di Paolo Costa
[Hartmut Rosa (1965) è uno dei sociologi tedeschi più influenti della sua generazione. Allievo di Axel Honneth, in poco più di vent’anni ha fornito tre contributi fondamentali al dibattito scientifico e, più in generale, alla discussione pubblica internazionale. Procedendo in ordine cronologico, Rosa ha (1) ricostruito per primo in maniera sistematica la riflessione ricca ma disordinata di Charles Taylor; (2) riportato al centro dell’attenzione il concetto di «alienazione», reinterpretandolo alla luce del fenomeno tipicamente moderno dell’accelerazione; (3) chiarito nel dettaglio che cosa si possa intendere oggi per vita «buona», facendo leva sulle esperienze ordinarie di risonanza con la natura, società, arte, religione, politica, sport, ecc.
L’intervista che pubblichiamo qui in versione integrale e in due parti è stata realizzata (in inglese) il 31 maggio 2019 a Praga, cioè nel luogo e nel convegno (il Colloquio di Filosofia sociale) dove l’intervistatore e l’intervistato si sono incontrati per la prima volta nel 1996. La seconda parte dell’intervista apparirà lunedì prossimo]
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Vorrei cominciare l’intervista invitandoti a fare un bilancio della tua carriera intellettuale finora. Mi piacerebbe che lo facessi, se ti va, confrontando ciò che sei diventato con le tue aspettative iniziali. La tua vita, oggi, è più o meno come te la aspettavi allora? Mi riferisco in particolare al tuo ruolo di intellettuale pubblico, ovviamente.
Faccio una premessa. Non ha molto senso parlare di un «piano» in questo ambito. Voglio dire, quando ero all’inizio della carriera non avevo un’idea chiara né delle tappe intermedie né del traguardo che mi prefiggevo. Navigavo a vista, per così dire, e di certo la mia ambizione non era quella di diventare un intellettuale pubblico. Ancora oggi è un consiglio che do ai miei studenti: «fate un passo alla volta; concentratevi sull’obiettivo immediato, senza farvi distrarre da aspirazioni sulle quali non avete alcun controllo».
Non posso negare, però, che qualche volta mi capita di fermarmi e chiedermi che cosa penserebbe oggi di me il ragazzo che ero, per dire, alle superiori. Se qualcuno mi avesse detto allora: «Stammi a sentire Hartmut, un giorno scriverai un libro di cinquecento pagine sull’accelerazione sociale e i giornali ti descriveranno come il guru della decrescita». Come avrei reagito a quella profezia? Probabilmente avrei pensato tra me e me: «Wow, che figata!». La verità, però, è che la semplice idea di avere un giorno un posto fisso in università, o di riuscire a pubblicare un libro, all’inizio sembravano già di per sé la realizzazione di un sogno.
Se solo ripenso a quando ho avuto in mano una copia del mio primo articolo in inglese e alla soddisfazione intima che ho provato, mi viene spontaneo dire che quello era già un fine in sé per me: non c’era bisogno di immaginarsi o sognare nient’altro. Poi, certo, il meccanismo psicologico lo conosciamo tutti: un articolo, un libro hanno un sapore diverso prima e dopo la pubblicazione. Spesso la pubblicazione contribuisce a diminuire il senso dell’importanza di quello che fino a poco prima assorbiva ogni tua energia. Comunque, parlando in generale, credo che lo stato d’animo che lega il ragazzo che sono stato alla persona che sono diventato è il desiderio di dare sempre il massimo, di fare il meglio che posso in quel preciso momento contribuendo così a migliorare la vita pubblica. E, tutto sommato, sono convinto che è proprio quello che facciamo di continuo e in molti modi: come studiosi, ovviamente, ma anche quando ci rivolgiamo a un pubblico più largo utilizzando mezzi di comunicazione diversi dalla pubblicazione scientifica. Personalmente non faccio grandi distinzioni tra questi due ruoli.
Ma, da un punto di vista più personale, vivi i traguardi che hai raggiunto come la realizzazione di una vita buona, cioè come una forma di autorealizzazione non solo professionale?
Certo, con una postilla, però. L’ho pensato, detto e scritto ripetutamente: credo sinceramente che la vita buona non abbia nulla a che spartire con il successo materiale. Uno può vivere una vita molto modesta, addirittura con un livello minimo di libertà, e avere comunque una vita buona. Ne sono convintissimo e l’ho ribadito spesso nei miei scritti. Nel mio caso particolare, penso che la vita che mi sono costruito sia una vita buona, nel senso aristotelico di una vita «felice», realizzata. È essenziale, però, qualificare questa affermazione, dicendo che la considero una vita relativamente buona, dato che a nessun essere umano sono risparmiati i momenti di crisi, frustrazione e fatica. Da questo punto di vista, comprendo il valore profondo della concezione cristiana del peccato originale, non perché sia assillato da sensi di colpa o roba dal genere, ma perché condivido l’immagine dell’essere umano come una creatura imperfetta, non solo finita, ma continuamente alle prese con contraddizioni, scacchi, eterogenesi dei fini, ecc.
