di Paolo Costa

 

[La prima parte dell’intervista è uscita lunedì scorso e si può leggere qui].

 

Vorrei dedicare qualche pensiero, ora, al libro sulla risonanza. Mentre lo leggevo, mi sono spesso chiesto che cosa ci fosse dietro la scelta del concetto. Quanto ha contato, per esempio, il fatto che parlare di risonanza ti permettesse di muoverti in uno spazio teorico non pregiudicato dal dualismo soggetto-oggetto?

 

Quello ha contato sicuramente. Scegliere la risonanza come fenomeno umano originario, in fondo, significa privilegiare la relazione rispetto alle entità che entrano in relazione (in questo caso, appunto, soggetto e oggetto). Il punto, però, era un altro. Già nel volume sull’accelerazione avevo chiarito che la mia riflessione sul tema era soltanto una riflessione preparatoria. Il vero obiettivo era elaborare una sociologia della vita buona. Non avevo però ancora un nome per designare quel modello di vita non alienata che era implicita nella mia interpretazione della modernità. Il punto di partenza era chiaro: la «bontà» di una vita non dipende dalle risorse di cui disponiamo, ma dalla qualità delle nostre relazioni. Alla definizione teorica del concetto di risonanza, tuttavia, hanno contribuito diverse catene di pensiero.

 

La prima nasceva per reazione all’etichetta giornalistica che mi era stata affibbiata dopo la pubblicazione del libro sull’accelerazione. Per la stampa, ora, io ero diventato il «guru della decrescita» o il «profeta della lentezza». Che, a pensarci bene, è un’etichetta davvero strana, tenuto conto di chi sono, della vita che faccio e anche di ciò che avevo sostenuto in Beschleunigung, dove non avevo affatto perorato la causa della lentezza o della decelerazione.

 

All’inizio mi sono chiesto se non fossi io stesso all’origine del fraintendimento, se non avessi scritto o sostenuto qualcosa di ambiguo nelle interviste che mi avevano fatto. Alla fine, però, sono giunto alla conclusione che non ero io la causa. Ho sempre avuto ben chiaro in testa che quando ci si trova di fronte a problemi quali quelli causati dalla velocità, dall’accelerazione, la soluzione non può mai venire da un puro e semplice capovolgimento. Ruotare di centottanta gradi significa solo creare problemi speculari a quelli precedenti. La velocità non è di per sé buona e la lentezza non è di per sé cattiva. Non sono così sciocco da pensare che un’ambulanza lenta sia la soluzione giusta per il problema dell’insensata frenesia moderna né mi auguro di trovare una connessione internet lenta nel prossimo hotel in cui dormirò.

 

Nella versione ridotta del libro sull’accelerazione, di cui esiste anche una traduzione italiana, ho sostenuto esplicitamente che la velocità diventa un problema solo quando genera alienazione.[12] Il che, però, significa che un compito filosoficamente cruciale è proprio quello di elaborare un senso plausibile di alienazione. Ed effettivamente uno dei miei principali obiettivi teorici è sempre stato quello di capire che cosa si nasconde dietro l’idea che nella nostra forma di vita, nel nostro modo di relazionarci al mondo, ci sia qualcosa di sbagliato. Detto ciò, se volevo essere intellettualmente onesto, non potevo limitarmi alla pars destruens. Dovevo cioè spiegare anche che cosa possa significare nel dettaglio avere una relazione non alienata con il mondo. È così che sono arrivato alla fine al concetto di risonanza.

 

Tutti sanno riconoscere una condizione di risonanza quando la sperimentano, per esempio in una conversazione. E tutti, viceversa, sanno riconoscere quando manca la connessione, quando una relazione – anche una relazione con persone che amiamo oppure con un paesaggio – è muta, non risuona. Ora, quando riflettevo su questo aspetto della condizione umana ero certo che uno stato di non alienazione non dipendesse, in ultima istanza, da beni come l’autenticità (in fondo, capita a tutti di sentirsi non alienati in contesti totalmente nuovi), o l’autonomia (dato che ci si può sentire non alienati anche quando si è dipendenti, se non addirittura sopraffatti da qualcosa o qualcuno).

