di Andrea Cortellessa
[Questa relazione è stata tenuta in occasione dell’incontro Filologia e leggenda. Giornate di studio per Michele Mari, a cura di Riccardo Donati, Andrea Gialloreto e Fabio Pierangeli, Roma, Biblioteca Nazionale Centrale, 11-12 ottobre 2019].
Magari in questa sede non c’è bisogno di specificarlo, ma Leggenda privata è uno dei libri più belli che siano stati pubblicati, nella nostra lingua, negli ultimi quindici anni. Forse il più bello. E non è un caso, forse, che almeno altri tre titoli candidabili a questo podio ideale – cioè, insieme a questo appena citato, La vita dei dettagli di Antonella Anedda e Geologia di un padre di Valerio Magrelli – siano i primi, dei rispettivi autori, a potersi definire «iconotesti» (ne ha parlato qui Andrea Santurbano).
Fra le opere che ho appena citato più ravvicinata è la somiglianza, di Leggenda privata, con Geologia di un padre di Magrelli: pubblicato dallo stesso editore quattro anni prima e che, come quello di Mari, è dedicato al rapporto ambivalente dell’autore coi propri genitori (sebbene in quello di Magrelli ad essere citato nel titolo sia solo il padre, e a questo sia quasi per intero dedicato, vi figura anche una pagina lancinante su sua madre; il padre Enzo e la madre Gabriela detta «Iela» sono invece in pari grado protagonisti di quello di Mari). Mentre in Geologia di un padre le immagini inserite all’inizio del testo sono disegni del padre ingegnere Giacinto, in Leggenda privata non figurano disegni o bozzetti del padre Enzo, grafico e designer di fama internazionale, ma fotografie in gran parte da lui scattate (come quella che figura in copertina e che, vedremo, ha un’importanza strategica), comunque appartenenti all’archivio di famiglia.
Diversi incunaboli importanti del genere iconotesto, specie all’intersezione cruciale di questo con la vocazione autobiografica, mostrano questo stesso carattere “archeologico” o, per dirla appunto col lessico di Mari, “filologico” (superflua forse l’avvertenza che è una filologia paradossale quella esercitata su materiali di esclusiva pertinenza “privata”: rivelandosi dunque quella che è, a tutti gli effetti, inverificabile “leggenda”). Due libri usciti nello stesso 1975 (annus mirabilis di questa tradizione: è l’anno in cui esce, anch’esso da Einaudi come i precedenti, il da loro diversissimo La Divina Mimesis di Pasolini) sono per esempio Barthes di Roland Barthes (cinque anni dopo tradotto da Gianni Celati) e Lettura di un’immagine di Lalla Romano (nelle successive edizioni ribattezzato Romanzo di figure e Nuovo romanzo di figure). In entrambi i casi i documenti fotografici sono appunto prelevati, dai rispettivi autori, entro l’archivio famigliare; ma mentre assai diverse sono le fonti e le ispirazioni delle immagini nel programmaticamente eteroclito e frammentario testo di Barthes, eccezionalmente compatto e coerente si presenta il corpus commentato da Romano: fotografie tutte scattate dal padre Roberto fra il 1909 e il 1913, e tutte raffiguranti sua moglie, cioè la madre di Lalla, oppure la stessa bambina che comporrà il libro più di sessant’anni dopo: quando cioè aveva fra i tre e i sette anni d’età.
È interessante, pensando alla struttura che avrà Leggenda privata, quello che dice Barthes nel corsivo che introduce al suo libro e, specificamente, alle immagini che la fanno da padrone al suo inizio. Queste sono per lui «le figurazioni d’una preistoria del corpo – di questo corpo che si avvia al lavoro, il godimento di scrittura». L’autore si è posto infatti una contrainte: «il tempo del racconto (del repertorio d’immagini) finisce con la giovinezza del soggetto: esistono biografie solo della vita improduttiva». Una contrainte che in sostanza impedisce al testo di poter essere considerato un’autobiografia, genere che per sua tradizione retrospettivamente riassume l’esistenza da un punto d’arrivo, magari provvisorio, ma comunque ben inscritto nel testo, dal quale l’autore racconta “come è diventato ciò che è”, per dirla alla maniera di Nietzsche. All’opposto, se nel testo di Barthes il luogo dell’origine è fissato da un punto preciso – è il caso anzi di dire un punctum – iscritto alla prima pagina (la prima fotografia raccolta, lievemente sfocata come se filtrata dai veli della memoria, ritrae «la madre del narratore» – esplicita una nota in fondo al testo – «verso il 1932»), il luogo d’arrivo, cioè la stazione dalla quale si scrive, seppur datata con precisione al «6 agosto 1973» non propone al lettore una prospettiva ben identificata (neppure nella forma della retroversione ciclica – raccontando cioè, alla fine del racconto, il momento del suo inizio – alla maniera di quello che è il grande modello di Barthes, la Recherche).