Nell’insieme, tuttavia, devo dire che sono soddisfatto della vita che faccio. Non tanto per quello che ho, ma per le relazioni e connessioni che essa rende possibili. Avere una vita interiore ricca significa avere relazioni umane più ricche con i propri famigliari, la propria comunità e, nel mio caso, con gli studenti. Insegnare mi piace molto, soprattutto per la possibilità di scambio generazionale che offre. Mi diverte anche discutere con i colleghi – ad esempio avere la conversazione per metà intima e per metà distaccata che stiamo avendo ora. O, uscendo dal mondo accademico, mi piace poter suonare la musica che mi appassiona. Insomma, conta molto il contesto, non solo ciò che avviene dentro di me.
Da questo punto di vista, il fatto che i miei libri vendano bene e che i mass media si interessino al mio lavoro è un vantaggio. Intendiamoci, è un vantaggio relativo anch’esso. Voglio dire, una delle mie aspirazioni è sicuramente quella di espandere il più possibile la cerchia delle persone interessate al mio lavoro. Non nego che l’idea di essere tradotto, per dire, in cinese, in una lingua cioè parlata da milioni e milioni di persone, mi galvanizza. E mi affascina anche la prospettiva di essere invitato a tenere conferenze in posti per me esotici come Tokyo, Shanghai o Florianópolis.
Mi sta però anche a cuore la distinzione tra «piacere» e «gioia». Il piacere, per usare il lessico di Charles Taylor, è legato alle valutazioni «deboli» – a valori, cioè, che non hanno grande profondità o risonanza nelle nostre vite, perché dipendono da un livello superficiale del nostro gusto. Le gioie autentiche, al contrario, hanno a che fare con i beni che orientano le nostre scelte esistenzialmente più profonde, più «forti».[1] Mi piace perciò pensare che la gioia che mi danno i successi lavorativi non siano piaceri superficiali o inconsistenti, ma siano come amplificati dal loro valore intrinseco. E questo valore si riflette nel fatto che le idee che mi appassionano sono utili anche per altri. Da questo punto di vista, sono mie solo in senso lato, perché sono il frutto di precedenti conversazioni, che mi hanno arricchito da ogni punto di vista, e rendono possibili nuove forme di apprendimento che contribuiranno a renderle ancora più pregnanti.
Perché ciò avvenga, però, è importante che io non sia sempre in viaggio da un angolo all’altro del pianeta. Ammetto perciò di avere anche il sogno e il bisogno opposto di ritirarmi periodicamente nella Foresta Nera e dedicarmi alla scrittura nel più completo isolamento. Questo è un esempio delle contraddizioni esistenziali di cui parlavo sopra.
Ma in questa vita relativamente «buona», ci sono momenti e fonti speciali di disappunto, delusione, irritazione?
Sì, senza dubbio. E non sono occasionali. Vorrei servirmi in proposito del concetto di «alienazione», anche perché ha molto a che fare con la mia esperienza diretta con la vita accademica. Ci si sente spesso «alienati» nella nostra professione. Basta pensare ai convegni giganteschi, che sono i luoghi più inospitali a una vita intellettuale autentica che uno si possa immaginare. È una specie di circo globale in cui un gruppo ristretto di persone si sposta da un continente all’altro e si incontra periodicamente, senza avere più granché da dirsi. È una vita sterile come quella dei consanguinei: una specie di endogamia. A volte mi angoscia pensare che anch’io contribuisco a questa forma di isterilimento del pensiero.
Un’altra enorme fonte di frustrazione dipende da quella che potremmo chiamare l’«economicizzazione» della ricerca scientifica, che ci costringe a scrivere progetti di ricerca a tambur battente e a fare applications in continuazione solo per procurarci il denaro che – secondo la logica imperante nel nostro mondo – dovrebbe attestare la nostra utilità e legittimare la nostra esistenza agli occhi dell’opinione pubblica. Fatico a immaginarmi un’esperienza più alienante! Da un lato, infatti, siamo sommersi di burocrazia, perché ogni processo accurato di valutazione esige la costruzione e manutenzione di una macchina burocratica efficiente. Dall’altro lato, come tutti sanno per esperienza, il denaro ha lo spaventoso difetto di trasformarsi in men che non si dica da mezzo a fine. Così capita spesso di arrivare esausti alla fine del processo di valutazione e, una volta ottenuto il denaro, di non avere più energie per la realizzazione degli obiettivi teorici a cui il finanziamento era destinato. In questo modo tutto l’investimento intellettuale e affettivo è assorbito dall’obiettivo, che dovrebbe essere in realtà intermedio, di entrare nella sempre più ristretta élite dei vincitori dei bandi di finanziamento pubblici e privati.
Vedi una qualche relazione tra questo mondo che hai appena descritto e il discorso egemone in questa fase politica che contrappone delle «élites» autoreferenziali a un «popolo» di esclusi? Oppure nella tua esperienza parte della frustrazione e dell’alienazione è meglio descrivibile come il prodotto di una logica sistemica?
È una domanda interessante. Personalmente, vivo la mia appartenenza all’élite intellettuale globale come un processo riuscito solo a metà. È un po’ come se avessi un piede fuori e un piede dentro. In un certo senso ne faccio parte e in un altro senso no. Questo è un dato biografico evidente e forse è più facile per te che per me capire i motivi profondi di tale inclusione solo parziale.