 

Qui ritorna il tema, che abbiamo discusso sopra, dell’introspezione. Pensa che inizialmente volevo intitolare il libro sulla risonanza, «Geworfen oder getragen» (gettato o trascinato) proprio per sottolineare la qualità ambivalente dell’essere afferrato da qualcosa che non controlliamo pienamente. Da un lato, c’è l’esperienza del sentirsi precipitati in un ambiente ignoto e ostile e, dall’altro, la sensazione di essere trainati da una forza che ci trascende e ci conduce dove desideriamo e dove non sapremmo arrivare con le nostre sole forze. In inglese la stessa situazione è ben espressa dal verbo «to be carried away»: abbandonarsi a uno stato d’animo senza l’intervento della volontà e con la sensazione di trovarsi in un mondo benigno, amichevole.

 

Non solo come sociologo, ma come essere umano, mi è parso subito chiaro che ambedue le condizioni dipendono dalle circostanze esterne, dal contesto sociale. È un’esperienza nota anche a chi fa il nostro mestiere. Spesso ci si sente gettati in un mondo ostile la prima volta che si va a una conferenza dove tutti sembrano conoscersi, si viene esclusi dalle conversazioni nelle pause caffè, ci si sente quasi trasparenti, mentre magari uno avrebbe un sacco di cose interessanti da dire. La prima sensazione è quella di non sentirsi a casa, che le persone siano gratuitamente ostili, quasi fossimo degli intrusi. Ecco il senso dell’essere gettati in un mondo non risonante di cui parlavo prima.

 

Se invece, come capita ormai a noi qui a Praga, si torna alla stessa conferenza anno dopo anno per decenni, è più facile sentirsi a casa, circondati da persone che ti sorridono, ti chiamano per nome, chiedono notizie. La risonanza dipende quindi essenzialmente dalle circostanze esterne. Dipende in parte anche dalle risorse personali in quanto condizioni abilitanti, perché se uno è malato, povero, depresso, è molto più difficile percepire un ambiente come risonante. Dipende poi anche dall’età, dalle esperienze di vita. Sono tutte precondizioni o, come le chiamo nel libro «assi di risonanza», di cui ho preso coscienza anche contemplando e ragionando sulla mia relazione personale con le cose, sulle occasioni in cui sentivo un legame vibrante col mondo e quelle in cui non sentivo nulla del genere.

 

Spesso le intuizioni su cui si basano i tuoi libri sono molto semplici, persino banali. Mi chiedevo perciò se la tua prima reazione, quando metti a fuoco queste idee, sia di cautela o sospetto: «No, non può essere vera: è troppo semplice». E se è questo il motivo per cui i tuoi scritti sembrano delle lunghe rimuginazioni, quasi volessi mettere alla prova la tenuta della tua ipotesi iniziale testandola in tutte le direzioni.

 

Sì, uno dei miei argomenti preferiti per giustificare la lunghezza dei miei libri è che ho dovuto scrivere tanto proprio perché ho preso sul serio le obiezioni di chi dissentiva da me. Non voglio però arrivare a dire che le ipotesi teoriche interessanti siano sempre quelle più semplici. Verità e semplicità non si sovrappongono. È buona regola partire da intuizioni semplici, e non sono certo l’unico a farlo. Ma l’obiettivo ultimo è comunque riflettere a fondo e fare emergere la complessità nascosta. In ambedue i casi, non lo nego, sono rimasto sorpreso. Sia il tema della velocità che quello della risonanza hanno una quantità di lati nascosti che emergono solo se uno dedica loro molto tempo e gratta via la patina di ovvietà che li ricopre. Perché corriamo così tanto? È sempre stato così? Quali sono le conseguenze di una forma di vita basata sulla velocità? E lo stesso è successo con la risonanza. Che cosa significa entrare in risonanza con qualcosa? Da cosa dipende? È una condizione controllabile?

