di Mauro Piras
[Dal 29 luglio all’inizio di settembre LPLC sospende la sua programmazione ordinaria. Per non lasciare soli i nostri lettori, abbiamo deciso di riproporre alcuni testi e interventi apparsi nel 2012, quando i visitatori del nostro sito erano circa un quinto o un sesto di quelli che abbiamo adesso. È probabile che molti dei nostri lettori attuali non conoscano questi post. L’intervento di Mauro Piras è uscito il 5 marzo 2012].
Il problema non è più prendere posizione. Pro o contro la TAV (o il TAV? la divisione passa anche per le parole, i No TAV della valle usano il maschile). E non è neanche quello dei “gruppetti di violenti” contrapposti alla “maggioranza dei manifestanti pacifici”. Questa rappresentazione è ingenua, o costruita. C’è qualcosa di più profondo, qualcosa che sfugge a noi quarantenni della classe media di, diciamo, centrosinistra. Noi che abbiamo lottato e manifestato per tante campagne pubbliche, democratiche, contro la guerra, a fianco della FIOM e dei sindacati, per la scuola, con i precari. Che abbiamo sostenuto i referendum per l’acqua pubblica. Ci siamo trovati a fianco di tutte le persone che sono anche la nervatura della protesta contro la TAV. Ci siamo trovati a fianco dei nostri studenti, nelle manifestazioni e nei presidi. Siamo riusciti a stare uniti su tante cose, mettendo insieme nell’attività politica reale (nel sindacato, per esempio, o nelle scuole) i diversi pezzi della sinistra. Abbiamo cercato di tenere viva l’idea di una democrazia non solo istituzionale, ma partecipata, dal basso. In questa costruzione, abbiamo anche tessuto il rapporto con i più giovani. Ma c’è qualcosa che sfugge, di più profondo. Che riguarda anche l’inadeguatezza di noi adulti nei confronti dei giovani, quelli veri.
Adesso questo qualcosa si vede, negli scontri in Val di Susa, e nel contagio rapido della protesta nelle città italiane, anche le più lontane (Roma, Pisa, Pesaro, Avellino, ecc.). Per capire, bisogna allargare lo sguardo: guardare oltre la valle, e ritornare indietro nel tempo.
All’improvviso, mentre torno a casa da scuola, ho un lampo, un ricordo di più di un anno fa. Il 14 dicembre 2010 a Roma, a fronte della pagliacciata di un voto parlamentare che ha salvato Berlusconi per un pelo, con traffici innominabili, la piazza esplode. Due mie allieve sono lì, nel casino. Mi accorgo di avere una apprensione quasi da genitore. Quando tornano, le prendo un po’ in giro: “allora, vi hanno menato a Roma?” “no, quando è partita la carica eravamo in un bar, perché ci scappava la pipì; hanno tirato giù la saracinesca e siamo rimaste chiuse dentro”. Farà ridere, ma mi viene in mente Tolstoj: chi sta dentro gli eventi li capisce meno di tutti, è travolto dal dettaglio. Comunque hanno visto: il lancio dei sampietrini, le cariche, i lacrimogeni, le macchine incendiate. Cerco di ricostruire il percorso, la dinamica, ma non si capisce niente. Come sempre, saranno i giornali con le loro cartine e i loro disegni a farmi capire meglio la devastazione del centro barocco, luogo privilegiato delle mie passeggiate oziose nel centro di Roma. Un’altra ferita.
Poi parliamo della violenza. La discussione, in quei giorni, è sull’intervento di Saviano: la sua predica ai giovani, “isolate i violenti, i gruppi organizzati che cercano la violenza”. Eccetera. Conosco il ragionamento. L’ho già fatto anch’io. Superficialmente, a distanza, parlando nel settembre 2001 dei fatti di Genova con i miei allievi. Con più cognizione di causa, qualche settimana prima degli eventi di Roma: gli studenti delle superiori si erano scontrati con la polizia in via Po, davanti a via S. Ottavio, qui a Torino. Li ho visti, mi sono trovato proprio lì per caso: ho visto lo scatenarsi della violenza di questi ragazzi, la ricerca della provocazione. Ho incontrato un mio studente, gli ho chiesto; e lui: “sì, questi cercavano lo scontro, è l’estetica della violenza”. E io: “dovete isolarli, basta, cercate di svegliarvi”. La solita predica.