Quello che posso dire io è che, se non avessi mantenuto le mie radici nella Foresta Nera – che fanno di me una specie di «comunitarista» – non sarei mai potuto andare a Berlino, Londra, New York. È però vero anche il contrario: se non avessi avuto la possibilità di lasciarla, non avrei mai potuto sviluppare quel tipo di attaccamento che ho maturato per lei nel corso degli anni. La mia condizione naturale è quella del pendolare: tra Jena, Erfurt, la Valle del Wiese, e i mille posti in cui mi porta la mia attività accademica. E lo stesso discorso vale per le conferenze a cui partecipo, compresa questa di Praga dove ci siamo incontrati per la prima volta più di vent’anni fa. Ci sono, ma non posso e non voglio mai esserci completamente. Ogni tanto devo tagliare la corda, per così dire. E lo stesso vale per l’inclusione nel circo accademico.
Per ribadire questo punto – cioè la mia riluttanza ad aderire totalmente, ad appartenere a un unico ambiente – è forse sufficiente pensare ai temi di cui mi occupo. Per me è fondamentale il fatto che si tratta di temi – l’accelerazione, la risonanza, l’alienazione – che suscitano l’interesse di persone che operano in settori e ambiti diversi della vita sociale, e non solo nella comunità ristretta degli accademici in cui sono stato formato e lavoro. Lo scorso febbraio, per esempio, sono stato invitato a partecipare a un evento speciale che si tiene annualmente a Stoccarda, la Vesperkirche,[2] in cui a persone che si trovano ai margini della società viene offerto un pasto gratis e soprattutto un’occasione per socializzare con gente che invece nella società è perfettamente integrata. Per me è stata un’esperienza molto istruttiva e mi ha rallegrato constatare che il linguaggio che uso nei miei libri ha un’eco nella loro esperienza e, viceversa, che quella particolare esperienza entra in risonanza con la mia interpretazione della società moderna.
Diciamo allora che queste occasioni mitigano almeno in parte la sensazione sgradevole di avere contribuito alla costruzione di quell’élite progressista, liberal, a cui facevi riferimento sopra e che effettivamente esiste, secondo me.
Quanto dici sembra concordare anche con la posizione per così dire «eccentrica» che occupi all’interno della tradizione della Teoria critica, a cui pure sei generalmente accostato. Come interpreti tu la tua relazione con l’universo variegato della Critical Theory?
Anche in questo caso vale il discorso che facevo prima riguardo alla mia predilezione per le «inclusioni parziali». Pensa solo alla disputa tra liberali e comunitari che era così cruciale negli anni in cui ci siamo formati entrambi. Per certi aspetti io sto dalla parte dei communitarians, pur non riconoscendomi completamente nell’etichetta. Probabilmente la mia affiliazione più forte è proprio con la Teoria critica, ma questo non significa che la mia affinità con la tradizione fenomenologica sia meno importante. Alla fine ho dovuto creare il mio marchio personale per sentirmi davvero a casa in una scuola di pensiero.
Probabilmente da giovane ero più insicuro, ma ora mi sento ben voluto anche da quella che Michael Walzer ha chiamato ironicamente «la compagnia dei critici».[3] Ma qual è la mia comunità ideale, quella a cui mi sento veramente di appartenere? Me lo sono chiesto fin da ragazzo. Mi ricordo, per esempio, che non avevo ancora finito il dottorato e, avendo una piccola posizione retribuita in Università, un giorno mi sono trovato a esporre a un mio professore – era addirittura un aristocratico, ormai sulla soglia della pensione – tutti i miei dubbi sulla carriera universitaria. Il fatto è che volevo sì trascorrere la vita studiando e riflettendo sulle questioni che mi stavano più a cuore – il significato autentico di una vita «buona» e le condizioni sociali necessarie per realizzarla – ma non pensavo di avere il diritto di essere sostenuto economicamente dalla società. La sua risposta, devo dire, è stata molto schietta: «Non cedere agli scrupoli: devi farlo. La società ne ha bisogno». Per me è stato un sostegno importante. Da allora mi dà conforto pensare che da sempre le grandi civiltà hanno avuto bisogno di persone impegnate quotidianamente a interpretare, cioè ad «articolare» (tanto per usare il verbo preferito di Taylor) i significati insiti nel loro stare insieme, nelle pratiche sociali di cui sono intessute e negli obiettivi che perseguono, alla luce di una specifica comprensione di chi noi siamo – voglio dire «noi» esseri umani. Da queste persone – siano esse teologi, artisti o filosofi – la società si aspetta idee, suggerimenti, a cui attingere quando serve. È così che percepisco me stesso: come una persona pagata dalla società per decifrare la propria forma di vita, indicare i suoi difetti, prospettare soluzioni. Questo non significa che io abbia in tasca la verità – quasi che la verità fosse un pacchetto che, una volta preparato, può essere consegnato nelle mani di chi sa cosa farsene. No, il mio compito è sviluppare e portare alla luce i significati del nostro agire irriflesso e a quel punto uscire dal mio studiolo e discuterne con gli altri membri della società, siano essi operai, medici, infermieri, insegnanti, genitori, o magari persone senza fissa dimora, e sulla base della loro reazione, perfezionare le mie idee e spingere un po’ più avanti questo processo collettivo di autointerpretazione che mi è stato affidato temporaneamente.
Se non capisco male, mi stai dicendo che se, mentre ti sforzi di comprendere meglio la nostra forma di vita, ti imbatti in possibilità alternative, senti il dovere di segnalarle alle persone, di allargare il loro punto di vista, il loro repertorio di ragioni per credere e agire.