 

Il mio metodo è sempre lo stesso, in fondo. Sono colpito da una certa idea. Comincio a elaborarla. Registro le reazioni di chi mi ascolta e inizio a pensare che da quella idea si possa ricavare qualcosa di simile a una teoria – una teoria che, a quanto mi è dato conoscere, ancora non esiste – e così mi getto a capofitto nel lavoro. Non hai idea di quante persone – teologi, artisti, politici, gente comune – mi hanno contattato dopo l’uscita del libro e mi hanno detto: «Finalmente qualcuno ha trovato le parole giuste per descrivere, articolare, uno stato d’animo che provo fin da quando ero bambino». Quindi, per farla breve, sì, hai ragione: l’idea è semplicissima, possiamo persino dire che era già nota a tutti. Ma non era conosciuta, perché non era stata ancora articolata e sono felice di essere stato io ad articolarla nel dettaglio per la prima volta.

 

Questa sorta di «ostinazione» intellettuale – intesa in senso buono – sembra proprio la tua principale virtù intellettuale: quando imbocchi la strada che ti sembra procedere nella direzione giusta, puoi proseguire fino allo sfinimento. È così?

 

Non ci avevo mai pensato, ma è proprio così. Tra l’altro, questo mi aiuta a capire meglio che cosa si nasconde dietro l’insofferenza che a volte provo sia verso certi colleghi che verso gli studenti. Spesso, infatti, le persone si ostinano a rimuginare idee complessissime fino a perdere di vista la realtà e i suoi veri dilemmi. Questa complessità artificiale secondo me è una trappola da cui bisognerebbe mettere in guardia i nostri studenti. Suona un po’ come il monito fenomenologico a tornare alle cose stesse, ma per me è davvero così: occorre partire dal mondo reale e poi produrre tanta astrazione quanta ne serve per capirlo a fondo. Non un grammo di più, non un grammo di meno.

 

Ma tu trovi che ci sia qualcosa di ottimistico in questo slancio verso la realtà? Useresti un lessico del genere per descrivere l’energia che si percepisce nei tuoi libri? Non c’è nulla di blasé o di scettico nella tua voce autoriale – non c’è traccia insomma di quella coscienza sprezzante che non di rado fa capolino, magari solo per ripicca, negli scritti dei teorici critici. Tu sei consapevole di questa diversità di tono?

 

Non ci ho mai fatto caso, te lo confesso. Ma mentre parlavi, mi sembrava quasi che descrivessi l’atmosfera che si respira nei lavori di Taylor: quella combinazione di semplicità, urgenza, apertura mentale che mi ha molto colpito quando ho cominciato a leggerlo. Non parlerei però di ottimismo. Uno psicanalista che ha recensito il libro sulla risonanza ha scritto che il libro pecca di volontarismo – ha parlato addirittura di un «veto al pessimismo». Trovo questo giudizio assurdo. Il libro sull’accelerazione, in fondo, era superpessimista. Ma, come ho detto sopra, quella era la pars destruens, Resonanz rappresenta invece la pars construens. Se vuoi, l’elemento che tu definisci «ottimistico» potrebbe essere descritto come antifatalistico o antidisfattista. È vero che nei miei libri si respira un’aria di rivolta: anche se la situazione sembra disperata, il tono è sempre quello di chi sotto sotto pensa: «ok, le cose vanno male, ma diamoci una mossa e vediamo se possiamo fare qualcosa».

 

Probabilmente quello che percepisci tu da lettore è una ai nostri giorni inusuale e forse persino un po’ ingenua fiducia nella capacità umana di fare la differenza. Dev’essere questa tonalità emotiva non malinconica che ha spinto alcuni lettori a scorgere un raggio di luce anche in un libro molto cupo come Beschleunigung. Così mi è capitato spesso, e non sto scherzando, di ricevere telefonate da politici, anche politici di alto livello, che mi dicevano: «Signor Rosa, lei ha ragione in ambedue i casi, accelerazione e risonanza. Ora però ci dica che cosa dobbiamo fare». E io ti confesso che ero desolato di non poter rispondere positivamente alla loro richiesta di aiuto. In effetti, non ho in tasca soluzioni politiche valide per le questioni che esamino nei miei lavori. Però ho questa fiducia nella capacità umana di incidere sulla realtà che mi spinge comunque a invitare la gente a fare qualcosa: «Non restate con le mani in mano, fate qualcosa, non tutto è perduto!».

