di Gregorio Magini

 

Dietro la maschera di sarcasmo che per la vergogna di essere sempre fatto fesso non si toglie nemmeno più in camera da letto, il cittadino comune soffoca una protesta: «Che macello! Ormai è impossibile distinguere la realtà dagli inganni». Questo collasso di fatto e finzione è illustrato esemplarmente dalla polemica sui libri che mangiano persone: una drammatica emergenza che non viene presa serio perché sembra troppo fasulla.
L’epidemia inizia negli anni novanta e si diffonde di pari passo con le tecnologie informatiche. Tale binomio è decifrabile con un paragone: quando un abitante della città va a fare una passeggiata nel bosco, non è raro che per inesperienza e maldestrezza si prenda una storta, una puntura di calabrone o un fulmine in testa. Così il nativo digitale: la libreria è per lui una selva ignota, e quando ci si avventura non ha nessuna difesa contro la voracità di certe specie di libri (va detto che i libri carnivori sono una piccolissima minoranza). L’utente sperduto, in campo aperto, al di fuori del territorio familiare dell’internet, finisce facilmente nell’imboscata e viene abbrancato e azzannato, talvolta ingoiato intero, senza nemmeno il tempo di spaventarsi. Gli altri non ci credono. In un misto di ignoranza e presunzione, si diffonde fra gli utenti il mito dell’inesistenza dei libri che mangiano persone, come se si trattasse di mostri soprannaturali della stessa categoria di vampiri, zombi e bambine fantasma di WhatsApp. Sono invece occorrenze ben documentate, sebbene in maniera discontinua e, fin qui, asistematica. A volte l’eccesso di scetticismo fa danni maggiori della credulità più disarmata, anzi spesso le persone che più facilmente cascano nelle bufale, nei complotti e nelle paranoie sono quelle che credono di non credere in nulla. Il rischio è che i preconcetti sulla innocuità dei libri impediscano di fare chiarezza quando qualcheduno di punto in bianco scompare e non si vede mai più, oppure riappare ma in forma di tranci insanguinati sparsi per la cameretta. Qualche disgraziato finisce per fare da capro espiatorio, mentre il libro, insieme autore e arma del delitto, se ne sta lì a digerire in bella vista, ignorato e libero di colpire ancora, quando avrà di nuovo fame. Innocenti, probabilmente stranieri, sono trascinati in tribunale; famiglie distrutte. No, insopportabile. Bisogna coltivare la conoscenza dei libri che mangiano persone, pure in questo mondo iperveloce e senza memoria. Faccio la mia parte. Spero che questo assaggio, penosamente insufficiente, basti almeno a dare una vaga idea di quale sia il pericolo mortale che corre la nostra civiltà.

 

Arsenio Belli, Spire dorsali

 

Il termine ante quem dell’ideazione di Spire dorsali è fissato da un messaggio email inviato il 15 settembre 2009 alle ore 4:47 del mattino a Raissa Nikulova, terza moglie dell’autore. Si legge: “A volte mi sembra che questo libro sia come un parassita che mi si è impiantato nel cervello e cresca nutrendosi delle mie idee. Conto di liberarmene scrivendolo”. Alcuni mesi più tardi (30 aprile 2010), Arsenio Belli pare meno fiducioso: “Questo libro-tumore mi preoccupa sempre di più. Comincio a sospettare che sia anche un libro-spora, capace cioè di infettare altre menti. Per esempio, attraverso la lettura. In tal caso, sarebbe mio preciso dovere cancellare tutte le bozze e dimenticare”. Aggiunge, qualche ora dopo: “Già, dimenticare. È più facile che una donna si dimentichi di partorire al nono mese! Se non potrò dimenticare, sarò costretto a togliermi la vita”.
Belli non dimenticò, e non si tolse la vita. Si separò dalla Nikulova nell’estate del 2010. Completò il romanzo e poco dopo morì di tumore al cervello.
Spire dorsali ci appare oggi come un nero gioiello oscuramente fulgente di arte letteraria voluttuosamente malevola, una macchina brutale per la disfatta del lettore, ma per due tormentati decenni fu solo un caos informe, refrattario a qualsiasi tentativo dell’autore di imporre una struttura.
Nell’unica intervista prima della scomparsa, alla domanda: “Come nasce il suo romanzo?” Belli rispose: “Non nasce. È un frullato di aborti”.