Esatto, ma senza fuoriuscire dal processo di autointerpretazione che è già in corso, senza cioè pretendere per me una posizione privilegiata, una qualche forma di autorità speciale. In questo senso l’alternativa va sempre escogitata insieme, dialogicamente. Personalmente concordo con Taylor e Hubert Dreyfus sul fatto che siamo «self-interpreting animals all the way down» – animali che si autointerpretano da cima a fondo.[4] Svolgere questo compito di esplicitazione nelle società occidentali ha un valore aggiunto perché qui, spesso, il lavoro di articolazione è relegato nell’ombra e, nella fretta di raggiungere i nostri obiettivi, tendiamo a naturalizzare la nostra forma di vita, a considerarla cioè come uno stato di cose ovvio, indiscutibile. Da questo punto di vista difettiamo di articulacy e abbiamo bisogno di qualcuno che, remando contro corrente, ci renda consapevoli dell’acqua in cui nuotiamo.
Fammi capire meglio. L’idea che hai appena espresso è la stessa che Martha Nussbaum ha avanzato quando ha descritto il filosofo come l’«essere umano di professione» (the professional human being)[5]?
L’intuizione è più o meno la stessa, ma io non mi esprimerei mai così. Non vorrei essere frainteso e che qualcuno pensasse che per «professional» si debba intendere il «vero» essere umano o comunque l’essere umano in un senso più pieno dell’homme moyen sensuel. Quasi che i non filosofi fossero dei dilettanti… Francamente, mi sentirei un po’ a disagio a sostenere una tesi del genere. Non solo per l’elitismo che lascia trasparire, ma soprattutto per il suo intellettualismo. Non penso, infatti, che l’attività intellettuale goda di una qualche forma di superiorità rispetto, che ne so, all’attività artistica o ad altre forme meno glamour di espressione umana (economia, politica, genitorialità, cura, ecc.). In questo senso, ammetto che c’è qualcosa di antintellettualistico, persino di anticognitivista nella mia posizione. In fondo, è così facile per chi fa un lavoro intellettuale immaginare che nei concetti, nel pensiero, nella scrittura vi sia una dose maggiore di umanità che in altre attività umane. Questa, però, mi sembra una trappola in cui i «letterati» cadono fin troppo facilmente.
Non direi mai che il pensiero sia il fulcro dell’esperienza umana. Quando ho optato per il termine «risonanza» nella mia analisi della contemporaneità volevo anche dare voce al mio scetticismo riguardo all’idea che la chiave di volta di una vita buona sia la «ragione» o la «conoscenza». Potrei magari accettare l’idea che il punto sia il «significato», solo però se lo intendiamo in senso ampio, non strettamente linguistico: il significato, detto altrimenti, sta nella relazione.
Mi verrebbe da obiettare, però, che se si intende l’articolazione in un senso non strettamente linguistico, ogni attività espressiva può essere concepita come l’esemplificazione di una forma più o meno raffinata di articulacy, di «articolatezza», per così dire.
Capisco quello che vuoi dire ed è proprio per evitare questo rischio che, malgrado il mio debito verso la riflessione di Taylor, non ho mai enfatizzato oltre il dovuto i pregi dell’articolazione. Nel saggio Four Levels of Self-interpretation, per esempio, ho distinto quattro livelli diversi di autointerpretazione collettiva del sistema sociale, solo due dei quali sono casi di articolazione in senso stretto (dottrine sociali e credenze individuali), mentre gli altri due (istituzioni e habitus) non li definirei «articolazioni».[6] Anche nel modo in cui è organizzata una fabbrica possiamo trovare riflesso, o meglio istituzionalizzato, il modo in cui viene compresa la condizione umana in quella data società. E lo stesso vale per le subculture giovanili, dove l’interpretazione è addirittura «incorporata» nel modo stesso di camminare, vestirsi, atteggiarsi degli adolescenti. Non parliamo poi di un ballerino: che cos’è la danza se non un tentativo di dare forma con il corpo e i suoi movimenti al nostro senso embrionale di che cosa significhi essere un membro, maschio o femmina, della specie umana o di una certa società?
Con ciò non voglio negare che l’articolazione sia un livello importante del processo collettivo di autointerpretazione, ma – e questo è forse l’unico tratto esplicitamente antihegeliano del mio pensiero – non credo che sia il livello più importante, quello in cui si ritrovano tutti gli altri gradi di interpretazione in una forma sublimata.
La critica sociale è una pratica tipicamente moderna. Nasce con le rivoluzioni moderne, rispecchia molti aspetti della nuova personalità e socialità moderna, ecc. Esiste dunque un parallelismo tra l’interpretazione del senso dell’attività critica e quella del significato della transizione moderna. Un tratto distintivo del tuo ritratto dell’età nuova è l’enfasi sul dinamismo, sulla velocità, prima ancora che su altri elementi della forma di vita moderna (relazioni economiche, innovazioni tecnologiche, figure della soggettività). Hai voglia di spiegare perché dopo il tuo primo lavoro su Taylor hai orientato i tuoi sforzi teorici in questa direzione? E sei ancora persuaso della bontà di quella decisione?[7]
Tutto ha avuto inizio con un’intuizione che, volendo, si potrebbe considerare come un esempio paradigmatico di quei significati non articolati delle pratiche sociali cui facevo riferimento sopra. L’intuizione riguardava l’accelerazione costante della vita delle persone negli ultimi tre secoli. A colpirmi era il fatto che fosse una circostanza tutto sommato banale dell’esistenza, nulla a che vedere con idee che incorporano già delle valutazioni forti come «democrazia», «uguaglianza», «individualismo», «liberalismo» – concetti che, se ci pensi bene, appartengono già a un livello elevato di articolazione intellettuale. Anche se ne paghiamo tutti le conseguenze, l’accelerazione è un elemento della vita sociale moderna che non ha calamitato l’attenzione che la maggioranza degli studiosi ha dedicato ad altre innovazioni recenti: è rimasta per così dire sullo sfondo.