Invece, in classe, dopo gli scontri a Roma, sento un’altra nota. E comincio a capire. La violenza? “Professore, c’è un limite oltre il quale non puoi fare altrimenti”. Ecco. Detto così, più o meno. Ma dovreste vederle, queste ragazze, e le loro compagne che non la pensano tanto diversamente; e anche alcuni dei più piccoli, del penultimo anno. Dovreste vedere l’aria gentile e per bene che hanno. Così simili a noi. Certo, una delle due ha il tipico aspetto da alternativa del centro sociale, jeans bassi, larghi, piercing, ecc.; e la vedo sempre, alle manifestazioni, con il carro dell’Askatasuna. Ma questo non vuol dire niente. Il problema è l’argomentazione. Saviano non ha capito niente, e questo lo dicono tutti, anche quelli che non giustificano la violenza. Il problema è l’analisi: tutti capiscono, tutti sanno (anche i più moderati, anche quelli che quando ci sarà l’occupazione rimarranno in classe) che la violenza è diffusa. Nessuno la teorizza o la vuole. Ma tutti ammettono che c’è stata una partecipazione che andava ben oltre gli “specialisti”. Tanti ragazzi sono disposti allo scontro. Perché il livello di repressione della comunicazione è troppo alto. Me lo dicono: sono anni che facciamo casino, manifestiamo, facciamo i flash mob, ecc. E nessuno ci ascolta. Allora. Anche lì, la mia mente va all’indietro. Dalla fine del 2008, si è mossa la grande mobilitazione degli studenti della scuola e dell’università. E mi ricordo, anche lì come in un lampo, dell’incontro sulla giustizia globale a Scienze Politiche occupata. Le mie ex allieve mi invitano, bene, vengo, vi presento le mie tesi. Mi accorgo con due anni di ritardo della freddezza con cui sono stati accolti i miei ragionamenti sul diritto internazionale. Non è quello il discorso che li può interessare.
C’è un solco che si scava. Leggo con più attenzione i giornali. Ripercorro le storie di queste ragazze giovanissime, a volte anche della buona borghesia romana, che lì, in piazza, hanno deciso di passare all’azione. Basta, non ci ascoltate? Allora ci facciamo sentire noi. Ecco, questo è successo. Questa è l’area che il nostro riflesso di benpensanti chiama la “zona grigia”. Il nome non importa. Il punto è questo: c’è una vasta area di popolazione giovanile che aspira alla mobilitazione, alla partecipazione, e che non è rappresentata. Da nulla. Così è disposta a fare da cassa di risonanza dei gruppi organizzati, quelli che in effetti pianificano le azioni. Ma da soli non possono andare molto avanti. A Roma a Piazza del Popolo si è mossa una parte consistente dei manifestanti. Hanno deciso di rompere, per farsi sentire, ma anche per esasperazione.
Mentre leggo le informazioni, le analisi, mi accorgo che è una protesta senza sbocco. Non sembra progettare una prospettiva politica sulla lunga durata. Cerca la fiammata. Mi vengono in mente parole della politica d’Antico Regime: riots, émeutes, tumulti. Non è una rivoluzione, è una rivolta. Uno sfogo senza sbocco politico. Perché la sua origine è proprio qui: la repressione dello sbocco politico. Due anni di mobilitazioni che non sono riusciti a trovare canali di rappresentanza. In generale, l’indebolimento, fino alla rottura, dei legami con organizzazioni e istituzioni rappresentative più o meno grandi: i sindacati, i partiti. Nel 2009 trovavo ancora i miei studenti ai presidi della CGIL, con noi. Poi niente. Solo attempati cinquantenni più o meno nostalgici. Io ero uno dei più giovani.