 

Da dove deriva questo ottimismo? Se dovessi azzardare una risposta, direi che alla base di tutto c’è la convinzione che le persone abbiano un desiderio profondo di essere «brave persone», di fare il bene, perché la vita merita di essere vissuta. I razzisti che sono come travolti dall’odio per gli stranieri o per gli omosessuali o per gli zingari trasmettono un senso di disagio, di frustrazione, che fa pensare che il mondo in cui vivono sia per loro un posto spaventoso, inabitabile, orribile. Ecco, personalmente non riesco a non pensare che se riuscissimo a rendere il mondo un po’ più risonante anche queste persone cambierebbero la loro Welthaltung, il loro atteggiamento di fondo verso le cose.

 

Tirando le somme, si potrebbe dire, allora, che il segreto del tuo successo va cercato in questa rara combinazione di sofisticatezza intellettuale e assenza di disperazione? Un pensatore raffinato ma non pessimista è effettivamente merce rara nella modernità, non credi?

 

È strano quello che dici perché, da un lato, mi sembra vero – è un semplice dato di fatto – che l’intelligenza tende ad andare di pari passo con il pessimismo. Gli esempi in materia sono infiniti, basta pensare a Camus o a Nietzsche, o alla quasi totalità della letteratura del Novecento. L’intelligenza ci rende consapevoli della natura alienata della nostra esistenza e questo è l’incubo più agghiacciante per l’uomo moderno.

 

Ciò non mi stupisce. Anzi. Tocca una corda sensibile nella mia esperienza personale. Da dove nasce allora la vitalità, la grinta, lo slancio che tu avverti nei miei scritti? È una domanda a cui fatico a rispondere. Verosimilmente è uno di quei rompicapi per la soluzione dei quali gli autori hanno meno titoli dei loro lettori. Se dovessi azzardare un’ipotesi direi comunque che il mio è più un ottimismo della volontà che della ragione. Insomma, è il mio anticognitivismo a salvarmi dalla malinconia tipica degli intellettuali. Come dicevo, la fiducia hegeliana nella capacità del Geist di passare attraverso le contraddizioni e superarle non fa per me. Se dovessi nominare una fonte, direi piuttosto la musica, non la parola: «In the beginning was the song». Qui mi trovo d’accordo con Sloterdijk: la prima relazione dell’essere umano con il mondo è di tipo uditivo – il mondo mi chiama e io ho la possibilità di rispondere a questo richiamo, di vibrare insieme al mondo. E non penso che sia un caso che l’applauso più lungo ed entusiasta che ho mai ricevuto in vita mia me lo sono guadagnato recentemente a Berlino quando ho parlato di fronte a un pubblico di studenti delle scuole musicali. Evidentemente non faticavano a sintonizzarsi con la mia visione dell’essere umano come un essere risonante.

 

E qual è il legame tra questa visione dell’essere umano e il romanticismo? Ti senti anche tu, come Taylor, parte di una tradizione di pensiero le cui radici affondano nella protesta romantica contro le scissioni moderne, oppure rifuggi da questa etichetta?

 