Comunque, per essere onesti, non è che fossi ossessionato dall’accelerazione in quanto tale. A incuriosirmi era piuttosto la sua capacità di modellare le vite di tutti. Alla fine tendo sempre a tornare alla domanda che ha guidato fin dalle origini la mia ricerca: «perché viviamo le vite che viviamo, visto che potremmo anche viverne altre?». È proprio ragionando sulle possibilità non realizzate che mi sono reso conto dell’importanza delle strutture della temporalità nella forma di vita moderna.
L’anello di congiunzione tra le mie ricerche precedenti e questa, se non ricordo male, è stato un saggio di Taylor che ho avuto occasione di leggere prima ancora che venisse pubblicato: Leading a Life.[8] In quel testo Taylor osservava che il problema principale dell’esistenza umana è che nelle nostre scelte più importanti siamo spesso guidati da valutazioni forti contrastanti e alla fine siamo condannati a cercare una qualche forma di bilanciamento tra impegni di valore parimenti fondamentali per noi.
Siccome trovavo l’osservazione a prima vista persuasiva, mi sono fermato a pensare alla mia vita e alla vita delle persone che mi circondano e alla fine mi sono detto che, più che dalle valutazioni forti, le nostre vite sono governate da un intrico di scadenze, agende, timeline. Dopo di che ho letto un saggio di Niklas Luhmann che, a sua volta, conteneva un’osservazione molto perspicace.[9] Contrariamente a quello che insegniamo ai nostri figli – cioè che l’ordine delle nostre priorità dovrebbe essere costruito sulla base dell’ordine di importanza delle cose che dobbiamo fare – la verità, notava Luhmann, è che la divinità che domina le nostre vite è l’urgenza: passiamo tutti da un’incombenza all’altra facendoci guidare sempre dalle scadenze immediate, pur essendo consapevoli dell’esistenza di cose ben più importanti che rinviamo solo per la mancanza di tempo.
È una storia che sentiamo ripetere in continuazione dalla gente attorno a noi. «Per me la fede è importantissima, ma la domenica non posso proprio andare a messa: ho troppe cose da fare». Oppure: «Esiste forse un valore più importante della partecipazione democratica? No. Il problema è che le riunioni le organizzano sempre alla sera e non saprei proprio come trovare il tempo per partecipare».
Un’altra spiegazione del mio interesse per il tema dell’accelerazione è quasi etnografica. Come ho detto, io provengo da un piccolo paese della Foresta nera, i cui ritmi di vita erano sicuramente più lenti di quelli che ho sperimentato poi a Friburgo, dove mi sono trasferito negli anni di Università. Questi, comunque, non erano nulla in confronto ai ritmi di una metropoli come Londra, dove ho fatto il master. Solo lì ho toccato con mano quello che Simmel aveva già notato a proposito della personalità urbana: il contesto plasma la tua stessa sensibilità imponendo all’esistenza un ritmo del tutto artificiale.[10] La mia tesi di abilitazione l’ho scritta infine a New York proprio perché non c’è al mondo una città più frenetica. Esiste forse un posto migliore di Times Square per riflettere sull’accelerazione moderna? E quello che mi colpiva lì era una spaventosa concentrazione di energia grezza, nulla che facesse pensare a ideali altisonanti come il liberalismo, la democrazia, o l’autodeterminazione.
Alla fine, dunque, ridotta in pillole, la tua tesi è che la velocità sia il tratto distintivo della civiltà moderna, ciò che ci consente di demarcarla rispetto ad altre epoche della storia umana. È così?
Qui è meglio procedere con cautela. È sempre difficile fare un paragone tra epoche diverse e concludere con certezza che in una determinata società – diciamo una città vescovile italiana – la vita fosse meno frenetica che nella Berlino di Simmel. Questi paragoni sono insidiosi. La vita di chi era più frenetica? Se non si procede con prudenza in questi giudizi, gli scettici avranno buon gioco a seminare i loro dubbi radicali sulla possibilità stessa di comparazioni così vaghe. Gli storici, in particolare, sono abilissimi nel fare leva su questi dubbi e sul carattere elusivo del concetto stesso di velocità. Certamente non è mia intenzione sostenere che la modernità sia la prima epoca nella storia umana a conoscere una forma marcata di accelerazione dei ritmi di vita. Di accelerazioni di questo tipo se ne sono susseguite diverse nel corso dell’evoluzione umana grazie, per esempio, alle innovazioni tecnologiche nell’agricoltura o nei mezzi di trasporto. Le transizioni storiche, in particolare, sono sempre momenti di accelerazione della vita, spesso anche molto brutali. La mia tesi è molto più specifica. È l’idea che la società moderna sia la prima società nella storia umana che ha bisogno di accelerare per mantenere in piedi la propria stessa struttura. Detto altrimenti, essa si basa sull’accelerazione. La sua è una forma di stabilità dinamica che produce per default qualcosa di molto simile a un’escalation.