Nei mesi successivi succedono cose simili. I riots, veri, di Londra, nell’estate del 2011. I primi esperimenti in Val di Susa, sempre nell’estate. E di nuovo a Roma, il 15 ottobre. Questa volta, i “gruppetti” avevano un’organizzazione molto precisa. E gli errori clamorosi della questura di Roma li hanno aiutati. Ma sapevano di potere contare su una complicità. Sapevano di poter colpire e immergersi poi nella manifestazione; sapevano anche di poter trovare un po’ di manodopera disponibile, lì per lì. Hanno avuto ragione, è andata così. Tutta l’attenzione dei media, della “nostra” opinione pubblica di benpensanti di centrosinistra (mi ci metto dentro), si concentra sulla crescente organizzazione dei gruppi di “specialisti” della violenza. Ma il problema non è lì: il problema è la radicale, vertiginosa crisi della rappresentanza politica, che genera il malessere, soprattutto tra i giovani, e li sposta sul terreno dell’assenza di mediazioni. Le nostre generazioni, dei quarantenni e cinquantenni, hanno perso il polso della situazione. Un po’ per una incapacità intrinseca di fare gli adulti, per il nostro continuare a pensarci giovani come loro; un po’ perché continuiamo ad avere una fiducia nelle forme (a diversi livelli) della vita democratica, che loro non hanno.
In che rapporto tutto questo con la Val di Susa? Mi si può obiettare molto giustamente che la protesta No TAV non ha niente a che fare con i casi ricordati. In primo luogo, questa protesta ha una prospettiva politica, un progetto; inoltre, ha dietro di sé una lunga esperienza di maturazione democratica, con formazione di competenze, discussione pubblica, partecipazione e condivisione di saperi e iniziative; infine, la maggioranza della popolazione della valle che partecipa a questa protesta non è formata da giovani. Tutto giusto, e tengo a scriverlo perché penso che siano tutti elementi da sottolineare per capire e apprezzare questo movimento politico. Però è evidente a tutti che ci sono anche altri elementi. Il sostegno al movimento No TAV da parte dei centri sociali e dei movimenti alternativi di ogni genere è composto soprattutto da giovani. Tra questi, i problemi sono quelli che ho cercato di indicare. Inoltre, è evidente che, questa estate e in questi ultimi giorni, si è innestata sul movimento l’iniziativa di gruppi organizzati, che hanno anche promosso la Val di Susa a luogo del conflitto sociale. Quello che vorrei sottolineare, però, non è il solito ritornello dei “violenti organizzati” che inquinano il movimento e andrebbero isolati. Voglio additare un problema più profondo: questi gruppi possono agire e “rappresentare” qualcosa perché c’è, tra essi e una protesta giovanile diffusa, una continuità, come quella che si poteva vedere a Roma nel dicembre 2010; questa continuità ha la sua radice nel fallimento di tutti i canali di rappresentanza politica e sociale, nel nostro paese; inoltre, anche la popolazione della valle che protesta, che non è fatta ovviamente solo di giovani, ma spesso di persone mobilitate da anni, è esasperata per la stessa ragione.
Quindi il problema non è solo, in sé, se si è a favore o contro la TAV. Il problema è, in generale nel nostro paese, il collasso della rappresentanza politica e delle istituzioni sociali. Collasso che si colloca su uno sfondo di crisi generale della democrazia e di acuta crisi economica e sociale.
