di Vittorio Sereni
Prefazione di Tommaso Di Dio
[Esce oggi per Il Saggiatore una nuova edizione di Il musicante di Saint-Merry e altri versi tradotti, il quaderno di traduzioni di Vittorio Sereni. Pubblichiamo la prefazione di Tommaso Di Dio e tre traduzione da Frénaud, Char e Williams, ringraziando l’editore].
andavano spettri e venivano. Lassù
un’ultima bontà illuminava le cose.
Vittorio Sereni[1]
1.
Ogni libro di traduzioni è innanzitutto una storia di fantasmi. E Il Musicante di Saint-Merry, straordinario capitolo maturo della vicenda artistica di Vittorio Sereni, non fa eccezione. Cos’altro spingerebbe un poeta nella fatica della traduzione se non l’infinito piacere di intrattenersi con gli ectoplasmi di una lingua altra, sempre in bilico in un tempo rapito, che «è ancora e non è più»[2], fra lutto e utopia? Tradurre non è allora solo un modo per fingere se stessi en travesti, agire per un momento nel nome e nelle movenze di un autore dalla cui ispirazione si è stati magari sbalorditi, ma è un vero e proprio movimento anadromo, all’indietro, verso le sorgenti della scrittura: un modo per riportare il testo ad uno stato potenziale, per liberare in esso tutto ciò che l’averlo trovato già scritto sembrava precludere per sempre. Anche per questo, dobbiamo smetterla di considerare i quaderni di traduzioni come il passatempo dei letterati, esercizio minore, occasionale, erudito, pigro divertissement dalle ore di mestizia creativa. Certo un po’ provocatoriamente e un po’ per davvero, dovremmo provare a immaginare che l’arte della traduzione invece coincida con il campo della letteratura, integralmente, senza residui e toto corpore; e avere il coraggio di dire che le opere di norma rubricate come originali non siano che un epifenomeno, casi particolari di quel Grande Tradurre che è la vera e sola operazione per la quale si sono impegnati da sempre tutti gli artisti di tutti i tempi. Se la traduzione è questo, ovvero l’arte di portare nuovamente la parola di un testo al grado del possibile e lì mantenerlo, sospeso, con un piede in un’invisibile terra (l’originale) e l’altro in una che sempre va giù e frana, allora tradurre è davvero un’operazione senza fine. Nessuna è infatti definitiva: se da un lato ogni traduzione porta lo stigma immedicabile di chi l’ha tradotta (ha ragione Fortini: «la traduzione d’autore è semplicemente da considerarsi un testo d’autore, da leggere, assumere, interpretare e criticare come tale»[3]), ogni traduzione – come ogni opera – non è che un’ipotesi, un testo a fronte che apre la strada ai mille altri che verranno. Facciamoci caso quando leggiamo: mentre prestiamo la nostra voce alle parole di una poesia stampata sulla pagina, più in profondità, al di là di tutti i suoni udibili, nel profondo materno del suo linguaggio, essa vibra ed emette già l’ultrasuono ronzante di tutte le sue possibili traduzioni.
Ed è verso questa totipotenza che il traduttore-poeta orienta il proprio orecchio. Forse nessuna espressione meglio di una manciata di versi di Vittorio Sereni vale come dichiarazione d’amore per questo tentativo di riportare la realtà al grado assoluto del possibile: «Sono per questa – notturna, immaginosa – neve di/ marzo/ plurisensa/ di petali e gemme in diluvio tra montagne/ incerte laghi transitori»[4]. Una primavera, quella descritta da questa straordinaria poesia, che coniuga il rigore dell’inverno, in un «turbine» che «scompone la notte e ricompone», alla ricerca infinita di uno stato del testo che sia sempre «perso/ di vista rincorso tra altrui reminiscenze/ o soltanto sognato»[5]. Pochi autori come Vittorio Sereni hanno dedicato al rimpianto delle occasioni perdute almeno tanto quanto hanno speso a cantare la potenza del reale, la sua invincibile forza di poter essere sempre altro da com’è. Niente di strano, allora, che proprio questo grande poeta si sia dedicato negli ultimi anni della sua vita alla costruzione di un libro di traduzione in cui i testi sono un’impalcatura aerea, come se dovesse essere la casa perfetta per raccogliere tutti gli spettri della propria poesia: tutti gli altri resi uguali a se stesso e tutti i se stesso infine fatti altro.
2.
È ormai una certezza che Il Musicante di Saint-Merry debba considerarsi uno dei vertici della traduzione poetica del Novecento; «parte assolutamente integrante»[6] dell’opera di poesia di Vittorio Sereni e non una sua semplice appendice minore. E questo non soltanto per la già celebrata cura formale con cui sono stati raccolti in volume[7] e per l’assillo che tenace lega questi versi tradotti a quelli che sotto il suo nome d’autore si sono ascritti; ma anche – e soprattutto – in forza del significato che Sereni attribuiva al gesto poetico, così come ci è segnalato in più punti del suo lavoro. Insomma, a discapito dell’aura di classicità che dal lavoro poetico di Sereni ormai emana, la sua è davvero un’opera che travalica i generi, in una ricerca tutt’altro che quieta e statica di una forma possibile, in cui le prose (siano diaristiche, narrative o saggistiche) e i versi (siano tradotti o no) costituiscono un solo «compatto poema»[8]: un mondo che, non identico né omogeneo, è nondimeno reso coeso da una fitta trama di “sguardi di rimando”, percorsi d’intesa, dialoghi a distanza, inserzioni e seduzioni, insistenze e fedeltà.