Questa caratteristica è particolarmente evidente nella vita economica. Ma non va identificata tout court con la crescita. Certo, crescere è fondamentale, ma anche quando il PIL non cresce, è comunque essenziale che aumenti la produttività, o l’innovazione, o l’ottimismo. Insomma, anche solo per non perdere ciò che si ha, è necessario accelerare. Questa mi sembra una caratteristica esclusiva della modernità, per quanto posso giudicare.
Se non sbaglio, nei tuoi scritti sul tema, non ti limiti a constatare e descrivere questo stato di cose, ma senti l’esigenza di spiegare causalmente l’emergere di una forma di vita a tal punto dipendente dall’accelerazione. È esatto?
Esatto. Un riflesso quasi automatico degli studiosi che si occupano del tema è la tendenza a spiegarlo chiamando in causa il capitalismo, anche se a quel punto diventa inevitabile chiedersi da dove diavolo arrivi il capitalismo e così via, all’infinito. Come se ne esce? La verità è che, così su due piedi, non saprei che pesci pigliare perché, da un lato, trovo le spiegazioni di stampo marxista convincenti, ma, dall’altro lato, non è facile conciliare la distinzione tra struttura e sovrastruttura con l’antropologia filosofica che ho ereditato da Taylor e che, come ho detto sopra, sostiene che noi esseri umani siamo interpretazione da cima a fondo. Dietro a questa esitazione è facile riconoscere l’ombra dell’enorme controversia teorica tra «idealisti» e «materialisti». Bene, probabilmente la scelta più ragionevole sarebbe seguire la via che imboccano più o meno tutti e ammettere che dobbiamo trovare una qualche forma di alleanza tra idealismo e materialismo se vogliamo spiegare adeguatamente fenomeni complessi come la nascita della moderna civiltà occidentale.
Di fatto, però, tanto nel mio volume sulla risonanza quanto nel mio libro più recente dedicato al tema dell’indisponibilità ho difeso la tesi che le cause economiche non siano sufficienti per spiegare la dipendenza della società moderna dall’accelerazione.[11] All’origine non può esserci l’economia, e neppure la guerra – sebbene la competizione tra gli Stati nazione dopo la pace di Vestfalia ha sicuramente contribuito a rendere ancora più dinamica la civiltà europea. Se si scava fino in fondo, mi sembra che tutto ruoti attorno a una questione di orientamento o, meglio, di self-world-interpretation, come l’ho descritta nei miei ultimi lavori. Da questo punto di vista, la modernità appare anzitutto come un modo di posizionarsi rispetto al mondo – ossia rispetto alla totalità delle cose che il sé può incontrare sulla propria strada – finalizzato principalmente al controllo, al dominio, ed è questa la vera fonte dell’accelerazione moderna ed è anche ciò che ha reso possibile il capitalismo in prima istanza.
La causa ultima, quindi, per me è di tipo culturale o, per essere ancora più precisi, «interpretativa».
Un altro tratto distintivo del tuo modo di fare teoria critica è la pluralità delle fonti e delle tradizioni a cui attingi. Tu non sembri per nulla preoccupato dall’esigenza di rispettare, diciamo così, un «canone» o un bacino di autori «rispettabili» o compatibili con la vocazione critica della teoria. Pensi di dover giustificare il tuo eclettismo teorico oppure no?
Direi proprio di no. Ho sempre avuto l’impressione che la suscettibilità verso l’uso di pensatori non «canonici» fosse un elemento generazionale, esemplificato alla perfezione dalla diffidenza di Habermas verso Carl Schmitt e quelli che potremmo definire i pensatori in senso lato «schmittiani», cioè superficialmente presentabili, ma sotto sotto reazionari fino al midollo. Ti confesso però che, pur appartenendo a una generazione diversa, anch’io mi tengo alla larga da Schmitt, verso il quale nutro una vera e propria insofferenza. Ancora oggi trovo stupefacente quanti studiosi, anche a sinistra, subiscano la sua influenza e stravedano per la sua teoria della sovranità o la sua critica del liberalismo. Ma nel caso specifico il problema principale per me non è tanto il pensiero, ma il ruolo svolto da Schmitt nella storia tedesca. Come si fa a dimenticare la sua adesione e fattiva collaborazione col regime nazista? Io non ci riesco. Lo stesso discorso vale per Heidegger, di cui cerco di fare un uso per così dire omeopatico nei miei lavori.
Ma, a parte queste resistenze, che hanno a che fare più con gli uomini che con le loro idee, io rifuggo da qualsiasi tipo di restrizione. Quando voglio argomentare a favore di una tesi, mi muovo a trecentosessanta gradi. Per me è una questione di metodo. Il mio metodo ha due principali «regole per la guida dell’intelligenza». La prima è quella di ricavare i problemi teorici dalla vita reale. La seconda è di usare qualsiasi strumento conoscitivo utile per sviscerare la questione. A questo scopo l’etichetta e le etichette non contano nulla. È una cosa che ripeto spesso ai miei studenti, in particolare quando parlo loro di Max Weber – e, in quanto Direttore del Max-Weber-Kolleg, mi capita di farlo in continuazione. Sto pensando ora soprattutto al requisito fin troppo enfatizzato dell’avalutatività, della Wertfreiheit, della sistematica astensione dai giudizi di valore. Io credo che le sia stata attribuita una centralità che nel pensiero di Weber non aveva. Secondo me Weber voleva solo mettere in guardia i giovani dai rischi connessi all’influenza nefasta che l’adesione a un’ideologia o a una fede può avere sulla qualità del loro lavoro teorico. Ma tra la preoccupazione per l’onestà intellettuale (Redlichkeit) e l’assoluta neutralità c’è un abisso e non credo proprio che Weber si augurasse che la scienza del futuro venisse praticata solo da studiosi apatici o da specialisti senz’anima.