 

 

Il libro dell’elefante

 

C’era un bambino a cui non piaceva mangiare, che si chiamava Dario. Siccome invece ai suoi genitori piaceva parecchio dargli da mangiare, era sempre costretto a ingozzarsi. Perciò diventava grasso ed era triste.
Il papà di Dario, che era un brav’uomo e si chiamava Mauro, era dispiaciuto di vedere che suo figlio era triste, e non si capacitava del perché, dato che lo riempivano di premure, di affetti e di giocattoli. Lo facevano portare ai giardinetti dalla babysitter tre volte a settimana, e soprattutto gli davano moltissimo cibo del tipo che piace di più ai bambini: spaghetti al pomodoro, hamburger con le patatine fritte, fragole e panna montata, grissini con il salame ungherese.
Dario non lasciava mai niente nel piatto, perché mentre mangiava papà Mauro e mamma Roberta stavano a guardarlo con gli occhioni speranzosi e commossi. Non aveva il cuore di rifiutare le pietanze che mamma Roberta gli serviva amorevolmente sussurrando: «Ecco qua. Ci preferisci ketchup, senape o maionese? O tutti e tre?».
Papà Mauro rimuginò a lungo e decise che Dario era triste perché era solo. Ma un fratellino non glielo potevano dare perché mamma Roberta aveva avuto l’espianto delle ovaie per un sarcoma. Avrebbe meritato in alternativa un animaletto domestico, ma la loro casa era troppo piccola anche per ospitare un cagnolino piccolo.
Allora papà Mauro gli regalò un libro di un elefante.
Aveva la copertina di cartone spesso, dei bei disegni dell’elefante che faceva cose da elefante tipo prendere lo scooter per andare in campagna a trovare il suo amico Pellicano (si chiamava così perché era bianco e arancione, ma in realtà era un gatto) che di mestiere faceva il guardiano di pecore, e poche semplici frasi come “L’elefante ha una sciarpa rossa” oppure “Che bellissima giornata!”.
Dario apprezzò il libro abbastanza, anche se si accorse subito che era un libro per bambini più piccoli, ma non disse nulla per non ferire papà Mauro, anzi, lo lesse da cima a fondo quattro volte. Ma alla fine lo abbandonò aperto sul tavolo di cucina per andare a giocare con i Funko Pop.
Mamma Roberta stava preparando le polpette con la mozzarella per la merenda. Le mise in tavola, chiamò Dario e si sedette a sfogliare il suo tablet.
Il povero Dario si staccò svogliatamente dal duello tra Homer Simpson e Deadpool Pagliaccio che stava mettendo in scena. Si sentiva ancora pieno dei cinque grossi carciofi ripieni che aveva mangiato a pranzo, ma obbediente si trascinò in cucina e si sedette davanti alle polpette.
Il libro dell’elefante era ancora lì, aperto sulla pagina centrale, in cui l’elefante si affacciava preoccupato sulla bocca larga e oscura di un pozzo. Il suo amico Pellicano gli aveva detto nella pagina precedente che la pecora Anastasia, nel tentativo di recuperare la sua palla, era caduta nel pozzo. C’era scritto: «Una disgrazia! Dobbiamo salvare Anastasia!».
A Dario piaceva come l’apertura del pozzo campeggiava minacciosamente nel centro della pagina, un ovale nero così grande che al confronto l’elefante sembrava un topolino.
Mentre scrutava la scena, Dario inforcò distrattamente una polpetta e lentamente, tenendo gli occhi incollati al pozzo, la avvicinò alla bocca. Voleva mangiarla intera per abbreviare la tortura. Però la polpetta si staccò, precipitò sul libro e scomparve dentro il pozzo.
“Bomba” pensò Dario.
Della polpetta non c’era alcuna traccia, nemmeno una macchia di pomodoro. Il libro fece un piccolo sussulto, poi più nulla. Dario controllò se mamma Roberta si era di qualcosa, ma giocava tutta contenta a Jelly Splash. Circospetto, allungando le dita paffute, Dario prese una seconda polpetta e la lasciò cadere sul libro. Woah! Non c’era più.
Imbaldanzito, ci rovesciò tutto il piatto, tutte e dieci le grosse polpette rimaste. Il libro le accolse senza battere ciglio, poi diede un piccolo rutto.
«Salute» disse mamma Roberta distogliendosi dal tablet. «Ti sono piaciute!» disse tutta raggiante vedendo il piatto vuoto.
«Sì mamma» rispose Dario e corse in camera a giocare con i pupazzetti.
Da quel giorno, si portò sempre il libro a tavola, e quando i genitori erano distratti (via via che cresceva e perdeva i tratti infantili più teneri, diventavano sempre più distratti), ci cacciava dentro quello che aveva nel piatto. Salsicce, baguette, torroni. Il libro inghiottiva e ringraziava con un brontolio soddisfatto.
Dario dimagrì e diventò felice. Papà Mauro e mamma Roberta lo erano ancora di più.
Nel frattempo il libro dell’elefante ingrassava o meglio ingrossava. Quando raggiunse i venti chili, Dario chiese e ottenne il permesso di mangiare in camera, per non essere costretto a trasbordare il libro.
All’ottavo compleanno di Dario, il libro ingurgitò l’intera sua torta di compleanno a otto piani di pan di Spagna e crema chantilly e raggiunse i cinquanta chili.
Quando Dario entrò in prima media, il libro dell’elefante occupava mezza stanza. Vero è che la stanza era piccina, ma insomma, era pur sempre una massa considerevole. Ormai gli lanciava dentro direttamente le borse della spesa.
Un giorno Dario tornò a casa da scuola e scoprì che il libro si era mangiato mamma Roberta e babbo Mauro: aveva sputato i vestiti. Da quel giorno smise di dare da mangiare al libro, perché poteva decidere da sé quanto mangiare: un uovo al tegame, un po’ di stracchino, massimo due fette di pan carré.