Tutto dipende da che cosa si intende per Romanticismo. C’è un uso del termine che ne fa il sinonimo di una forma mentis ingenua, sentimentale o nostalgica. In questo senso non mi sento un romantico e nego risolutamente che la mia teoria lo sia anche solo vagamente. Taylor, però, ha in mente qualcosa di più sofisticato quando rivendica questo tipo di discendenza intellettuale. Qui le nostre posizioni si riavvicinano. In effetti, la tradizione romantica, tanto nell’arte quanto nel pensiero, ha recuperato qualcosa che le correnti più intellettualistiche del razionalismo seicentesco e dell’illuminismo avevano accantonato. Il problema sta proprio in questo unilateralismo. Nessuno nega che la capacità di distanziarsi dalla natura, di metterla bene a fuoco e scovare gli strumenti per controllarla, per padroneggiare la contingenza e i rischi che ne derivano, sia utile, addirittura indispensabile. Un atteggiamento manipolativo verso la realtà è presente in ogni cultura umana. Contro l’unilateralismo del razionalismo illuminista, i romantici hanno articolato però l’idea che oltre agli sforzi di autodeterminazione esistano anche degli assi di risonanza: che l’arte, la natura, l’amore, la religione, siano ambiti importanti della vita dove entriamo in contatto con fonti dell’esperienza che non ammettono l’assunzione di un atteggiamento strumentale o manipolativo. Taylor stesso, in un saggio dedicato proprio al tema della risonanza, ha insistito sull’intuizione filosoficamente più preziosa del romanticismo: l’idea cioè che gli esseri umani, attraverso le loro capacità poetico-espressive contribuiscano a far emergere un senso autentico dall’esperienza.[13] Un senso, quindi, che non è né totalmente sotto il controllo del soggetto né totalmente indisponibile. Questa è l’idea romantica della «co-creazione»: un’intuizione ancora oggi molto preziosa. E non c’è dubbio che questa intuizione sia la stessa a cui ho cercato di dare una veste teorica nel mio libro sulla risonanza. La «risonanza» è proprio il luogo mediano, sorgivo, i cui poli inseparabili sono il soggetto e l’oggetto.

 

Se capisco bene, quindi condividi anche tu una visione non monistica, dialettica, della modernità, l’idea, cioè, che la modernità sia già molteplice anche in Occidente e non solo nelle sue varie manifestazioni a livello globale?

 

Questo è un punto importante e di comprensione non immediata. Vediamo se riesco a spiegarmi bene, perché credo – o quantomeno spero – di avere dato un contributo originale al dibattito sulle «multiple modernities» a partire da un mio particolare sentimento di frustrazione, se non vera e propria insofferenza verso il carattere ancora etnocentrico e tutt’altro che neutrale del concetto stesso di modernità multiple.[14] Ho il sospetto, infatti, che i pensatori che hanno seguito Shmuel Eisenstadt su questo terreno hanno continuato a considerare la modernità occidentale come il fenomeno prototipico e le altre modernità come dei modelli per così dire derivati. Da questo punto di vista, io sposo invece una visione monista e avalutativa della modernità. «Moderne», come ho sostenuto sopra, sono quelle società che funzionano in una condizione di stabilizzazione dinamica. E questa logica la troviamo all’opera tanto in Cina, quanto in Brasile, o in Italia, Giappone, USA, ecc. Diciamo che qui incontriamo la struttura basilare, minimale, trasversale del fenomeno storico che siamo soliti definire «modernità». Poi, certo, esiste anche il «progetto» moderno, sia nel senso habermasiano del «progetto incompiuto», o in quello della dialettica tayloriana tra l’identità razionalista e quella romantica o della visione foucaultiana della società disciplinare che si tramuta in società del controllo biopolitico. Queste sono declinazioni culturalmente specifiche del prototipo universale.

 

Quanto alla natura essenzialmente duale della modernità occidentale, anche questo aspetto lo interpreto in un’ottica strutturale. Come dicevo sopra, lo riconduco alla compresenza – a livello antropologico – di un’attitudine oggettivante, strumentale verso la realtà (resa possibile e cementata dalla cultura) e di un rapporto risonante con le sue varie facce. Anche questo è un elemento comune a tutte le civiltà e attualmente, al Max Weber Kolleg di Erfurt, stiamo proprio studiando in che modo le varie culture hanno dato vita, per esempio rispetto alla natura, sia ad assi di risonanza sia a strumenti di controllo giustificati dalla paura, dal bisogno, dal desiderio di comodità, ecc.

 

In questo periodo storico è molto diffusa la sensazione che l’umanità si trovi di fronte a un bivio, che la crisi attuale – in particolare la crisi ecologica – rappresenti un punto di non ritorno della storia umana. Questo senso di un collasso imminente traspare anche dalla popolarità dell’idea secondo cui quella che stiamo vivendo sarebbe descrivibile addirittura come un’era geologica a sé stante: l’antropocene. Insomma molti oggi si sentono responsabili di un cambiamento potenzialmente disastroso in una scala temporale non storica, ma geologica. Condividi questa prospettiva o no?