A questo corpus di scritture, Il musicante offre un ingresso forse obliquo, ma di un’intensità e caratura perfetta. Proprio qui infatti, in questo politissimo e privato quaderno di traduzioni, dove il nome dell’autore si confonde con quello di traduttore, Sereni ci consegna con la chiarezza dei risultati concreti la propria visione della poesia: contraria, in uguale misura, ad una scrittura «costituita in oggetto» e «dimostrativa»[9], quanto ad una arresa al «desolato autobiografismo»[10]; una scrittura che pretende di doversi aprire al fiorire della realtà fenomenica, «lontano dalla carta e dal tavolo»[11], e che nondimeno sente con un’intensità straordinaria il nutrimento che gli è stato offerto dalla poesia altrui, alla quale chiede continuamente riscontro, incistandola fin nella trama minuta della propria, senza mai cedere al tono ironico del falsetto o della maniera[12]. Insomma, mai la scrittura di Sereni si è sentita ingenua, originale: continuamente avverte il lettore di essere in dialogo con altre e molteplici rive («la sfilata delle rive/ le rive/ come proposte fraterne»[13]), sempre coinvolta umanamente in una necessaria verifica di se stessa[14], che è prima di tutto continua traduzione da un mondo ad un altro, consapevole che la lingua della poesia è uno dei molteplici «strumenti umani» e dunque «non è/ la cosa, ma la imita soltanto»[15].
È allora ovvio che questo libro di dialoghi con la poesia altrui occupi un posto peculiare nel percorso artistico di Sereni. Il musicante fu edito per la prima volta nell’autunno del 1981, ma rappresenta per lo più il frutto di una scelta operata su di un materiale che affonda le sue radici nel lavoro dei trent’anni precedenti. È un libro – non dobbiamo scordarlo – sostanzialmente retrospettivo, di sintesi a posteriori. Ci troviamo di fronte ad un Sereni maturo che sceglie, corregge e ricompatta l’opera di traduzione che il Sereni giovane aveva lentamente iniziato e costituito lungo tutto l’arco della sua carriera. Prima della pubblicazione de Il musicante (la cui Premessa d’autore svela un retroscena di cui ci occuperemo poi), Sereni aveva già pubblicato diverse traduzioni, sia in volume, che in rivista. La sua attività di traduttore era nota fin dal dopoguerra, in quelli che erano per Sereni «anni di inattività o piuttosto di aridità», in cui da una parte avvertiva stanchezza per quello che definisce «il brodetto postermetico», dall’altra vedeva «non senza malessere» l’affacciarsi sulla scena letteraria di una «insane velleità di poesia engagée alimentata dalla moda neorealista»[16]. Chiuso fra queste due istanze, il poeta che solo pochi anni prima aveva pubblicato il proprio esordio Frontiera[17], cercava una propria via verso il successivo libro gettandosi nell’esperienza della traduzione. Ed è in questo giro d’anni che incontra e inizia a tradurre i tre fari che sorreggeranno la struttura del suo futuro libro del 1981: in principio la poesia dell’americano W.C. Williams e quella del poeta a cui negli anni porterà maggiore fedeltà: René Char[18]; infine la poesia di Apollinaire, tradotto fin dal 1957 a più riprese[19]. Oltre a questi autori, nel Musicante Sereni decide di aggiungerne pochi, pochissimi altri: quattro testi tratti dall’antologia Orphée Noir e tre da Ezra Pound; un solo testo di André Frenaud, uno di Albert Camus e uno di Fernando Bandini (dal latino); e infine, a chiusura del volume, un estratto dalla traduzione dell’Illusione comica di Pierre Corneille, andato in scena tre anni prima. Già sfogliando l’indice, allora, è subito evidente la volontà di costruire un libro i cui testi fossero per lo più scelti quasi tutti a partire da materiale altrove già edito in maggior copia, ma qui riorganizzato e filtrato da un orizzonte peculiare. È chiaro come Sereni non intendesse qui semplicemente documentare e raccogliere la sua pluriennale attività di traduzione (della quale moltissimo rimane escluso[20]), ma fare qualcosa di più: costruttivamente più impegnativo e ambizioso. Anche da questo punto di vista la presenza numericamente più cospicua del trinomio Char-Williams-Apollinaire è assai significativa: sono questi i poeti da cui Sereni ha scelto di prendere di più e dice di un orientamento, è un segnale; ma il diverso peso e la loro disposizione all’interno del libro ha suscitato ipotesi contrastanti.