Il che si spiega con una teoria della scrittura, e bisogna anzi dire in questo caso dell’écriture, che non credo Mari potrebbe condividere, e cioè che nella vita adulta sia appunto la scrittura a farsi in sé protagonista, così istituendo quella che Barthes chiama la dimensione del neutro: per cui «il Testo stesso» (si noti la maiuscola) «spossessa» il suo autore della «sua durata narrativa». Dunque il repertorio di immagini commentate (con vere e proprie didascalie, segnalate dal carattere corsivo) «si ferma […] alle soglie della vita produttiva»: che, mitobiograficamente, Barthes fa coincidere con una soglia eterotopica (per dirla alla maniera di Foucault), «l’uscita dal sanatorio» dove passò diversi anni, fra il 1942 e il ’46, a curarsi una tubercolosi. Nella parte seguente (Barthes di Roland Barthes, come a ben vedere dice già il suo titolo, consiste di due sezioni molto diverse fra loro: una rivolta al passato, in cui prevale l’immagine, e una rivolta al presente – è a tutti gli effetti un «diario» – in cui viceversa prevale la scrittura) le immagini inserite nel testo non saranno più fotografie, ma solo disegni dello stesso Barthes, cioè «immagini […] tracciate dalla mano»: che, sempre nella concezione dell’autore, non sono che forme diverse della medesima attività grafica, della medesima écriture o – come allora dovremmo meglio tradurre questo termine – della medesima scrizione.
Ben diverso il temperamento di Mari, certo. Eppure pare scritta per lui questa didascalia di Barthes: «Del passato, è l’infanzia che mi affascina di più; solo lei, a guardarla, non mi dà il rimpianto del tempo abolito. Perché non vi scopro l’irreversibile ma l’irriducibile: tutto quello che è ancora in me, a tratti; nel bambino leggo in trasparenza la parte oscura di me stesso, la vulnerabilità, la tendenza alle disperazioni (fortunatamente plurali), l’emozione interna esclusa da ogni espressione per la sua infelicità». La sanguinosa infanzia, cioè. Quello che viene dopo, ha detto di recente Mari a Carlo Mazza Galanti nella conversazione da lui accoppiata a un’altra con Walter Siti in un libro cui ha dato il titolo – sincretistico, proprio come quello di queste giornate – di Scuola di demoni (minimum fax 2019), «è un tema di nessun interesse» («narrativamente preferisco fermarmi prima: Michele Mari scrittore, cioè Michele Mari strutturato e fortificato, non è un tema letterariamente interessante per me»). Più in generale, esclusa dal campo del narrabile per Mari è la sua vita adulta (c’è naturalmente un’eccezione, e macroscopica, Rondini sul filo: che non a caso però rappresenta, della sua opera, la parte maledetta, quella finora esclusa da ogni ripubblicazione seguita alle periodiche ricollocazioni editoriali dell’autore; ne ha parlato qui Andrea Gialloreto).
Sempre in Scuola di demoni sostiene Mari che l’apparato iconografico di Leggenda privata non sarebbe un’idea sua: «le fotografie sono state un’idea dell’Einaudi. Quando hanno visto quella che ho proposto per la copertina mi hanno chiesto se ne avessi altre […] è stato molto naturale, erano immagini che corrispondevano a tanti passaggi scritti. Il libro l’avevo già scritto tutto senza foto, quindi ho dovuto rimetterci mano per creare gli incastri: in alcuni casi mi sono limitato a inserire l’immagine tra due paragrafi, in altri l’ho dovuta sorreggere con un piccolo ingresso verbale o una didascalia». Non sarebbe questa la prima volta, peraltro, che un iconotesto nasca, in quanto tale, per caso; ovvero per iniziativa editoriale. Anche il testo letterario col quale convenzionalmente si fa cominciare questa tradizione, il romanzo Bruges-la-Morte di Georges Rodenbach, non solo nasce ma conosce una prima pubblicazione – come feuilleton, sulle pagine del quotidiano «Le Figaro» – senza appunto le trentacinque fotografie della città che dall’autore verranno concordate, coll’editore Flammarion nel 1892, in sostanza come riempitivo. Eppure a posteriori i suoi interpreti concordano sul valore appunto non meramente illustrativo, ma a tutti gli effetti diegetico e più in generale di senso, appunto delle immagini inserite nel testo (come dichiara lo stesso autore, del resto, nella nota che vi prepone; il che rende non meno che assurda, per inciso, la scelta ricorrente di pubblicarlo senza quelle immagini – come è avvenuto in tutte e quattro le diverse sue edizioni italiane – o, con scelta ancora più irrispettosa, con altre immagini, diverse da quelle da lui previste: crux filologica, questa, che sintomaticamente accomuna molti snodi-chiave della tradizione iconotestuale).
