di Matteo Santarelli (La Ragione di Stato)
Per l’ennesima volta nella sua ormai più che decennale carriera calcistica, Mario Balotelli si è trovato al centro della polemica mediatica e politica. I fatti: durante la partita Verona – Brescia valida per il campionato di calcio di Serie A, Balotelli ha calciato il pallone sugli spalti in risposta agli ululati provenienti dalla curva degli ultrà veronesi. Stavolta, più delle sue parole hanno fatto rumore le esternazioni prima del presidente del Verona Maurizio Setti, il quale ha derubricato la faccenda a folklore e “ironia”, e poi del capo ultrà veronese Luca Castellini. Castellini ci ha tenuto a farci sapere la sua opinione su tre temi. Primo, l’italianità parziale di Balotelli, che è italiano ma non lo sarà mai del tutto. Secondo, sul fatto che gli ultrà veronesi non hanno nulla contro i “negri”. Ne hanno uno in squadra, e addirittura lo applaudono quando segna. Terzo, Castellini ha rivendicato il suo impiego della parola “negro”, invitando la neonata commissione Segre a venirlo a prendere nel caso in cui avesse qualcosa in contrario.
Non vale la pena soffermarsi sulle parole del capo ultrà del Verona, se non per sottolineare una cosa, molto semplice: non si tratta di un povero cristo che – sbagliando, chiaro – dice una parola fuori posto, ubriaco, di fronte a una telecamera. Parliamo di un capo ultrà che svolge un ruolo politico di rappresentanza, e parla a mente fredda di un episodio accaduto nella sua curva, e a mente altrettanto fredda ci dice che i “negri” esistono solo per il divertimento suo e dei suoi simili. Quindi se fanno gol magari prendono pure un applauso, ma se sono antipatici, allora bisogna ricordare loro che sono scimmie. Chi afferma una cosa del genere non merita di rappresentare niente di minimamente connesso allo sport, men che meno di entrare più in uno stadio. In questo, la NBA fa da esempio. Come hanno ricordato numerosi degli ottimi blog sportivi italiani – nello specifico, mi riferisco qui a Overtime – Storie a spicchi – il rischio di deriva razzista nei palazzetti americani è stato risolto con delle pene esemplari.
Un esempio su tutti: l’espulsione a vita dalla NBA di Donald Sterling, all’epoca presidente dei Los Angeles Clippers, intercettato mentre chiedeva alla sua compagna di non portare afroamericani in tribuna. Non solo: Sterling – cito da Overtime – viene “multato per 2.5 milioni di dollari e costretto a vendere la franchigia. Gli viene vietato di entrare in ogni Arena NBA e di assistere ad ogni allenamento di qualsiasi squadra”. Il giusto trattamento per un miliardario razzista e lontano da ogni spirito sportivo. Castellini non sarà un miliardario, ma neanche un povero disperato – se non in senso spirituale – quindi non si può che auspicare che riceva un simile trattamento. Non si tratta di buonismo, né certo di misure che risolvono la questione del razzismo nella nostra società, ma di rispetto dello spirito basilare dello sport. Non è accettabile che un bambino bianco che tifa il Verona e gioca a calcio venga indotto a pensare che se il suo compagno nero di squadra fa gol si merita un applauso, ma se fa “il fenomeno” allora si becca il verso della scimmia. Caso chiuso.
Più interessante è invece un tic, una sorta di riflesso automatico che prende spesso anche chi si reputa – e magari non è – razzista, quando si trova di fronte alle espressioni mediatiche di Balotelli. L’ex giocatore di Inter, Milan, Manchester City, Liverpool, Nizza e Marsiglia suscita ormai da anni un’antipatia non facile da catalogare. Da un lato, è vero che i comportamenti sbruffoni non sono mai mancati nel suo repertorio – vedi le lunghe provocazioni a Totti durante la famosa finale di Coppa Italia, con relativo fallo di reazione ed espulsione del capitano della Roma. È inoltre innegabile che questa sbruffonaggine sia diventata sempre più irritante con il calare delle prestazioni di Balotelli dopo l’exploit in maglia azzurra durante gli Europei 2012, e la crescente consapevolezza che Mario non sarebbe diventato il fenomeno che molti pensavano e speravano sarebbe diventato. Il tutto unito a un atteggiamento spesso svogliato in campo che ha finito per sfinire anche i tifosi più pazienti delle sue ex squadre.