Anche per me l’integrità è una virtù epistemica essenziale. Ma, nella sostanza, essere intellettualmente onesti significa dedicarsi con la maggiore serietà possibile al proprio oggetto di studio per il solo amore della verità. Nel concreto, per esempio, vuol dire prendere sul serio ed esaminare con la massima cura tutte le obiezioni, prove, argomenti che vanno nella direzione opposta a quella che uno ha imboccato. Insomma, è essenziale guardare le cose da angolature diverse, senza timidezze o imbarazzi. E, se possibile, è importante divertirsi mentre lo si fa.
Ho capito. Ma, essendo tu un sociologo, come ti difendi da quell’atmosfera blandamente positivista che sembra prevalere un po’ ovunque oggi e che spinge ad accantonare qualsiasi affermazione che non abbia alle proprie spalle una qualche evidenza empirica strutturata. Senti il peso di questo vincolo al pensiero oppure no?
Be’, la discussione è accesissima anche in Germania, come un po’ ovunque ai nostri giorni. Se vuoi sapere con quale stato d’animo partecipo al dibattito, lo definirei di forte frustrazione. Da un lato, infatti, capisco l’esigenza di salvaguardare la funzione di reality check insita nella verifica empirica delle affermazioni che si fanno in un contesto di teoresi generale. Mentre scrivevo i miei libri sull’accelerazione e sulla risonanza non ho fatto altro che cercare in altre discipline le conferme empiriche a ciò che andavo dicendo. Abbiamo un disperato bisogno l’uno dell’altro e sarebbe una follia rinunciare per partito preso a ciò che altri specialisti hanno da insegnarci sui fenomeni che stiamo studiando. Prescindere da questo sapere significherebbe venire meno all’obbligo di essere intellettualmente onesti. Sarebbe una frode intellettuale.
Proprio in questi giorni sto collaborando con altri sociologi alla realizzazione di una ricerca empirica verso cui il mio interesse teorico è, per usare un eufemismo, limitato. Ma il mio atteggiamento in questi casi è di autentica apertura: «andiamo e vediamo».
Certo, per fare l’esempio più scontato, la mia curiosità per il fenomeno della risonanza è principalmente teorica. Ma se poi capita, come mi è successo recentemente, che due colleghi, due psicologi empirici, mi propongano di mettere in piedi un esperimento per capire se è possibile indagare sperimentalmente gli episodi di risonanza riferiti dal soggetto testato mediante una misurazione del livello di cortisolo e una mappatura dell’attività cerebrale, la mia reazione è di sincero entusiasmo. Per il momento siamo ancora a uno stadio preliminare di progettazione, ma l’idea è di lavorare sul «tatto» come fonte di esperienze di risonanza di coppia. E per tatto intendiamo sia il contatto fisico, sia l’essere toccati da una musica che ha un significato speciale per chi l’ascolta, sia la commozione suscitata da qualche contenuto veicolato dalla parola, dal discorso. L’obiettivo, insomma, è provare a correlare queste esperienze di relazione significativa col mondo con i cambiamenti fisici che avvengono nell’organismo.
Dal mio punto di vista, la relazione tra teoria ed empiria può essere circolarmente virtuosa, con la teoria che stimola la ricerca empirica e quest’ultima che retroagisce sull’immaginazione teorica spingendola in direzioni imprevedibili. Di fatto, però, spesso i due piani rimangono separati e l’effetto generale è di una noia mortale. La psicologia empirica, in particolare, quando non è guidata da un forte impulso teorico finisce per riscoprire continuamente l’acqua calda, confermando empiricamente quello che già tutti sanno per esperienza personale. E lo stesso avviene con la sociologia. Quando viene meno lo sforzo interpretativo i dati raccolti rimangono lì inerti e insignificanti o, peggio ancora, manipolabili ideologicamente.
Ma la tua posizione include anche una difesa del valore genuinamente informativo di forme di esperienza che non rientrano nella tipologia di esperienza vagliata metodicamente che va sotto il nome di esperimento scientifico, oppure no?
Assolutamente sì. Personalmente, mi spingerei addirittura fino a difendere il valore di uno strumento di conoscenza caduto ormai in discredito come l’introspezione. Puoi chiamarla, se vuoi, la matrice fenomenologica della mia ricerca. E, certo, per farlo bisogna remare contro corrente perché, per esempio, quando si studia sociologia una delle prime cose che ti insegnano è che la conoscenza acquisita mediante l’introspezione non vale un fico secco perché gli esseri umani sono inclini all’autoinganno. Questa, però, è chiaramente una conclusione frettolosa e reattiva. Suona vera più per i difetti di alcuni usi poco controllati dell’introspezione che per la pratica in sé. Voglio dire, non è che rivolgendo lo sguardo verso l’interno non possa esistere un contraddittorio. La nostra coscienza è dialogica all the way down. Di conseguenza, non è poi così facile ingannarsi quando si è stati allenati alla Redlichkeit. Se c’è una cosa che ho imparato da Axel Honneth è proprio la fiducia nella capacità umana di usare questi strumenti banali di autoconoscenza per capire meglio il mondo che ci circonda. Bisogna liberarsi dalla preoccupazione assillante per i rischi dell’autoinganno, che scaturisce – come sanno tutti – da un bisogno tipicamente cartesiano di certezza, di una certezza irrealistica, aggiungerei io.