Come che siano più o meno leggendariamente andate le cose, l’emergere dell’archivio di famiglia in Leggenda privata è da mettere in relazione al parallelo emergere “vero”, fra tutte le virgolette del caso, di una biografia famigliare precedentemente allusa solo in chiave metafisica (in Tu, sanguinosa infanzia) e/o allegorica (in Verderame). Sono del resto biografie entrambe profondamente legate all’immagine, quelle dei genitori di Michele trasfigurati nei Demoni che, nel frame horror del libro, emergono quali revênants per ingiungergli di scrivere la sua autobiografia (che equivale, appunto, alla loro storia); e che impongono al figlio il disoccultamento di questo suo ereditato tesoro-maledizione. Uno schema narrativo che si lascia leggere sulla falsariga di tanti racconti di Tommaso Landolfi: autore a Mari da sempre caro, e la cui matrice – tanto strutturale che stilistica e motivica – è evidente in Leggenda privata.
Tanto poco casuali e marginali, risultano in effetti le foto in quest’opera, che Mari col suo prestigio autoriale è riuscito nell’impresa (s’immagina non semplice, stanti le abitudini dell’editoria senza editori di oggi) di far ristampare la sua tiratura, funestata in prima impressione da una loro stampa risultata, agli occhi dell’autore, troppo opaca (sicché, grazie alla mia attività di gazzettiere letterario, sono ora fiero possessore di un esemplare di questa serie-Gronchi rosa).
Che il mondo delle immagini sia, per Mari, mitobiograficamente originario e a un tempo oggetto di una rimozione, contribuisce a dimostrarlo il destino editorialmente laborioso di quello che, insieme alle poesie ipermanieriste di recente svelate al pubblico con la pubblicazione della “bianca” Einaudi che reca il metatestuale titolo di Dalla cripta, va considerato il suo vero punto di partenza come autore: che, racconta sempre a Mazza Galanti, dopo alcuni pre-testi infantili e adolescenziali debitamente fantascientifici o horror (l’aurorale Incubo nel treno e poi addirittura un intero romanzo che anticipava la trama del Pianeta delle scimmie – la cui visione, di lì a poco, contribuirà a turbare, nel narratore in erba che si immagina a quell’altezza non avere ancora letto Borges…, la concezione lineare del tempo –, un iper-leopardiano racconto irridente le formule trite della manualistica letteraria, intitolato com’era Pessimismo galattico, eccetera), «in quegli anni […] aveva soprattutto disegnato, aveva fatto fumetti da Calvino, Ariosto, Foscolo, aveva messo tutte le sue energie e la sua creatività nel disegno». Oggetto di una prima edizione ridotta, col titolo I Sepolcri illustrati dal piccolo editore abruzzese Portofranco nel 2002, in questi giorni di questi fumetti – per fortuna non ribattezzati, come vuole uno stucchevole vezzo contemporaneo, graphic novels – è uscita un’edizione più ampia, e tipograficamente fastosa, col titolo di una delle storie ivi raccolte, La morte attende vittime. Eppure (sebbene NERO sia una sigla editoriale a sua volta appartata, dal punto di vista letterario, ma viceversa nell’ambiente artistico percepita con aura ben diversamente glamour) anche in questa occasione – per la particolare forma distributiva prescelta, detta «Prima o mai» – la circolazione pare programmaticamente rivolta a una cerchia esoterica di aficionados.