È stato per primo Fortini[21] a interrogarsi sul movente che ha condotto Sereni verso la voce di questi tre poeti e sul ruolo che ricoprivano all’interno della sua complessa personalità poetica. Ha scritto che Il musicante si regge sulla tensione che scorre fra due poli estremi e contrapposti: la poesia di Char e all’altro, opposto, quella di Apollinaire. Secondo la feconda intuizione di Fortini, i due autori francesi rappresenterebbero gli estremi del desiderio, ciò che Sereni, per pudore, non si sarebbe mai perdonato in proprio, ovvero l’erto sublime (Char) e il melodico vitalismo senza scampo (Apollinaire); al centro, invece, ago della bilancia, il polo identitario rappresentato dalla poesia di Williams, luogo in cui più che altrove il poeta Sereni poteva ritrovare quella fedeltà alle cose visibili che innerva tutta la sua formazione poetica. A questa intuizione, Mengaldo ha apportato una correzione diacronica che riscrive la gerarchia fra i tre. Innanzitutto indica la poesia di Char come quella da cui parte e a cui sempre ritorna il Sereni traduttore; a questa sostanziale fedeltà, Sereni si concede il tradimento occasionale delle altre due voci, intese come «diversioni e contraddizioni»[22]. Si è scritto e si potrebbe scrivere ancora molto su questa strada; ed è certamente vero che la scelta di costruire Il musicante su pochi autori, a cui è dedicato un largo spazio di testi, con l’aggiunta di pochi ma significativi snodi, segnala una differenza di questo libro rispetto ad altri celebri quaderni di traduzione pubblicati in quegli anni, caratterizzati da un mosaico di tessere e frammenti[23]. Senz’altro anche questo è un capitolo di quella celebre «fedeltà»[24] che molti interpreti hanno sentito caratterizzante la personalità di Vittorio Sereni. Eppure mi pare che la vistosa predilezione che ha condotto Sereni alla scelta di questi autori abbia finito per dare un’enfasi forse eccessiva a quella che mi pare essere invece, e tenacemente, un’esperienza d’insieme: si ha, una volta di più, a libro chiuso, l’impressione insistente che Il musicante sia innanzitutto e risolutamente un vero e proprio libro di poesia; il cui significato, per così dire corale, travalichi di molto la riflessione che può scaturire dall’analisi degli autori presi singolarmente. Ed è su questo effetto d’insieme che mi sembra valga la pena di interrogarci ancora oggi, una volta di più: Il musicante è infatti un congegno in cui cui ogni poesia è connessa all’altra ma proprio perché si inneschi una visione globale, un arco di senso, che non smette di interrogare il lettore e sembra insistere sulla domanda circa l’origine di quel coro di voci che tradotte di lingua in lingua, giunge alle nostre orecchie. Da dove viene questo coro, questa legione di voci? Questo ritmo già da sempre incominciato che tutto ad un tratto si fa avanti e chiede di essere perseguito? La proverbiale fedeltà di Sereni – è stato scritto – osava estendersi non solo agli amici, ma arrivava fino a saggiare i confini di una zona crepuscolare, mediana, «fra la veglia e il sonno», che dialogava perfino con i «morti»[25]. È un’atmosfera straniata e liminare quella di cui vive questo libro, un’area limbale, non ctonia ma neppure completamente diurna; in essa vive la lingua di quella specie dannata di spettri che sono i testi in traduzione. Per assorbirla al meglio e prima di entrare a fondo nelle sue pagine, allora, dobbiamo fare un confronto con il suo libro gemello, edito a distanza minima, eppure diverso come uno straniero: Stella variabile.
3.
La contiguità cronologica di pochi mesi con l’ultimo desolato e sorprendente capolavoro Stella variabile, finito di stampare proprio nel dicembre del 1981[26], non deve trarre in inganno: Il musicante, più che una sua anticipazione, sembra esserne il controcanto, a partire proprio dalla costruzione. Se infatti, come ha sottolineato Mengaldo, «la struttura di Stella variabile conserva qualcosa di provvisorio e aperto, come attendesse di accogliere ancora materiali nuovi, e i già accolti fossero intercambiabili»[27], Il musicante di Saint-Merry ci appare invece «selezionato e calibrato»[28], con una serie di fittissimi rimandi interni grazie ai quali «l’intero è via via legato, poesia dopo poesia» attraverso quelle «connessioni di significante e significato che sono tipiche delle opere poetiche organiche»[29]. Tanto Stella variabile sembra costruito a partire da un moto di ripulsa verso la forma “canzoniere” (Mengaldo parla addirittura di «una sorda irritazione»[30]), tanto invece Il musicante appare con tutta evidenza segnato da una recuperata fiducia in una forma di restituzione piena e coesa dell’attività della poesia. Come interpretare questa compresenza di due istanze così opposte date alle stampe a distanza di così pochi mesi? Anche questo va ascritto ad un capitolo della più vasta rubrica delle antitesi in Sereni: quella così tipica e «vitale»[31] coincidenza di opposti nella sua arte che lo ha portato a scrivere «Sono io tutto questo, il luogo/ comune e il suo rovescio»[32]. È come se Sereni ci avesse consegnato a pochi anni dalla morte un testamento duplice, bifronte; non voglio dire irrisolto, ma sicuramente aperto: plurisenso. Da un lato, Stella variabile è un libro senza centro, caratterizzato da una «minore organicità»[33] e da una «intensa frantumazione dialogica del verso»[34], da «una maggior ricerca di dissonanza»[35]; in esso Sereni ci mostra che «una storia non c’è e non può darsi»[36] per l’imperiosa presenza del «vuoto», quel colore fra tutti «il più indelebile»[37]. La presenza indistruttibile dell’angoscia abita tanto il primo testo della raccolta, quella casa dove si è venuti a stare, «già/ abitata/ dall’idea di essere venuto qui per morirci»[38], tanto un attimo alla fine di luglio, «quando trasecola il gran catino vuoto» dello stadio di San Siro e tutto il futuro e il passato, al chiudere del volume, collimano su di una «soglia» da superare con sforzo, «una volta di più»[39]. Dall’altro, Il musicante con la sua costruzione lineare e le connessioni continue e paratattiche fra i testi, si presta invece ad essere letto come un’opera organica: «”un canzoniere”», è stato anche detto, «dalla trama intertestuale fitta e continua»[40].