 

 

Mitashi Fukuka, Saisentan

 

La carta di riso può essere incredibilmente tagliente, e l’arte di ottenere fogli più affilati della spada di un samurai fu portata alla perfezione in Giappone nel XVIII secolo dal monaco artigiano Mitashi Fukuka, della prefettura di Wakayama. Costui aveva messo a punto un metodo segreto che chiamava del “piano d’inconsistenza”, con il quale riusciva a tagliare trasversalmente un foglio di spessore normale, e perfino a tagliare a loro volta i due fogli risultanti, ottenendo così un in quarto impalpabile, semitrasparente e letale.
Il primo libro che stampò su quella carta fu Saisentan (Fogli taglienti), una raccolta di koan di sua composizione.
Quando lo Shōgun venne a sapere dell’impresa di Mitashi, lo fece convocare a Edo per fargli recitare i koan e riempirlo di onori.
Mitashi non giunse mai a Edo. Non giunse neppure alla soglia del tempio. Infatti, salutati i confratelli, aveva riposto con noncuranza il Saisentan in un sacco. Quando se lo tirò sulle spalle, il libro affettò sacco, tunica e schiena di Mitashi, riducendolo in un sol colpo in un libro umano, che indugiò un attimo soprappensiero prima di esplodere nel sangue come una zanzara quando un colpo di ventaglio la spiaccica contro un paravento.
Non osando nessuno avvicinarsi alla scena raccapricciante, il tempio-officina di Mitashi fu dato alle fiamme, e in esse il Saisentan andò perduto, assieme al segreto del piano d’inconsistenza.