Uscita com’è a stretto giro dopo le «autobiografie per feticci» che sono Asterusher e Leggenda privata, che come ha mostrato qui Santurbano sono testi dall’ispirazione strettamente solidale, nonché col recupero auto-filologico, dichiarato come tale, dei Sogni risalenti agli anni Novanta ma solo nel ’17 pubblicati da Humboldt Books con le tavole di Gianfranco Baruchello, e della stessa Filologia dell’anfibio fresca di stampa, filologia di una filologia dunque nonché ultimo tassello del restauro della propria opera presso Einaudi, La morte attende vittime va considerata a tutti gli effetti l’emersione di un iceberg (paragonabile, per la sua sommersione-segretezza-crucialità, a quella dimensione reclusa-regressiva-malinconica che il Landolfi della BIERE DU PECHEUR – citato da Mari nel suo omaggio al maestro – definiva «regno di Nettuno»). Che coincide con una specie di cantiere auto-filologico – testimoniato dall’edizione dei per lo più remoti testi in versi di Dalla cripta, nonché dall’essersi concesso alla lunga intervista a Mazza Galanti e, se vogliamo, anche all’organizzazione di questo convegno – che coincide probabilmente con un momento di ripensamento e forse di bilancio, sul percorso seguito sino ad oggi. Unica eccezione al veto iconografico osservato sino a questo momento, nell’ordinato cosmo bibliografico dell’uomo-libro che è Mari, sono le copertine di un paio di suoi libri degli anni Novanta, Filologia dell’anfibio appunto (la cui riedizione recente, dopo quella di Laterza del 2011, restaura la copertina d’autore) e Tu, sanguinosa infanzia, che nelle rispettive princeps sono appunto illustrate da disegni dell’autore (mettendo direttamente a tema, nel secondo caso, l’anti-baudelairiano «verdino», davvero non paradisiaco, di uno dei racconti ivi raccolti; mentre il disegno a guardia di Filologia dell’anfibio, collo scarpone militare sovrastato da pianeti e costellazioni, evoca forse – per convocare un altro decisivo phare italiano – la pagina del Pasticciaccio sugli alluci dei santi ritratti dal pittore «Manieroni» e, ancor più da vicino forse, un celebre pezzo di Emilio Cecchi, secondo il quale «Gadda è di quei pittori che fanno un capolavoro tenendo a modello un vecchio paio di scarpe. Nel fango che incrosta le afflitte tomaie, sono inscritte in capillari geroglifici, come nelle rughe d’una piramide, le storie delle fatiche umane e delle sorti. E attraverso le buche delle suola, ecco il cielo con le lontanissime costellazioni che governano quelle fatiche e quelle sorti»; vale la pena annotare che, quando può, di Gadda Mari ricorda sempre l’esperienza della Grande Guerra, e relativa naja).
Proprio Filologia dell’anfibio – teste Scuola di demoni – tematizza il passaggio della linea d’ombra, l’abbandono del verde inferno dell’infanzia e dell’adolescenza coi loro studi matti e disperatissimi; e, come nel caso di Barthes, coincide con l’attraversamento di una parentesi eterotopica che nel caso di Mari è rappresentato da una vita e servitù militare affrontate colla gioia masochistica, il «godimento puro», dice appunto in Scuola di demoni, della «limitazione della libertà». Ed è anche – sin dai manoscritti di partenza, che ci ha mostrato ieri in abbrivo Fabio Pierangeli – impaginato a sua volta come un iconotesto, sebbene stavolta ornato dei disegni dell’autore, «immagini tracciate dalla mano» per dirla con Barthes, anziché con fotografie nelle quali, come sarà in Leggenda privata, Sé ci viene mostrato dall’Altro: da quel Grande Altro, proprio, che è il Padre iconofilo e iconomane.