Se poi scendiamo nel dettaglio e confrontiamo i i testi di apertura dei due volumi, la contrapposizione si fa più evidente e potente la complementarietà. Il musicante si apre con un testo di Léon-G. Damas che sembra essere l’antifona di Quei tuoi pensieri di calamità: la morte, guardata nel sorriso degli amici e presagita come definitiva nella casa nuova, nel testo francese emerge senza più tragicità, perché i misteriosi dèi del ritmo che «sono venuti quella sera del/ tam/ tam» ci dicono che non si muore una volta sola, ma molteplici, forse infinite volte («quanti di ME ne sono morti POI»), senza che mai il ritmo si interrompa fra «le frenetiche mani/ i frenetici piedi di statue». Sembra proprio che la suggestione di aprire con un testo tratto dall’antologia dell’Orfeo nero, un Orfeo dunque rovesciato e métèque, possa voler dire di più di una mera suggestione esotica: quasi alludere ad un diverso modo di stare nella parola. «Per interposto poeta»[41], Sereni sa recuperare alcune zone remote della sua ispirazione e così cedere alle lusinghe della frenesia e della continuità di una vita che travalica gli individui «di ritmo/ in ritmo»[42], laddove il poeta di Stella variabile si inscriveva nella geografia determinata della propria casa, della propria unica vita, come «custode non di anni, ma di attimi»[43]. Da un lato emerge in Stella variabile la determinatezza senza scampo di un io di fronte «a questi che ti sorridono amici», dall’altra nel Musicante la pluralità impersonale che trascina tutto, in una circolarità infinitamente da ripetersi. Sembra che a tradurre qui non sia il Sereni di Stella variabile, ma un Sereni precedente: il Sereni dell’iterazione e della melodia che nell’ultimo suo libro è fortemente ridimensionato. Tutta la critica ha riconosciuto nello stile di traduzione di Sereni tre costanti, ovvero l’inversione, la sintesi e l’icasticità verbale[44]: tutte e tre caratteristiche che lo allontanano dalla prosaicità del verso, dal dialogato e dall’orizzontalità della sua ultima produzione e lo riannodano invece a quella “linea metafisica” di cui una volta ha scritto Fortini[45]. Se è una costante del traduttore, non sorprende che si avverta invece questo stile come un’apparizione del tutto aliena all’interno della sezione – vero e proprio libro nel libro – Traducendo Char di Stella variabile[46]. Se si leggono allora i due libri in parallelo l’impressione è tanto forte che «lascia perplessi»[47]: come se il Sereni che componeva Il musicante, il Sereni traduttore, abbia voluto deliberatamente escludere «ogni debito» verso il poeta di Stella variabile e sia risalito ad una vie antérieure: e sia questo spettro, questo doppio a darsi alla composizione e non quello.
C’è da dire che l’ultima produzione sereniana è un mondo di doppi. Anzi, è stato notato che col progredire dei suoi libri si sia affievolito lo spazio concesso agli «interlocutori, veri o immaginari», e si siano invece moltiplicate le strategie di «messa in scena sempre più esplicita dello sdoppiamento dell’io in lotta con se stesso»[48]. Basta citare le celebri Paura prima e Paura seconda con i suoi lancinanti versi finali perché il lettore se ne ricordi subito: «Con dolcezza (Vittorio,/ Vittorio) mi disarma, arma/ contro me stesso me»[49]. Davanti al musicante potremmo quasi affermare di essere di fronte ad un episodio di questa lotta, in cui i due libri sono di volta in volta ciò che l’uno arma contro l’altro, senza che sia possibile dire una volta per tutte chi sia in definitiva il vero Sereni. Da un lato abbiamo lo spettro del Poeta in nero, che «veste il lutto per voi»[50], oppure il volto del poeta che, in un momento di rabbia sgridando la figlia Laura, cade nell’abisso dell’incubo e vede all’improvviso nelle sue mani le mani dell’«angelo nero dello sterminio»[51]; dall’altra invece ci appare un Sereni che osa, dietro la maschera del poeta malgascio Jacques Rabémananjara, scrivere versi così: «Tra le mia ciglia vita in fiore./ Intero tra le palpebre l’azzurro./ E tra i solchi dell’anima Innocenza…»[52]. Da un lato il poeta di Un posto di vacanza si rammarica del tempo ormai trascorso («se non fosse così tardi») e chiede al mare, «specchio ora uniforme e immemore»[53] di dimenticarlo e di non lusingarlo più; dall’altra, attraverso la voce di Apollinaire invece scrive: «Canto tutti i possibili che ho in me fuori da questo mondo e dai pianeti/ Canto la gioia del vagabondaggio e il piacere di morirne»[54]. Niente ci appare più stridente. Ma è fatta di questo stridore la musica del Sereni ultimo. È come se negli anni conclusivi, grazie alla pubblicazione ravvicinata dei due volumi, il poeta abbia potuto comprimere la sua storia artistica in una sorta di densità in movimento che tutta accogliesse la sua prospettiva di scrittore, in una contraddizioni senza dialettica, oppositiva e potentemente conflittuale.