Totti reagisce alle provocazioni di Balotelli in modo poco signorile, e viene espulso. Negli anni, persino alcuni compagni di Balotelli diranno che Mario in quella partita aveva esagerato con le offese e le prese in giro a “Er Capitano”, non proprio una figura qualunque nel calcio italiano.
Ma c’è un però. Balotelli non è l’unico calciatore sbruffone e indolente della nostra contemporaneità, e non è nemmeno l’unico giocatore dei nostri anni che abbia unito queste caratteristiche a una carriera in fin dei conti deludente rispetto alle aspettative giovanili. Chiunque segua minimamente il calcio starà sicuramente pensando al suo compagno d’attacco di quello strano europeo 2012, ossia Antonio Cassano. Cassano è stato un talento di dimensioni sicuramente imparagonabili rispetto a Balotelli, ma anche nel suo caso non sono mancate né le sbruffonate, né le piazzate, né i rendimenti deludenti – fatta eccezione per i primi anni alla Roma e alla rinascita Sampdoriana. Eppure Cassano è sempre stato percepito – anche da chi scrive – come un personaggio in fin dei conti simpatico, guascone, a cui vengono perdonate sia le indolenze calcistiche, che le spacconate e le uscite infelici – talvolta anche pesanti, vedi il video in basso.
Domanda: perché? Perché Cassano è un ragazzaccio simpatico, e Balotelli è invece uno che non sta nel suo? Perché le disavventure del primo sono “cassanate”, mentre quelle del secondo sono insopportabili atti di arroganza? Perché i difetti di Cassano vengono condonati, mentre quelli di Balotelli vengono moralizzati?
https://www.youtube.com/watch?v=LFJdR5q8iow
Cassano tenta di gestire “diplomaticamente” le allusioni di Cecchi Paone sulla presenza di giocatori gay in Nazionale.
Forse per rispondere a questa asimmetria c’è bisogno di scomodare la categoria del “nero antipatico”. La musica, lo spettacolo, lo sport degli ultimi decenni sono pieni di neri antipatici. In alcuni casi, questa antipatia viene persino rivendicata. Le radici di questa rivendicazione non sono misteriose. Pensiamo a Miles Davis, probabilmente la figura più rilevante nella storia del jazz. In Davis l’antipatia era un gesto programmatico, volto a una rottura nei confronti del ruolo in cui venivano confinati in precedenza anche i suoi più nobili predecessori: quello del nero gioviale, allegro, buontempone, che tiene assieme doti tecniche eccezionali e una presenza scenica quasi clownesca. Il riferimento evidente è Louis Armstrong. Armstrong è certo un’ispirazione ineguagliabile, una figura artisticamente venerabile per Davis, ma è allo stesso tempo lo showman nero che vogliono i bianchi per il loro divertimento. Miles rompe questa storia: la sua immagine è seria, dura, arrabbiata, spigolosa. In breve, antipatica. Nella sua bellissima autobiografia, un episodio tra i tanti ci ricorda i motivi di questa antipatia:
Poi c’erano tutti quei critici bianchi che avevano cominciato a parlare dei jazzisti bianchi che ci imitavano come se fossero dei grandissimi geni musicali e stronzate del genere. E alcuni di questi bianchi erano dei tossici esattamente come noi, ma non c’era nessuno che scrivesse di loro nel modo in cui scrivevano di noi. Non si accorsero che anche i bianchi potevano essere tossicodipendenti pesanti, fino a quando Stan Getz non fu pizzicato mentre cercava di scassinare una farmacia per rubare un po’ di droga. Questa stronzata fu sulle prime pagine dei giornali fino a quando la gente non lo dimenticò e ricominciò a parlare soltanto di quanto eravamo fatti noi musicisti neri.