Un’altra comprova, di questo statuto sinora coattamente liminare dell’immagine, è la ridottissima parte a essa riservata da una produzione saggistica, quella di Mari, per la sua stragrande parte dedicata invece, si sa, alla letteratura del passato. Un’eccezione, inclusa a partire dalla sua seconda edizione nella formidabile silloge che nell’editoriale lievitare ha sempre conservato il titolo I demoni e la pasta sfoglia (ora il Saggiatore 2017), è il saggio dedicato ad Adolf Wölfli, in origine prefazione all’edizione italiana (Alet 2007) di una monografia dedicata dallo psichiatra Walter Morgenthaler all’artista svizzero morto nel 1930 nel manicomio di Waldau, vicino Berna, dove aveva passato più di metà dell’esistenza e dove aveva per intero realizzato i suoi 1300 disegni e scritto le 25.000 pagine del suo manoscritto autobiografico intitolato La leggenda di Sant’Adolfo. Queste venti pagine di Mari sono la migliore introduzione possibile, non solo alla vicenda straordinaria di Wölfli, ma soprattutto alla sua stessa ambivalente attrazione-repulsione per le concrezioni di parole e immagini. Da un lato, coll’eleggere un alienato a santo patrono del «nostro secolo» («“nostro”», aggiunge nel 2007, «affettivamente ed elettivamente, ormai»), Mari iscrive alla propria idea “barbara”, anti-intellettuale anti-formale e regressivo-viscerale (contro ogni programmatica «mescidazione dell’alto con il basso in tanta prosa contemporanea», afferma sprezzante, «Wölfli ci appare gigantescamente puro»), quello che è a tutti gli effetti un progenitore, e anzi borgesianamente un «precursore», dei propri stessi “pasticci” verbovisivi (nell’opera di Wölfli «disegni e scrittura […] si integrano e contaminano vicendevolmente: visto che i primi occupano pagine intere (a mo’ di tavole) o riquadri di pagine nell’autobiografia, e che la scrittura […] invade spesso i disegni»); dall’altro ne afferma con decisione l’anacronistico quanto «innato e sbalorditivo istinto della modernità», sancendola con esempi provenienti proprio dalla cultura dell’avanguardia modernista e postmodernista altrove avversati come catastroficamente intellettualistici («Immaginiamo un uomo non americano», esordisce Mari, «che trentadue anni prima di Andy Warhol metta in un quadro l’immagine fedele di una zuppa Campbell’s»; «immaginiamo che senza aver letto Borges quest’uomo chieda un numero spropositato di fogli per realizzare una mappa di Berna in scala 1:1», eccetera).
La medesima ambivalenza da lui attribuita al pur meritorio e sensibile Morgenthaler, che sin dal titolo del suo libro (Arte e follia in Adolf Wölfli) «non riesce a superare l’opposizione, o meglio la contraddizione, fra l’“infantilismo” e la sapienza» del suo paziente, è in fondo la stessa ambivalenza di Mari nei propri stessi confronti. Difficile non pensare a lui – e in particolare a quel racconto-chiave di Euridice aveva un cane che è La serietà della serie – quando Mari descrive, tramite Morgenthaler, l’«horror vacui» di Wölfli, l’«aspirazione a vivere senza smettere mai di creare», «la compulsiva serietà del lavoro […] legata alla sua serialità», intesa soprattutto «come ripetizione ossessiva delle stesse immagini, degli stessi motivi ornamentali, delle stesse parole, degli stessi numeri (ripetizione che equipara tutta la sua produzione a un’ecolalica e autoipnotica litania»). Come sa il lettore dei Demoni e la pasta sfoglia, non c’è per Mari «sublimazione o […] esorcismo del male nella forma»; semmai, come ribadisce in clausola al saggio su Wölffli, «rimozione e sostituzione»: etimologicamente la letteratura è dunque un farmaco, o per dirla con la bella sintesi qui usata da Gialloreto, insieme «intossicazione e cura». Una dialettica senza sintesi, una soluzione di compromesso che Mari definisce manierismo: e non a caso annota il ricorrere di questa formula nello stesso Morgenthaler, il quale però non ne «ricava illuminazioni»; laddove, come ricorda subito dopo Mari, sarà questa la definizione che un ben più consapevole collega della generazione successiva, Ludwig Binswanger, darà di una delle sue «forme di esistenza mancata».
Ed è proprio questo manque, questa maniera in cui vengono a coincidere mania e talento, a segnare la privazione che, insieme alla privatezza, è denunciata da un titolo come Leggenda privata. L’epifania delle immagini, il loro ritrovamento a posteriori – effettivo o mitobiografizzato – serve a (tentare di) colmare questo vuoto fondante, questa mutilazione esistenziale di cui ci parla l’intera opera di Mari («il sesso mancato, e dunque il sesso più vero»: come recita una degnità di Leggenda privata). Un calembour, questo fra privatezza e privazione, già usato da un nostro comune amico, Emidio Greco, nel titolo del suo film-testamento L’uomo privato (e vale la pena ricordare come Greco avesse esordito portando sullo schermo quell’Invenzione di Morel di Adolfo Bioy Casares per il quale Mari ha scritto a suo tempo un’introduzione, e la cui importanza per lui ha qui sottolineato Andrea Gialloreto).