 

Anche questa è una tematica complessa ed è importante non perdere di vista le sfumature. Da un lato in questi casi mi viene sempre spontaneo citare Gérard Raulet, secondo il quale essere moderni significa trovarsi in una condizione di crisi permanente. E in effetti dalla Rivoluzione francese in avanti l’Europa non ha fatto altro che passare da una crisi all’altra. Io, tuttavia, mi spingerei persino più in là e direi che questa regola vale per qualsiasi civiltà, non importa se moderna o premoderna. Nel Medio Evo, per dire, le persone vivevano con un senso dell’apocalissi imminente che oggi fatichiamo a immaginarci. Figuriamoci poi che cosa deve avere significato vivere negli ultimi secoli dell’Impero romano… Se non sbaglio, inoltre, molti studi antropologici ci restituiscono l’immagine di comunità su cui aleggia il sospetto che le cose non possano andare avanti così ancora per molto, che il collasso sia giusto dietro l’angolo e che la responsabilità di tale collasso sia della comunità stessa.

 

Ora, io non ho dubbi che la crisi fotografata dall’immagine dell’antropocene abbia una sua qualità e rilevanza politica speciale. Tuttavia, la caratteristica che mi colpisce di più è proprio un elemento strutturale, che a me pare più parte del problema che non della soluzione. Mi riferisco in particolare alla tendenza a viversi, alternativamente, o come protagonisti esclusivi o come vittime della catastrofe. A questa polarizzazione corrisponde dal lato del linguaggio l’alternativa secca tra forme attive e passive del verbo con cui viene descritta l’azione: o colpisco o sono colpito, o domino o sono dominato. Eppure esistono lingue, come il sanscrito o il greco antico, che contemplano anche la forma medio-passiva del verbo. Mi è venuta così la tentazione di indicare in questa opzione linguistica un antidoto all’oscillazione tra una visione estrema della capacità umana di perpetrare il bene e il male e una visione non meno estrema dell’impotenza umana a controllare le conseguenze delle proprie azioni. Questa oscillazione appare evidente soprattutto nel modo in cui concepiamo la nostra relazione con la natura interna o esterna: o siamo padroni o schiavi della natura – non esiste via di mezzo. La modernità, come ha sostenuto Taylor, incarna una sorta di dichiarazione di indipendenza spirituale dalla natura: «da oggi la natura smette di controllarci, saremo noi a controllare lei!». Così, però, si produce immediatamente un effetto rebound e la natura comincia ad apparire minacciosa: una formidabile antagonista che può da un momento all’altro schiacciarci e ridurci in polvere. A quel punto viene spontaneo indossare l’abito della vittima inerme con tutto il corredo di emozioni che caratterizza tale condizione di impotenza. È il tipo di dialettica che l’umanità ha sperimentato, ad esempio, con la scoperta della fissione nucleare e del suo enorme potere creativo-distruttivo. Da un lato c’era l’entusiasmo prometeico di chi è riuscito a penetrare nei recessi più profondi della materia e dei suoi misteri, dall’altro lo sgomento di chi si trova gettato in una condizione di vulnerabilità mai conosciuta prima dal genere umano.

 

Ecco, la convinzione che sto maturando oggi è che abbiamo bisogno di figurarci una condizione di medio-passività o medio-attività per sfuggire alla coazione a concepirsi o come onnipotenti o come impotenti, come carnefici o come vittime. Noi non siamo né «padroni» né «schiavi» della natura. Siamo piuttosto in una relazione responsiva, cioè attivo-passiva, con la natura. Per farmi capire di solito ricorro all’esempio della transessualità, perché anche quando siamo posti di fronte a questo fenomeno tendiamo a oscillare tra i due poli della «scelta» arbitraria (è il soggetto l’unico titolato a decidere di che sesso è) e della semplice adesione passiva a ciò che la natura ha fatto di noi. Anche in questo caso io preferisco una visione più processuale, esplorativa, in cui l’individuo non si comporta né come un soggetto sovrano né come un suddito inerme, ma si mette alla ricerca del proprio asse di risonanza nella sfera sessuale ponendosi in una relazione non passiva di ascolto del proprio corpo, senza avere una risposta preconfezionata, già decisa in partenza. La relazione è trasformativa e autenticamente open-ended: non deve nemmeno andare necessariamente in una direzione o nell’altra. Può cioè mantenersi anche in una condizione di sospensione.