 

 

Abdul Alhazred, Necronomicon

 

Il più celebre e il più temibile fra gli pseudobiblia antropofagi, ha il vanto di aver divorato il proprio stesso autore: l’arabo Abdul Alhazred, che lo scrisse in Yemen su dettato della follia, all’inizio dell’VIII secolo, sotto il Califfato degli Omayyadi. Dopo aver lanciato il sasso, H. P. Lovecraft, che per primo aveva riesumato dall’oblio il più atroce grimorio mai concepito, ritrasse la mano, spedendo ai suoi lettori affamati di dettagli una quantità di lettere in cui negava goffamente l’esistenza del Necronomicon. Probabilmente distrusse la copia in suo possesso.
Ma il libro voleva esistere e ci riuscì tormentando i sogni di quanti ne avevano avuto notizia, che si misero abiettamente all’opera di trascrizione con la scusa della fan fiction. Così entro la fine del secolo scorso il Necronomicon si era già riprodotto in dozzine di apocrifi/mutazioni, una più improbabile dell’altra. La maggior parte sono redatte in lingua inglese, ma ne esistono anche in cinese, spagnolo, latino e naturalmente arabo.
Nel 2005 Vernon Farber, uno studente di Cincinnati, pubblicò su DeviantArt alcune tavole di una versione su papiro vergata col suo stesso sangue in “caratteri originali”, ovvero un alfabeto di centoventi caratteri che non è stato possibile decifrare, causa anche la scomparsa dell’autore. I segni di cui sono composte le lettere di questo alfabeto assomigliano a ferite di piccoli ma implacabili artigli.
La descrizione della morte di Alhazred tramandataci da Lovecraft è sicuramente esatta (“Of his final death or disappearance (738 A.D.) many terrible and conflicting things are told. He is said […] to have been seized by an invisible monster in broad daylight and devoured horribly before a large number of fright-frozen witnesses.”), tuttavia Lovecraft omette sornionamente l’ovvia circostanza che il mostro invisibile non poteva che essere l’esecrando manoscritto, che Alhazred portava sempre sotto braccio quando andava al mercato.
Gli apocrifi si comportano allo stesso modo, ma solo i manoscritti originali, non le versioni a stampa. Quelli battuti al computer paiono conservare una quantità minima di vitalità demoniaca, ma solo nel file originale. Non riescono comunque a fare peggio che staccare un dito o due se il malcapitato si attarda a notte fonda sulla tastiera.
Si calcola che ogni anno nel mondo più di dodicimila persone vengano mangiate dai Necronomicon più o meno nello stesso modo in cui perì Abdul Alhazred.

 

 

Sedici lupi

 