Torniamo un’ultima volta, allora, sui fumetti ora raccolti in La morte attende vittime. Quest’attività – racconta l’autore – nasce in età infantile o tardo-infantile, in parallelo dunque al consumo di fumetti come lettore, ma in seguito si concentra subito sui classici della letteratura italiana (oltre che su quelli del fantastico e dell’orrore), cioè su quella destinata a divenire l’attività professionale del Mari adulto, filologo italianista; e prosegue, infatti, anche nei primi anni del suo curriculum in questo campo (in un’età nella quale gli intellettuali – questi adulti per antonomasia nei cui confronti Mari nutre, non a caso, una malcelata ostilità – in genere i fumetti non li leggono più, se non per un vezzo snob che a lui certo non appartiene).
Il fumetto, iconotesto elementare e primario, combina i due assi espressivi del disegno e della scrittura. La loro quasi esclusiva estrazione alto-letteraria, in Mari, rappresenta a tutti gli effetti per lui una loro ibridazione: la sua illustrazione nei modi regressivi del fumetto “imbarbarisce” la tradizione letteraria, almeno quanto l’innesto dei classici della letteratura “intellettualizza” il fumetto (un po’ come nel titolo Asterusher si “orrorifica” la metafisica di Borges, in una col “metafisicizzarsi” dell’horror di Poe). In questa maniera così idiomatica si manifesta per la prima volta quella formazione di compromesso che la poetica dello scrittore adulto, nei Demoni e la pasta sfoglia e in Scuola di demoni, escogiterà per giustificare in chiave “viscerale”, appunto, i propri gusti letterari “alti” e, in apparenza, niente affatto regressivi. In relazione ai suoi interessi di studioso, Mari definisce volentieri “vichiana” questa sua ideologia, ma mi pare questa una maschera – non so quanto consapevolmente – giustificativa e sviante.
La funzione di questi disegni, così come per traslato della sua poetica letteraria, è invece psichicamente quella di un’ulteriore, estrema aggressione al Totem Paterno, che trova questa formazione di compromesso prima di poter accedere alla sua resa scritta, prima mediata – in Tu, sanguinosa infanzia – e poi esplicita – seppur “leggendariamente” trasfigurata – in Leggenda privata. Chi è il Padre, infatti, se non un Disegnatore? Il Disegnatore, anzi, nella couche milanese in cui è cresciuto suo figlio: il Demone Che Disegna. Ma disegna, Enzo Mari, seguendo un pensiero simmetricamente opposto a quello del figlio: tutto formalista, e dal formalismo ideologicamente iperdeterminato, dove l’inseguimento e la sempre più puntigliosa messa a punto della Forma sono, in termini estetici e politici, il contenuto stesso: come dice un suo titolo saggistico che, è il caso di dire, è tutto un programma – Autoprogettazione, del ’74 – e come ad abundantiam illustra la tarda silloge autoriassuntiva, pubblicata nel 2001, che è Progetto e passione. La severità di questa sua attitudine repressiva è parallela alle usanze educative, diciamo, descritte in Leggenda privata.
Vale la pena ripetere, di fronte a un Edipo così automonumentalizzato, l’acuta notazione addotta da Italo Calvino, a suo tempo, nei confronti di un autore almeno altrettanto esibitamente psicanalizzabile come Landolfi: se così esibito, vuol dire che «l’inconscio è altrove». Ma soprattutto va sillabato il caveat per cui analisi di questo tipo “selvaggiamente” freudiano vanno prese col beneficio d’inventario di impiegare, quali proprie fonti biografiche, testi mediati da una trasfigurazione letteraria. Ma, fatta la tara al frame horror (impiegato dall’autore, forse, per relativamente distanziarsene), Leggenda privata va letto dopotutto come “vera” autobiografia dell’autore: “vera”, certo, con tutte le nabokoviane virgolette del caso, e per quanto possono esserlo tutte le autobiografie letterariamente degne di questo nome (secondo quell’aforisma di Kafka, «confessione e bugia sono la stessa cosa. Per poter confessare, si mente. Ciò che si è non lo si può esprimere, appunto perché lo si è; non si può comunicare se non ciò che non siamo, la menzogna», assurto a teorema nella Cicatrice di Montaigne di Mario Lavagetto). Cioè appunto leggenda.