Come il dio romano Giano, i due libri sembrano allora i lati di una porta che si scambia le parti: un volto guarda al passato e ricostruisce e reinterpreta la propria storia di poeta attraverso i volti e le voci della propria poesia o di quella dei poeti tradotti[55], mentre l’altro guarda al futuro a partire dal presente del suo ultimo decennio di vita, in cui «le tensioni della realtà sociale e storica» – come scrisse Fortini – «gli sono parse spente» senza che, per formazione, per pudore e per ideologia, avesse a conforto alcun «risarcimento melodico»[56]. Proprio questa compresenza inesorabile della duplicità è forse «l’altra faccia» a cui approda l’arte di Sereni[57]: non una, non l’altra, ma entrambe contemporaneamente presenti. Non soltanto allora i desolati viaggi «senza referente o quasi, solipsismi consumati in autostrada o in aereo»[58] che secondo Lonardi caratterizzano l’ultimo Sereni, ma anche – com’è testimoniato da Il musicante, a patto di assumerlo integralmente come lavoro di poesia – il suo radicale e contemporaneo rovesciamento: la possibilità attraverso la poesia di poter essere sempre altro da ciò che si è e dunque vivere al contempo se stessi e il proprio rovescio. Ciò che Il musicante auspica e indica, Stella variabile nega, a conferma che la poesia per Sereni è sempre «fiore ondulato d’un insonne segreto»[59].
Tre poesie
da Vittorio Sereni, Il musicante di Saint-Merry
1.
André Frénaud
Ancienne mémoire
à Jean Bazaine
Déjà le front contre la pierre
de mille années je me souviens.
De la France jeune juchée sur les collines
de la soupe épaisse et des creux d’eau dormante
des cultures enclavées dans les forêts approfondies
des premières vendanges et des nouveaux promus
de la lumière etonnée de la lune pleine
de l’éclat matinal du manoir et de la métairie
des poires en espalier et des viviers sans nulle peine
des corbeaux patrouillant et de leurs cris d’effroi
du feu qui s’envolait de la vierge vaincue
de la neige sur les épines où l’on s’enfonce
des aubes malicieuses et des couchants salis
du grand soleil reverdissant la montagne
du long courage des grands-parents
de la finesse du bois travaillé
des abdications et de l’honneur
de la mort très ancienne
de la douleur quotidienne
de l’amour amer
du bonheur pâli
de toi de moi si peu que rien.
19-20 janvier 1957
Antica memoria
a Jean Bazaine
La fronte ormai contro la pietra
di mille anni mi rammento.
Della giovane Francia accucciata sulle colline
della zuppa densa e delle pozze dormienti
dei coltivi racchiusi dentro il cuore dei boschi
delle prime vendemmie e dei nuovi promossi
della luce stupefatta del plenilunio
del maniero al mattino e della fattoria
delle pere a spalliera e dei vivai senza stento
dei corvi in pattuglia e del loro spavento
del fuoco guizzante della vergine vinta
della neve sui rovi dove si sprofonda
delle albe argute e dei tramonti sfatti
del sole che grande la montagna rinverde
del lungo coraggio dei nonni
della finezza del legno lavorato
delle abdicazioni e dell’onore
della morte antichissima del quotidiano dolore
dell’amaro d’amore
della felicità che stinge
di te di me non più che poco, niente.
19-20 gennaio 1957
*
2
René Char
Rémanence
De quoi souffres-tu? Comme si s’éveillait dans la maison sans bruit l’ascendant d’un visage qu’un aigre miroir semblait avoir figé. Comme si, la haute lampe et son éclat abaissés sur une assiette aveugle, tu soulevais vers ta gorge serrée la table ancienne avec ses fruits. Comme si tu revivais tes fugues dans la vapeur du matin à la rencontre de la révolte tant chérie, elle qui sut, mieux que toute tendresse, te secourir et t’élever. Comme si tu condamnais, tandis que ton amour dort, le portail souverain et le chemin qui y conduit.
De quoi souffres-tu? De l’irréel intact dans le réel dévasté. De leurs détours aventureux cerclés d’appels et de sang. De ce qui fut choisi et ne fut pas touché, de la rive du bond au rivage gagné, du présent irréfléchi qui disparaît. D’une étoile qui s’est, la folle, rapprochée et qui va mourir avant moi.