È lungo migliaia di pagine ma è brevissimo, perché in ogni pagina c’è solo una lettera, maiuscola, che riempie tutto il foglio. Le pagine bianche sono gli spazi; non ha punteggiatura. In copertina il titolo Sedici lupi, e un sottotitolo o epigrafe: Uxor Homini Lupa.
Nessuno sa cosa c’è scritto, perché tutti coloro che lo leggono ne vengono sbranati. Questo per quanto riguarda i maschi. Le donne e i generi rari ne sono apparentemente immuni, anzi, escono dalla lettura rallegrati, con una luce maliziosa nell’angolo degli occhi. Ma non ne parlano, non rivelano: se interrogate, si alzano e se ne vanno nell’altra stanza.
Leggenda vuole che Sedici lupi sia apparso presso le adepte di una comune neopagana della solitaria valle dell’Orsigna, sull’Appennino pistoiese. Questo gruppo di donne si stabilì negli anni settanta in uno dei minuscoli borghi abbandonati della ripida valle, dove i castagni fanno ombra alle rocce muscose e i gufi osservano con i loro occhi ultraterreni i cinghiali che razzolano col grugno tra le foglie marce. È uno dei luoghi più solitari e suggestivi della Toscana. Oggi è piuttosto rinomata come meta turistica per gli amanti del trekking e del ritiro, questa valle silenziosa dove si può ancora intuire la pace del mondo senza l’uomo; notorietà dovuta soprattutto alla divulgazione di Tiziano Terzani, che è sepolto nel cimitero dell’omonimo villaggio.
Quando vi si stabilirono le donne del collettivo Sedici lupi, attorno al 1972, Orsigna era un luogo quasi selvaggio, e l’intera zona era abitata solo da poche decine di anziani.
La comune di Sedici lupi era composta da donne che erano state vittime di violenza sessuale, alcune da bambine o da adolescenti, altre più recentemente. Si erano conosciute all’Università di Firenze e avevano deciso di salire in montagna per non essere più costrette a vedere alcun maschio mentre elaboravano il trauma con pratiche di narrazione di gruppo, danze estatiche, rituali magici a base di fiori, bacche e funghi psicotropi.
Il caso volle che proprio durante una di quelle celebrazioni, una notte di luna piena nell’estate del 1976, un cacciatore di frodo che si era smarrito su per le balze, attirato dalle voci e dal bagliore del fuoco, si introducesse nella radura dove rosseggiavano i sedici corpi nudi e sudati delle donne in delirio.
Il cacciatore, che era un giovanotto semplice e non troppo timorato di Dio, sulle prime si rallegrò, tanto più che le donne lo circondavano ridendo e ballando, attanagliate da una frenesia erotica trasfigurante. Sui volti, dall’alto il profilo azzurro della luna, dal basso il profilo giallo delle fiamme. I capelli un groviglio; i seni, grandi o piccoli, tutti giovani, dimenati nell’aria: per un minuto parve al cacciatore di aver vinto al Totip.
Ma improvvisamente le donne iniziarono a graffiargli la faccia, morsicargli le dita e strappargli i capelli, sempre ridendo e lanciando gridi che s’innalzavano nella notte come le faville scoppiettanti del falò.
Si vide perduto. Colto dal panico, sparò un colpo in aria. La sorpresa del frastuono gli aprì un varco per la fuga. Si gettò a rotta di collo nella foresta.
Con orribili ululati, le donne lo inseguirono a lungo nel buio, ma per l’intossicazione che le rallentava, o per troppa voglia di giocare, o per un colpo di fortuna, non lo raggiunsero. Terrorizzato, sanguinante, il cacciatore giunse infine alla strada asfaltata, all’altezza del vecchio molino diroccato nel fondovalle. Nessuna automobile la percorreva certo a quell’ora, ma da lì, sceso nella pietraia del torrente Orsigna quasi in secca, il cacciatore trovò comunque scampo, perché le donne scalze non osarono attraversarla.
Si fermarono in fila sul ponte del molino e lo scrutarono saltare miseramente tra le rocce sotto il sinistro bagliore lunare. Diedero tutte insieme un ultimo agghiacciante ululato, poi scomparvero su per il bosco lasciandosi dietro una scia di risate.
L’indomani il ragazzo trascinò su al borgo una squadra di montanari perplessi, capitanata da due carabinieri (si chiuse un occhio, dato che aveva pure perso il fucile, sul bracconaggio). Trovarono il luogo dove era avvenuto il sabba nella corte che formava il centro del borgo di sei case crollate per metà. Dentro, i locali dove le donne avevano abitato, il grande letto comune, la vasta e ben fornita cucina con i pentoloni nei quali avevano cotto le loro minestre e le loro pozioni. Delle donne nessuna traccia.
A ogni buon conto, sfasciarono tutto e diedero alle fiamme le suppellettili che potevano bruciare. Le altre le buttarono nella fossa del letame.
La mattina dopo, abbandonato in un cesto davanti alla chiesa di Orsigna, fu ritrovato il gigantesco volume dei Sedici lupi.
Il meccanismo con cui dà la morte è il seguente: terminata la lettura, l’uomo se ne va un po’ frastornato. Invece di prendere la via di casa, imbocca il sentiero per il bosco. Gli alberi gli si chinano addosso come se già annusassero in lui l’humus che diventerà. Cala la notte. L’uomo si appoggia a un tronco e si chiede di chi è la colpa di tutto questo. Trentadue fiammelle si accendono nell’oscurità, sedici paia di occhi si appuntano freddi sul condannato.
Quello che accade in seguito, il lettore lo scoprirà presto.

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Gregorio Magini (1980), dopo l’esordio con La famiglia di pietra, ha pubblicato i romanzi In territorio nemico (minimum fax 2013, da coordinatore) e Cometa (Neo 2018). Suoi racconti sono apparsi su Nazione Indiana, minima&moralia, Crapula, Stanza 251 e altre riviste.

 

[Immagine: I tre re vivi e i tre re morti, libro delle ore, Francia occidentale, circa 1490-1510]

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