Per spiegare questo primo lessema del titolo cui mi sto dedicando, vale la pena richiamare l’episodio di Tu, sanguinosa infanzia che ne rappresenta la più evidente anticipazione. Questo racconto memorabile s’intitola L’uomo che uccise Liberty Valance, come il western diretto nel 1962 da John Ford. E c’è da chiedersi perché, visto che al film nel racconto non si fa cenno (mentre fa allusivo capolino in una delle note a corredo di Leggenda privata). Proprio mediante il titolo Mari allude, probabilmente, alla natura effettiva del duello col Padre, che è piuttosto un combattimento fra Doppi (secondo quello che è, da Di bestia in bestia a Roderick Duddle, il tema più esibito dalla sua scrittura propriamente romanzesca). Anche nel film di Ford, si ricorderà, il titolo è ambiguo: colui che è passato alla storia come chi dopo lunga oppressione, un bel giorno, liberò il villaggio di Shinbone dai soprusi e dalle violenze del vilain Liberty Valance (Lee Marvin), così cominciando l’ascesa che lo porterà alla carica di Senatore degli Stati Uniti – il gentile avvocato Ransom Stoddard (James Stewart) –, si scopre infatti non essere stato lui, davvero, a far fuori il bandito. Chi, nascosto dietro un angolo, ha fatto fuoco subito prima che si venisse al dunque (e, nel confronto, prevedibilmente avesse la meglio Valance) è stato l’allevatore Tom Doniphon (John Wayne), rivale in amore di Stoddard: lui questo lo ha sempre saputo, ma ha accettato di condurre la sua esistenza all’insegna della menzogna. O meglio, della leggenda: secondo la quale è lui, appunto, «l’uomo che uccise Liberty Valance». Come dice memorabile il giornalista Peabody (Ed O’ Brien), che viene a sapere la vera storia ma alla fine rinuncia a pubblicarla: «Quando la leggenda diventa realtà, stampa la leggenda».
Esempio perfetto dell’ambiguità irriducibile di questo cœur mis a nu, mi è già capitato di dirlo, è proprio la famosa foto-feticcio per eccellenza, quella che sta in copertina a Leggenda privata e dalla quale, stando alla narrazione di Scuola di demoni, si sarebbe originata la proposta editoriale di fare del testo un iconotesto. Rare volte in una sola immagine pare lecito riassumere il senso di tutto un libro. Nello scenario del locus amœnus di montagna dove i Tre Demoni di Casa Mari passano, come da decreto paterno, le proprie spartane vacanze estive, fisso in macchina guarda la Madre, le mani sui fianchi, un’espressione durissima sul volto. Frapposto fra lei e l’occhio di chi guarda, il settenne futuro-scrittore stende le braccia più che può, con un’espressione ancora più dura e minacciosa, nel «delirante conato di difenderla lui, come si evince dalla seguente fotografia scattata dal padre: autentico scudo umano, il figlio si frappone con uno sguardo che dice: “Dovrai passare sul mio cadavere”».
Situazione serissima, nelle intenzioni, quanto irresistibilmente umoristica: data la sproporzione delle forze in campo. Ma, anche, perfettamente inattendibile. Perché come si potrà credere – pur cercando d’immedesimarsi nelle Demoniache usanze di Casa-Mari – che, nel pieno d’una crisi famigliare così intensa, qualcuno possa davvero pensare di metter mano alla macchina fotografica, allestendo un così idilliaco quadretto di famiglia? L’assoluta inverosimiglianza di una situazione, di contro, così esplosivamente “autentica” riassume con perfetto «misenabismo», direi, l’ambiguità inesauribile di ogni autobiografia che sia, anche, grande letteratura. Come in questo caso.
Sempre Leggenda privata, nell’episodio straordinario del nonno scultore – terzo archetipo famigliare, ancorché emarginato e obliquo, a risultare versato nella figurazione – ossessivamente dedito a «modellare in argilla centinaia di donnine» con contorti andirivieni dal forno irrigidente a una vasca emolliente di «paste al forno», pasta sfoglia insomma alternativamente rigida e molle, ci induce a perseverare in questa lettura intrapsichica dell’attività plastica. Lo stesso autore richiama «le argille che il nonno faceva rinvenire fra gli stracci bagnati», quale corrispettivo della propria personalità «apparentemente catafratta, con quella barba cattiva che lo invecchiava, in realtà morbidissimo, sotto, ammollito da tutte le sue lenzuola zuppe di pipì», «un soggetto molle» che proprio la scrittura concepisce come «fortificazione», in cui «ogni debolezza» della vita «si trasforma immediatamente in forza».