All’artista nero viene sempre chiesto qualcosa di più rispetto ai bianchi: non solo essere tecnicamente ineccepibile – come era stato già Dizzy Gillespie –, non solo essere un grande innovatore – come già fu Armstrong – ma anche di essere buffo, divertente, di buon umore. In breve: essere ciò che vogliono i bianchi. Per Miles dunque l’antipatia non è un tratto psicologico, ma un modo di affermazione della propria integrità artistica.
Miles lamenterà spesso di essere oggetto speciale dell’attenzione della polizia nelle sue scorribande con auto di lusso. Perché non si addice a un “negro” ricco di fare quello che fanno i bianchi ricchi.
Un altro esempio di nero antipatico, forse meno evidente ai non addetti ai lavori, è Michael Jordan. Questa antipatia è passata in secondo piano, almeno a un certo punto, attraverso processi ed eventi di vario tipo. Alcuni esempi: la partecipazione al film Space Jam (1996), in cui Jordan e altri protagonisti della NBA di metà anni ‘90 compaiono accanto ai cartoni della Warner Bros e a Bill Murray, come al solito messo in mezzo alle situazioni umane e oltreumane più incredibili; l’essere stato il leader del Dream Team, quella incredibile parata di stelle che gli Stati Uniti presentano al torneo di basket delle Olimpiadi del 1992; e ancora, i sei titoli NBA, l’epica del grande ritorno dopo il ritiro a seguito della morte del padre, e in generale la crescente e diffusa consapevolezza che Jordan è stato probabilmente il più grande atleta degli sport di squadra del ‘900. Jordan, almeno per la nostra generazione, è un mito, un supereroe, e come noto l’epica si disinteressa alla psicologia.
Ma il numero 23 dei Bulls è stato un nero antipatico tanto quanto Miles, e per certi versi anche altrettanto controverso – vedi le sue dipendenze, in particolare i problemi con le scommesse e i relativi debiti di gioco. Un duro implacabile e vendicativo tanto con i suoi avversari, quanto con i suoi compagni. Per certi versi, un bullo, con tante debolezze ed errori nella vita privata. Eppure nel suo caso l’antipatia si mescola con l’atteggiamento da duro, ossia una nomea che nel basket svolge un ruolo più importante rispetto al calcio. Tanto che nelle feroci sfide a cavallo tra anni ’80 e ’90 con i Bad Boys dei Detroit Pistons, MJ e i Chicago Bulls giocano addirittura la parte dei buoni, dei paladini del buon gioco contro le scorrettezze e l’aggressività dei Pistons.
Un’intrigante collezione di risse verbali di Michael Jordan.
Nel caso di Miles l’antipatia è un gesto di rivendicazione di integrità artistica, di sottrazione rispetto alle aspettative dell’opinione pubblica bianca. Nel caso di Jordan, si tratta dì un’attitudine meno appariscente per vari motivi: è inquadrata in un codice di comportamenti da duri, tipici del basket di quegli anni; è quantomeno mitigata dal tema centrale dell’icona mediatica di MJ, ossia l’immagine del Goat, il più grande di tutti i tempi.
Con tutto il rispetto per Balotelli, pronunciare il suo nome accanto a quello di Miles Davis e Michael Jordan può far sorridere. Eppure anche Mario è un nero antipatico, e in quanto tale paga la sua antipatia più di quanto non farebbe un bianco. Le aspettative nei confronti dei suoi comportamenti, oltre che verso le sue prestazioni, sono sempre state più alte rispetto a quelle di giocatori suoi coetanei. E Balotelli non ha fatto nulla per ritirarsi dal centro della scena, finendo per partecipare al gioco del nero antipatico, e al suo innegabile fondo razzista: l’antipatia costa più a un nero che non a un bianco.