Ma come procede realmente la nostra introspezione? Certo, per cominciare, noi beneficiamo di un accesso privilegiato ai contenuti della nostra esperienza. Ma poi non è che siamo monadi isolate. È la nostra stessa esperienza che ci spinge a interessarci dell’esperienza degli altri. Ed è del tutto verosimile che il confronto con l’esperienza degli altri ci indurrà a rivedere e a rivalutare i nostri vissuti. Chiaro, no? Se si smette di concepire l’introspezione come un evento self-contained e la si intende come un processo, le nostre ansie cartesiane perdono gran parte della loro forza. Non dico che svaniscano, questo no – dall’introspezione o dal confronto fra introspezioni non possiamo certamente ricavare una verità ultima – però cessano di essere così imperative, così persuasive, così autoevidenti come lo sono state negli ultimi decenni.
Che cosa avrei dovuto rispondere allora a quei colleghi sociologi che, quando lavoravo sul tema dell’accelerazione, mi dicevano: «Ma non puoi procedere così. Per far partire la tua indagine hai bisogno prima di tutto di dati empirici affidabili»? Avrei dovuto dire loro che secondo me di dati empirici affidabili riguardo alla velocità della vita moderna ne avevo fin troppi – bastava vivere per un po’ a New York, come ho detto. Ciò che mi serviva era, al contrario, una migliore cornice teorica che mi consentisse di mettere in prospettiva tali evidenze empiriche, procedere oltre e cercare nuovi, più sofisticati riscontri nell’esperienza personale, collettiva, storica, artistica, psicologica.
E il punto d’arrivo, se non sbaglio, è una sorta di equilibrio riflessivo tra forme più o meno mediate di esperienza e i concetti o le teorie escogitate per rendere sensate o il più possibile coerenti tali esperienze.
Esatto. Io lo chiamerei un conversational equilibrium, un equilibrio che nasce dallo scambio continuo di informazioni e di interpretazioni delle informazioni. E una componente essenziale di questo processo di continuo riaggiustamento sono le esperienze di disaccordo. Mi ricordo che quando presentavo il libro sull’accelerazione mi capitava talvolta di incontrare gente che non si riconosceva affatto nel mio ritratto della società contemporanea e si opponeva fermamente alla mia interpretazione. Era proprio allora che le cose si facevano interessanti. La sfida ora era capire dove fosse l’inghippo e, posto che la disponibilità a proseguire la conversazione fosse genuina, il guadagno epistemico era garantito e sostanzioso. A tal fine, però, è indispensabile che il disaccordo non rimanga allo stato di puro diniego, ma si trasformi in qualcosa di propositivo, cioè in un’interpretazione alternativa. In caso contrario, è impossibile raggiungere uno stato di equilibrio dinamico e l’oscillazione diventa meccanica. Un battibecco, insomma.
Note
[1] Sulla distinzione tra weak e strong evaluations cfr. C. Taylor, Che cos’è l’agire umano?, in Id., Etica e umanità, a cura di P. Costa, Vita & Pensiero, Milano 2004, pp. 51-85.
[2] https://www.vesperkirche.de/die-vesperkirche/the-stuttgart-vesperkirche-english-information/.
[3] M. Walzer, L’intellettuale militante. Critica sociale e impegno politico nel Novecento, trad. it., il Mulino, Bologna 2004 (ed. or. The Company of Critics: Social Criticism and Political Commitment in the Twentieth Century, rev. ed., Basic Books, New York 2002).
[4] Cfr. C. Taylor, Animali che si autointerpretano, in Id., Etica e umanità, cit., pp. 87-126.
[5] Cfr. M. Nussbaum, La fragilità del bene, trad. it., il Mulino, Bologna 20042, p. 485.
[6] Cfr. H. Rosa, Four Levels of Self-interpretation: A Paradigm for Interpretive Social Philosophy and Political Criticism, in «Philosophy and Social Criticism», 5-6, 30 (2004), pp. 691-720.
[7] Cfr. H. Rosa, Identität und kulturelle Praxis. Politische Philosophie nach Charles Taylor, Campus Verlag, Frankfurt a.M./New York 1998; Id., Beschleunigung. Die Veränderung der Zeitstrukturen in der Moderne, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 2005.
[8] C. Taylor, Condurre una vita, «La società degli individui», 11, 4 (2001), pp. 73-89.
[9] Cfr. N. Luhmann, Die Knappheit der Zeit und die Vordringlichkeit des Befristeten (ed. or. 1968), in Id., Politische Planung. Aufsätze zur Soziologie von Politik und Verwaltung, Westdeutscher Verlag, Opladen 19944, pp. 143-164.
[10] Cfr. G. Simmel, Le metropoli e la vita dello spirito (ed. or. 1903), trad. it., Armando, Roma 1995.
[11] H. Rosa, Resonanz. Eine Soziologie der Weltbeziehung, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 2016; Id., Unverfügbarkeit, Residenz, Wien/Salzburg 2018.
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