In tutti i sensi archetipo di Enzo Mari era stato Adolf Loos, l’archimandrita del razionalismo e del funzionalismo modernista di primo Novecento un cui celebre titolo-slogan suona Ornamento e delitto: la cui estetica, secondo Hal Foster che gli ha dedicato un saggio importante (in Prosthetic Gods, The MIT Press 2004) ha risvolti esplicitamente repressivi e, in termini freudiani, sadico-anali (per esempio concordando coll’«inibizione psichica» pregiata, nell’abbigliamento maschile contro il narcisismo dispiegato di quello femminile, dalla Psicologia dell’abbigliamento di John Carl Flügel; oppure colla severità retorico-linguistica di Karl Kraus, per il quale «le metafore sono le perversioni del discorso, e le perversioni sono le metafore dell’amore»).
Seguendo questa traccia si potrà concludere che il disegno di Michele per la sua regressività – che è psichica, non storica – non s’ispira certo a Vico bensì, semmai, ai modi degli alienati di mente: come quelli appunto del Wölffli descritto da Morgenthaler; e il rapporto dello scrittore maturo con questa sua espressività primordiale andrà accostato a quello intrattenuto con quel repertorio – sempre secondo Foster – da artisti colti e programmaticamente moderni come Paul Klee e Jean Dubuffet, futuro fondatore della Compagnie de l’Art Brut: che il primo forse, e il secondo certamente, s’ispirarono alla collezione dell’«attività plastica dei malati di mente» raccolta alla clinica psichiatrica di Heidelberg dallo storico dell’arte Hans Prinzhorn, pubblicata nel 1922 (l’anno dopo, cioè, la monografia di Morgenthaler), per far provocatoriamente esplodere i tradizionali dettami formali dell’equilibrio compositivo e della prospettiva, frutto di una civilizzazione autoritaria e appunto repressiva (quella portata al massimo grado di repressività nonché al massimo grado di splendore, nella civiltà architettonica germanica, appunto da Loos; un ordine autoritario che, per inciso, si prenderà una vendetta sanguinosa, è il caso di dire, quando impiegherà proprio i materiali di Prinzhorn per allestire, nel 1937, la famigerata mostra dell’Entartete Kunst). L’infantilismo, la bêtise e lo psichismo esibito “a giorno” erano già in quei casi un atto di ribellione, più o meno consapevole, nei confronti dell’Ordine Ideologico Paterno. Dove “paterno”, s’intende, è in Foster metafora freudiana: laddove in Mari, invece, è contingenza reale.
Accedere al disegno in questa modalità squisitamente “anti-paterna” finisce per essere il contrappasso più ingenuamente diretto e simmetrico che il piccolo Michele abbia trovato, per aggredire l’allora troneggiante Enzo «intersezione di Mosè con John Huston». Il quale peraltro, più o meno nello stesso periodo, contrattacca: realizzando da “grafico” – cioè nei modi che gli sono connaturati, in termini professionali – la in sé deliziosamente feticistica microedizione ad personam di Incubo nel treno, com’è raccontato anche in Leggenda privata: cioè dell’aurorale effato “letterario” del figlio, come regalo per il suo quarantesimo compleanno nel 1995 (ma era stato appunto il figlio, quasi trent’anni prima, ad aprire le ostilità regalandogli quel manoscritto nel Natale del 1964). A fronte dell’insistere di una vocazione letteraria da lui avversata e repressa («teniamo presente che la letteratura in quanto tale è sempre stata considerata da mio padre come un’assoluta perdita di tempo, una forma di titillamento molto ma molto masturbatorio, non poco decadente anche… fradicio di ridondanza, lontanissimo dall’algebra dell’essenziale, un lusso di cui il Mondo Liberato avrebbe presto fatto a meno…»), Enzo reagisce cercando di inglobare, di imprigionare cioè nel suo Ordine grafico formalista-progressivo-repressivo, il Disordine rappresentato da Michele con la sua scrittura horror-regressiva-viscerale.
Accedere al letterario in forma “professionale” sarà, da parte del Michele maturo, una seconda trasgressione, più obliqua; fare infine del proprio Avversario un Personaggio della propria opera letteraria rappresenterà per lui, infine, la chiusura del cerchio. Esposta a giorno questa Trasgressione Massima, con la pubblicazione di Leggenda privata, è giunto probabilmente, per lo scrittore, il momento di cambiare pagina. E che lo si celebri nella sede presente, in questa forma così tradizionalmente accademica, segna in fondo il medesimo punto di saturazione – e di svolta. È il caso di dire: chi vivrà, vedrà.