Rispetto ai più celebri esempi discussi prima, tuttavia, mancano rispettivamente due cose. In primo luogo, Mario a differenza di Miles non è un artista, e quindi le sue rivendicazioni di eccedenza rispetto alle aspettative degli altri suonano a volte vittimiste – ricorderete la maglietta “Why always me?” – e non come affermazioni di integrità artistica. In secondo luogo, Balotelli a differenza di Jordan non ha quasi mai avuto dalla sua la parola inequivocabile del campo. Il che ha reso più difficile far passare l’arroganza come sicurezza inscalfibile nei propri mezzi, che è esattamente quello che è accaduto con il 23 dei Bulls. E più in generale, una considerazione banale quanto innegabile: per motivi altrettanto ovvi, nella serie A il calciatore italiano di colore è ancora l’eccezione, e in quanto tale viene trattata: un’eccezione in senso buonista-positivo – “non possiamo dire che è sopravvalutato, perché è nero” – e un’eccezione, purtroppo maggioritaria, in senso cattivista-negativo – “è nero, deve rimanere nel suo e pensare solo a giocare a pallone, sennò lo riportiamo al suo posto”.
Mario Balotelli, che in molti trattano come un ragazzino, ma che in realtà ha 29 anni, è stato mal sopportato in Italia, ma anche in Inghilterra e in Francia, paesi certo non immuni dal razzismo, ma nella cui cultura calcistica è ormai passata l’idea che un giocatore della nazionale possa essere di colore – basti guardare l’undici titolare francese vincitore degli ultimi mondiali. Mario ha contribuito a costruire la sua immagine di nero antipatico, e questa costruzione non ha né pienamente un senso di rivendicazione di autenticità (il caso Miles Davis), né è parte della narrazione di un mito di invincibilità e implacabilità (il caso Michael Jordan). Si tratta dunque di un’immagine fragile, e in questa fragilità ognuno vede ciò che vuole: una maturità incompleta, una promessa non mantenuta, ferite d’infanzia non rimarginate.
Oggi un signore ha detto per esplicito che Balotelli non va bene, perché è un “negro” che non sa stare al suo posto, ossia quello di essere modesto e far divertire e gioire i suoi tifosi bianchi. Possiamo pensare quello che vogliamo sul calciatore, sull’uomo, sul personaggio mediatico. Una cosa però è indubbia. Il fatto che parole del genere non vengano percepite da molte persone in Italia come un problema, è il motivo per cui probabilmente saremo costretti ancora per molti anni a discorsi dal fastidioso sapore esterofilo del tipo: “nella NBA, una cosa del genere non sarebbe mai potuta accadere”.
Per qualsiasi genitore adottivo l'”antipatia” di Balotelli è un fenomeno che non ha bisogno di spiegazioni. È stupefacente che, se non sbaglio, l’unico nel mondo del calcio che abbia mai notato che con l’infanzia che ha alle spalle Balotelli merita il nostro rispetto comunque, è stato Leonardo (nomen est omen). Per me Balotelli resta il ragazzo che dopo il gol alla Germania agli Europei 2012 si lancia in tribuna ad abbracciare la madre adottiva, brescianamente bianca come una mamma bresciana può essere. Che il capo ultra veronese non abbia spazio nella sua immaginazione per una famiglia del genere non mi stupisce. È in buona e insospettabile compagnia, ahimè.
D’accordissimo tranne che sulla multa al miliardario americano: l’intercettazione telefonica è un mezzo dittatoriale
Ciao Paolo, grazie per il bellissimo commento. Penso sia una giusta integrazione alla parte sulle cause della vulnerabilita´. Sono perfettamente d´accordo con te: a parole la societa´ italiana e´ basata sul valore della famiglia, ma poi in un caso del genere a nessuno viene in mente di inserire le caratteristiche – vere o presunte – di una persona all´interno della sua storia familiare. Strano, no? Grazie ancora del commento
Matteo