Permanenza
Di che cosa soffri? Come se si svegliasse nella casa senza rumore l’ascendente di un volto che uno specchio agro avesse raggelato. Come se, abbassata su un piatto cieco la lampada e il suo bagliore, la vecchia mensa coi frutti tu sollevassi alla gala serrata. Come se rivivessi le tue fughe nel vapore del mattino incontro alla rivolta tanto amata, lei che meglio di ogni tenerezza ha potuto assisterti e educarti. Come se tu murassi, mentre il tuo amore dorme, il portale sovrano e la via che vi penetra.
Di che casa soffri? Dell’irreale intatto dentro il reale devastato. Dei loro meandri avventurosi cerchiati di richiami e di sangue. Di quanto fu scelto e non toccato, dalla sponda del balzo alla proda raggiunta, del presente irriflesso che scompare. Di una stella che si è accostata, folle, e sta per morire prima di me.
*
3
William Carlos Williams
Dedication for a Plot of Ground
This plot of ground
facing the waters of this inlet
is dedicated to the living presence of
Emily Dickinson Wellcome
who was born in England, married,
lost her husband and with
her five year old son
sailed for New York in a two-master,
was driven to the Azores;
ran adrift on Fire Island shoal,
met her second husband
in a Brooklyn boarding house,
went with him to Puerto Rico
bore three more children, lost
her second husband, lived hard
for eight years in St. Thomas,
Puerto Rico, San Domingo, followed
the oldest son to New York,
lost her daughter, lost her “baby”,
seized the two boys of
the oldest son by the second marriage
mothered them–they being
motherless–fought for them
against the other grandmother
and the aunts, brought them here
summer after summer, defended
herself here against thieves,
storms, sun, fire,
against flies, against girls
that came smelling about,
against drought, against weeds, storm-tides,
neighbors, weasels that stole her chickens,
against the weakness of her own hands,
against the growing strength of
the boys, against wind, against
the stones, against trespassers,
against rents, against her own mind.
She grubbed this earth with her own hands,
domineered over this grass plot,
blackguarded her oldest son
into buying it, lived here fifteen years,
attained a final loneliness and–
If you can bring nothing to this place
but your carcass, keep out.
Dedica per un pezzo di terra
Questo pezzo di terra che fronteggia
le acque di questa baia
è dedicato alla viva presenza
di Emily Dickinson Wellcome:
nacque in Inghilterra, si sposò,
perse il marito
e salpò per New York su un due-alberi
con il figlio cinquenne; fu sospinta
alle Azzorre; andò in deriva
sulle secche dell’Isola del Fuoco
conobbe il secondo marito
in una pensione di Brooklyn,
fu a Portorico con lui,
diede altri tre figli alla luce,
perse il secondo marito, stentò
per otto anni la vita a St. Thomas
a Portorico a San Domingo,
seguì il figlio maggiore a New York,
perse la figlia, la sua
piccina, prese con sé i due ragazzi
del suo maggiore di seconde nozze,
fece loro da madre
– che non avevano madre –, per loro
lottò contro l’altra nonna e le zie
e qui li portò per estati ed estati,
qui si difese da ladri
sole fuoco uragani,
da mosche da ragazze che là intorno
ronzavano, da siccità
mareggiate gramigne vicini,
da donnole rubagalline,
dalle sue mani che indebolivano,
dalla forza crescente dei ragazzi,
da vento da pietre da intrusi
da affitti, dal suo stesso cuore.
Questa terra dissodò con le sue mani,
signoreggiò su questa zolla d’erba,
a furia indusse a comprarla il suo più grande,
visse qui quindici anni,
pervenne a una finale solitudine e
se non avete da portare qui
che la vostra carcassa,
statevene via.
Note
[1] Sono i versi conclusivi di una versione intermedia della poesia Esterno, poi modificata e pubblicata in Stella variabile; si possono leggere in Vittorio Sereni, Poesie (a cura di Dante Isella), Mondadori, Milano 1995, p. 727.
[2] È il verso 13 della poesia Lavori in corso, I, in Stella variabile, in Poesie cit. p. 193: «quando è ancora e non è più».
[3] Franco Fortini, Addenda alla prima lezione, in Lezioni sulla traduzione, Quodlibet, Macerata 2011, p. 80.
[4] Vittorio Sereni, Addio Lugano bella, vv. 19-22, da Stella variabile, in Poesie cit., p. 197.
[5] Ivi, vv. 31-33, p. 198.
[6] P.V. Mengaldo, Ricordo di Vittorio Sereni, p. XIX, in Vittorio Sereni, Poesie e prose, cit.; già edito in «Quaderni piacentini», n.s., a. IX, 1983, poi in P.V, Mengaldo, La tradizione del Novecento, Vallecchi, Firenze 1987 e in La tradizione del Novecento. Seconda serie, Einaudi, Torino 2003, pp. 3315-31.
[7] Si veda soprattuto Silvia Zoico, Com’è fatto Il Musicante di Saint-Merry di Vittorio Sereni, in Tina Matarrese et al., Stilistica, metrica e storia della lingua, Studi offerti dagli allievi a Pier Vincenzo Mengaldo, Antenore, Padova, 1997, pp. 369-389.
[8] «Sul lago le vele facevano un lungo e compatto poema» è il primo verso della poesia Un ritorno, di Vittorio Sereni Gli strumentisti umani, in Poesie, cit., p. 108.
