l’avanzamento di una lotta ecologista e per la costruzione di alleanze capaci di elaborare nuovi immaginari sociotecnici per una società ecologica. Questo studio non può fare l’economia di una comprensione dell’esperienza di chi vive in queste comunità. Per questo è importante interessarsi a quali linguaggi e quali categorie usino le persone per dire la loro condizione. A cosa tengano, cosa importi loro. Cosa dicono e cosa tacciono. Perché in questi linguaggi e nel riconoscimento di quello a cui si tiene ci sono a volte risorse inaspettate da cui partire per costruire una forma di critica e di resistenza.

 

In questo senso, l’ambientalismo operaio non può fare l’economia di andare ad ascoltare anche chi non parla pubblicamente, chi non si mobilita in modo evidente. In queste comunità c’è bisogno di analisi sistemiche di alto spessore ma anche di lavorare alla costruzione di un senso comune della situazione che accolga elementi della cultura locale e li apra a un orizzonte di lotta più ampio. Ma questa cultura locale va innanzitutto conosciuta.

 

Questo vuol dire che nei territori inquinati c’è bisogno di alimentare e sostenere diverse forme di attivismo, includendo il più possibile gli attori della vita associativa locale, favorendo il loro incontro e creando le condizioni per forme di dialogo.

 

Fondamentali a questo scopo sono persone capaci di abitare diversi mondi dell’esperienza e di metterli in relazione, diversi mondi di costruzione di collettivo e di comunità. Persone capaci, nello svolgimento delle loro funzioni, di tradurre, di rendere comprensibile, anche di adattare un discorso a delle sensibilità, senza tradirne il senso ultimo. Alex Langer parlava di “traditori della compattezza etnica” nel suo “Decalogo per la convivenza inter-etnica”. Ecco, mi sembra che ci sia bisogno per la costruzione di un fronte comune ecologista di qualcosa di simile, di “traditori della compattezza”. Traditori che, si badi bene, non sono però mai dei “transfughi”.

 

Certo, il compito è arduo anche perché stiamo parlando di comunità che l’inquinamento industriale ha corroso per decenni dall’interno, creando connivenze, a volte ricercate, spesso subite. Sono comunità rese fataliste dai tradimenti successivi delle istituzioni. Sono territori in cui all’industria è stato dato colpevolmente il potere di determinare in modo incondizionato la vita di intere popolazioni, escludendole dal calcolo costi-benefici. Citando ancora una volta Laura Conti: “Il calcolo costi-benefici lo deve fare chi paga i costi”. (1977a: 72).

 

Sono comunità rovinate in molti sensi. E nelle rovine c’è bisogna di un ambientalismo che denuncia e contesta senza mezzi termini un sistema che produce morte ma anche di un ambientalismo che si mette, per quel che possibile, a riparare. Non nel senso di mantenere lo status quo o rendere sopportabile l’insopportabile ma di creare, con quello che è rimasto, una tessitura di relazioni ecologiche e umane che permetta di creare nuove forme di vita ecologica e sociale su quei territori, per quel che possibile. L’impegno per mantenere e riprodurre queste forme di vita “altre” in territori rovinati è allora un argine alla distruzione e al degrado e una forma di resistenza, ma anche una scelta di speranza.

 

Bibliografia

 

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Maccacaro G.A. 1976. Seveso, un crimine di pace, in Sapere, vol.79, n.796, pp. 4-9

 

Altri articoli della rubrica:
1. Politica, ontologie, ecologia, 22.2.2019
2. La natura è un campo di battaglia, di Razmig Keucheyan, 14.3.2019
3. Malaterra, di Marina Forti, 26.4.2019
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[Immagini: Seveso, 1976].

1 thought on “L’ambientalismo operaio visto da Seveso

  1. Ho conosciuto Laura Conti che avevo 14-15 anni. Fu per me davvero una guida nelle occasioni che ebbi di incontrarla e discutere. Una vera maestra di ecologia e comunismo. Grazie per averla ricordata.

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