 

Quindi, per riassumere, il mio obiettivo è capire nel dettaglio in che cosa possa consistere questa condizione di medio-passività o medio-attività, a cui corrispondono nella vita di ogni giorno le esperienze di risonanza con la natura, la storia, la vita, ecc.

 

In Shame and Necessity Bernard Williams sembra avere in mente qualcosa di simile a una condizione intermedia tra attività e passività quando difende la sensatezza di uno stato d’animo di rimorso per le conseguenze delle proprie azioni pur in assenza di una agency, e quindi di una responsabilità morale, assoluta (il suo esempio preferito, non a caso, è Edipo).[15]

 

Non ho ben presente il ragionamento di Williams, ma da come lo descrivi sembra effettivamente molto vicino a quello che intendo io quando parlo di una condizione di medio-passività o medio-attività.

 

Per concludere, secondo te lo stesso schema interpretativo è applicabile anche alla crisi odierna delle democrazie liberali e al suo profilo significativamente ambiguo?

 

Sì, io vedo qui all’opera lo stesso tipo di logica. C’è questa idea-forza, su cui fanno leva per esempio i sovranisti contemporanei, secondo cui la democrazia, essendo appunto il potere del popolo, dovrebbe garantirci una padronanza assoluta sulle nostre vite. Se la democrazia funziona, se è davvero tale, dovremmo cioè essere in grado di plasmare le nostre vite così come ci garba. Quando ciò non accade, finiamo per dubitare del valore o dell’esistenza stessa della democrazia e ci sentiamo vittime di una classe politica corrotta o di un inganno planetario ordito da gruppi di potere invisibili e invincibili. Anche in questo caso l’antidoto è ripensare la democrazia nell’ottica della risonanza. Quando ci autogoverniamo, infatti, siamo impegnati in una relazione di ascolto, risposta e «Umverwandlung» – cioè di simultanea appropriazione e trasformazione, per usare uno dei miei concetti preferiti.[16] L’esito di questo processo, come notavi anche tu, non è scontato e personaggi inquietanti come Trump fanno leva su questa incertezza per sventolare davanti agli occhi degli elettori un miraggio di sovranità nazionale («Make America Great Again!») che è tanto pericoloso quanto irrealistico oggi. Dobbiamo uscire da questa trappola, e ragionare in termini di risonanza può aiutarci a farlo. Questa almeno è la mia speranza.

 

Note

[12] Cfr. H. Rosa, Accelerazione e alienazione. Per una teoria critica del tempo nella tarda modernità, trad. it., Einaudi, Torino 2015.

[13] Cfr. C. Taylor, Resonance and the Romantic Era: A Comment on Rosa’s Conception of the Good Life, in H. Rosa – C. Henning, The Good Life beyond Growth: New Perspectives, Routledge, New York 2018, pp. 55-69.

[14] Sul tema si veda il numero monografico di «Daedalus», 1, 129 (2000) (in particolare il saggio di S.N. Eisenstadt, Multiple Modernities, ivi, pp. 1-29).

[15] Cfr. B. Williams, Vergogna e necessità, trad. it., il Mulino, Bologna 2007.

[16] Cfr. H. Rosa, Demokratie und Gemeinwohl: Versuch einer resonanztheorethischen Neubestimmung, in H. Ketterer – K. Becker (hrsg.), Was stimmt nicht mit der Demokratie? – Eine Debatte mit Klaus Dörre, Nancy Fraser, Stephan Lessenich und Hartmut Rosa, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 2019, pp. 160-188.

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