[9] Vittorio Sereni in un appunto scrive: «Oggi invece quanto ha apparenza di poesia tende a essere dimostrativo, non solo per le argomentazioni che porta e sviluppa all’interno dei propri testi (vecchia nozione dell’impegno, oggi superatissima e fischiatissima proprio in taluni ambienti di sinistra: Rinascita, apertura verso le neoavanguardie eccetera) ma anche nella misura in cui si pone come esempio, documentazione, pezzo di laboratorio, applicazione di un discorso che la precede: come esempio, in particolare, o dimostrazione appunto dei possibili modi di fare o di non fare poesia»; il brano è citato in Giulia Raboni, Poesie e prose, Mondadori, Milano, 2013, p. 26. La curatrice segnala che il dattiloscritto è conservato presso l’Archivio di Luino con la segnatura SER PR 0327.
[10] Vittorio Sereni, Il nome di poeta (1956), ora in Poesie e prose, cit., p. 608.
[11] Vittorio Sereni, Il lavoro del poeta (1980), ora in Poesie e prose, cit., p. 1126.
[12] Si veda P.V. Mengaldo, Il solido nulla, in Vittorio Sereni, Poesie cit., p. LXXII: «Sereni non lascia leggere in controluce le sue fonti, le corde dell’allusione e della parodia gli sono estranee»
[13] Vittorio Sereni, Un posto di vacanza, II, v. 11-13, da Stella variabile, in Poesie cit., p. 225.
[14] Così Mengaldo: «il dialogo prima che strumento di verifica di idee e sentimenti, è perciò verifica del proprio stesso esistere»; si veda P. V. Mengaldo, Iterazione e specularità in Sereni, in Poesie cit., p. LX.
[15] Vittorio Sereni, Un posto di vacanza, VI, v. 20-21, in Poesie, cit. p. 232.
[16] Così Vittorio Sereni, in René Char: il termine sparso, in Poesie e prose, cit., p. 1041.
[17] La prima edizione di Frontiera è del 1941, per le edizioni «Corrente» dirette da Ernesto Treccani, nella collana condotta da Luciano Anceschi.
[18] Per un approfondito studio sulla lunga, appassionante e non sempre condivisa storia di amicizia e poesia fra questi due giganti del Novecento si rimanda al bellissimo studio di Elisa Donzelli, Come lenta cometa, Aragno, Torino 2009.
[19] Per la precisa cronologia delle traduzioni si rimanda a Silvia Zoico, cit., p. 372-373.
[20] Per quanto riguarda l’esclusione di alcune fra le più felici traduzioni di Apollinaire, si veda Silvia Zoico, cit.; per quanto riguarda Char, si veda Mengaldo, Presentazione, in Due rive di vogliono (a cura di E. Donzelli), Donzelli, Roma, 2010.
[21] Franco Fortini, Il musicante di Saint-Merry, cit.; ora in Vittorio Sereni, Poesie (a cura di Dante Isella), Mondadori, Milano 1995, pp, XL-XLIV e prima in Nuovi saggi italiani, Garzanti, Milano, 1987, pp. 164-169.
[22] «In un certo senso Sereni traduttore parte da Char e a Char ritorna, con diversioni e contraddizioni che si chiamano Apollinaire e Williams», si veda P.V. Mengaldo, Il solido nulla, in Vittorio Sereni, Poesie, cit., p. LXXII.
[23] Si vedano per esempio i quaderni di traduzioni che Einaudi iniziò a pubblicare proprio in quegli anni: Il Musicante (1981) fu seguito da Franco Fortini, Il ladro di ciliegie (Torino, Einaudi, 1982), Addio, proibito piangere e altri versi tradotti (1955-1980) di Giovanni Giudici (Torino, Einaudi, 1982), La cordigliera delle Ande di Luzi (Torino, Einaudi, 1983). Giorgio Caproni, invitato dall’editore, non riuscì ad allestire l’opera, che verrà pubblicata soltanto nel 1998 a cura di E. Testa.
[24] La ricorda il celebre epigramma di Fortini («Sereni esile mito/ filo di fedeltà») e l’altrettanto celebre affermazione di Mengaldo «non ho mai conosciuto uomo più fedele di Sereni». Per la prima si veda F. Fortini, L’ospite ingrato primo e secondo, in F. Fortini, Saggi ed epigrammi, Milano, Mondadori, 2003, p. 872; per la seconda, P.V. Mengaldo, Ricordo di Vittorio Sereni, in Vittorio Sereni, Poesie e prose, cit., p. X.
[25] Ivi, p. XI.
[26] Ma di fatto distribuito nel primi mesi del 1982; si veda Vittorio Sereni, Poesie cit., p. 655 e la cronologia di Giosue Bonfanti a p. CXXV.
[27] P.V. Mengaldo, Ricordo di Vittorio Sereni, in Vittorio Sereni, Poesie e prose, cit., p. XII.
[28] Si veda Silvia Zoico cit., p. 369.
[29] P.V. Mengaldo, Sereni traduttore di poesia, in Vittorio Sereni, Il musicante di Saint-Merry, Einaudi, Torino 1981, p. V.
[30] P.V. Mengaldo, Ricordo di Vittorio Sereni, cit., p. XII.
[31] Così Silvia Zoico, in cit. p. 370.
[32] Vittorio Sereni, Situazione, v.15-16, da Strumenti umani, in Poesie cit., p. 138.
[33] Franco Fortini, Ancora per Vittorio Sereni, in Nuovi saggi italiani, vol. II, Garzanti, Milano 1987, in particolare pp. 187‐193.
[34] Così Guido Lucchini in Le interferenze della memoria poetica. Sereni e Apollinaire, in «Struementi critici» II, f. 3, settembre, pp. 391-418; da Silvia Zoico, cit., p. 371.
[35] Giulia Raboni, Nota introduttiva, in Vittorio Sereni, Poesie e prose cit., p. 45.
[36] Così Damiano Scaramella, in Postfazione. Perdimi tu, stella variabile, in Stella variabile, il Saggiatore, Milano 2017, p. 120.
[37] Si vedano i versi conclusivi della poesia Autostrada della Cisa, da Stella variabile, in Poesie cit. p. 262: «non lo sospetti ancora/ che di tutti i colori il più forte/ il più indelebile/ è il colore del vuoto?»
[38] Sono i versi 4-6, di Quei tuoi pensieri di calamità, in Stella variabile, in Poesie cit., p 189.
[39] Si veda la poesia Altro compleanno, da ivi, cit. p. 266.
[40] Silvia Zoico, cit., p. 379.
[41] Fortini, Il musicante di Saint-Merry cit., p. XLI.
[42] Vittorio Sereni, Sono venuti questa sera, in Il musicante di Saint-Merry, p. XX.
[43] È il verso 21 del frammento IV di Un posto di vacanza, in Stella variabile, cit. p. 229.
[44] Fra tutti, si veda Mengaldo, Sereni traduttore di poesia, cit., p. XIX: «Ci troviamo di fronte ad una contraddizione: il poeta dell’infinita iterazione, e dunque dell’espressività e della stessa messa a punto del significato che traggono origine dalla ridondanza; il poeta ancora che col continuo lavoro delle inversioni rende non solo più contorno ma più analitico il suo fraseggio e il suoi verso: questo poeta è lo stesso che sintetizza vistosamente, specie in sede di transizione»; e più avanti aggiunge: «il poeta a cui troppo semplicisticamente si attribuisce il predicato dell’attenuazione, traducendo tende per lo più non ad attenuare, ma a caricare, a rendere più icastica la parola», p. XXIV. Su questo specifico aspetto torna anche Elisa Donzelli, L’ultimo Char di Sereni. Ipnos nella terra d’Orione, in Due rive ci vogliono, cit., p. 119. Per quanto riguarda invece le traduzioni da Williams, si veda l’utilissimo saggio di Mattia Coppo, Sereni traduttore di Williams, «Studi Novecenteschi», Vol. 36, No. 77 (gennaio – giugno 2009), pp. 151-176, in particolare, in particolare le pp. 162-163.
[45] Fortini scrive: «Perché nell’ultima sua età senza dubbio Sereni retrocede a modelli che non erano stati i suoi. A un clima, voglio dire, i cui maestri sono quelli dai quali esce – come dal surrealismo e nei due sensi del verbo – il suo Char: poeti senza dubbio alcuno metafisici, fino dall’endiadi Rimbaud-Mallarmé». Si veda, Fortini, Ancora per Vittorio Sereni, cit., p. 190.
[46] Elisa Donzelli, sulla scia di uno spunto di Mengaldo, ha scritto: «Nella sua peculiarità è proprio il gruppo delle otto liriche chariane a rappresentare una struttura interna di straordinaria e persuasiva organicità»; si veda, Appunti per una lettera imperfetta, in Come lenta cometa, cit., p. 139.
[47] Silvia Zoico, cit., p. 372.
[48] Giulia Raboni, cit., p 42.
[49] Da Paura seconda, da Stella variabile, in Poesie cit. p. 252.
[50] Da Poeta in nero, da Stella variabile, cit. p. 209.
[51] Da Sarà la noia, ivi, p. 212.
[52] Si veda nel volume Il musicante di Saint-Merry, p. XXX.
[53] Sono i versi conclusivi di Un posto di vacanza, da Stella variabile, in Poesie cit., p. 233.
[54] Si veda nel volume Il musicante di Saint-Merry, la poesia di Apollinaire, Il musicante di Saint-Merry, p. XXX.
[55] È stato già scritto che Stella variabile «è tutta una metapoesia» e in particolare «una grande chiosa continuata agli Strumenti umani»; si veda Mengaldo, Ricordo di Vittorio Sereni, cit., p. XIII.
[56] Franco Fortini, Ancora per Vittorio Sereni, cit., p. 194.
[57] Si veda Gilberto Lonardi, Introduzione, in Vittorio Sereni, Il grande amico, Bur, 2004, p. 11.
[58] Gilberto Lonardi, cit., ivi, p. 12.
[59] René Char, Tracciato sul baratro, Il musicante di Saint-Merry, p. 79.
[Immagine: © Liz Deschenes, Gallery 7, Walker Art Center, Minneapolis, 2014-15].