Intanto, la nostra classe politica ha mostrato anche qui la sua totale inadeguatezza. Fino alla conferenza stampa di Monti del 2 marzo, il motivo dominante degli interventi a favore della TAV, da parte delle istituzioni (alcuni ministri) e dei politici, è stato quello efficacemente definito da Sofri del “partito preso”: “ormai dobbiamo andare avanti, ce lo chiede l’Europa, abbiamo preso degli impegni, non si può tornare indietro”. Che razza di argomenti sono? Buoni solo a irritare l’interlocutore. Nessuna forza politica che, con coraggio e con costanza, sia capace di prendere in mano il dossier e di mostrare con precisione, con abbondanza di dettagli, e rispondendo alle critiche, le motivazioni dell’opera. Qualche balbettamento di Bersani. La conferenza stampa di Monti si è mossa solo timidamente in questo senso, e rimandando il momento in cui verranno presentati dei dati precisi. La nostra politica non ha mai imparato davvero la democrazia, tende sempre, per riflesso, agli “arcana imperii”.
Poi, è vero che la crisi della democrazia rappresentativa è generale, perché in tutti i paesi avanzati la sfiducia nelle istituzioni democratiche è crescente. In questo, però, la situazione italiana è più grave. I politici non riescono a convincere sulla TAV perché non riescono a convincere su nulla. Hanno perso totalmente di credibilità, dopo avere portato il paese in questo disastro, e avere mostrato una totale immaturità delegando a un governo non realmente rappresentativo la responsabilità di prendere decisioni che non hanno mai voluto prendere. I partiti rimarranno screditati finché non riusciranno davvero a raccogliere la voglia di politica che c’è nella società; invece chiudono le porte, irrigiditi in meccanismi privati di cooptazione, che paralizzano del resto tutta la società italiana. I sindacati sono visti con ostilità da tutti coloro che non ne fanno parte; e alimentano questa ostilità mirando più all’aumento delle tessere che alla creazione del consenso. La stessa deriva “politica” della FIOM, che esce dal suo ruolo di sindacato per combattere in prima fila la battaglia No TAV, è un segno di questo malessere.
Su tutto questo sfascio della rappresentanza, ben avvertibile già nella primavera del 2008, al momento della fine del governo Prodi, è piombata la crisi economica. Che, come previsto da tutti gli economisti a suo tempo, sta facendo pagare i suoi prezzi più alti in termini di disoccupazione, soprattutto giovanile, proprio in questi mesi.
I giovani nutrono le forze puramente antisistema, pronte a rinchiudersi nella logica del riot, a cercare lo scontro per lo scontro, perché sono realmente tagliati fuori, da tutti questi meccanismi. Il problema della TAV, ora, non è schierarsi da una parte o dall’altra, ma cercare di restaurare qualche canale di comunicazione democratica. Per esempio, in primo luogo, accettando il confronto politico: le forze politiche che sostengono il progetto hanno l’obbligo di andare nella valle e parlare con chi protesta. E parlare portando argomenti veri. Non è facile. Ma bisogna mettersi d’accordo e porre le premesse per un confronto. Il rispetto reciproco che ci impongono le istituzioni democratiche non si manifesta solo con le procedure, e con i risultati delle votazioni, ma anche con le ragioni che si propongono per giustificare una scelta. E con la disponibilità. I vertici delle nostre organizzazioni (partiti, sindacati) hanno paura di affrontare i cittadini, hanno paura di essere messi in minoranza e di essere contestati: come i dirigenti sindacali non accettano di essere fischiati dalle assemblee dei precari infuriati, così i dirigenti politici non hanno il coraggio di parlare con le assemblee dei No TAV. Se si costruiscono, con accordi preliminari, le condizioni per un confronto corretto, questo è invece un obbligo.
Ovviamente, questo confronto deve essere anche istituzionale. La proposta di un referendum, anche solo consultivo, avanzata da Sofri, probabilmente non è percorribile. Il problema non è tanto la base elettorale: è vero che, in astratto, tutti gli italiani sono coinvolti, ma è anche vero che si tratterebbe di consultare quelli che possono avere dei danni diretti dalla realizzazione dell’opera. E questi sono solo gli abitanti dei comuni toccati direttamente dai lavori. Questi quindi dovrebbero votare se vogliono o no la TAV. Ma il referendum non è fattibile per altre ragioni: istituzionali, perché tutti i livelli di decisione sono già stati passati, e fare adesso il referendum svuoterebbe le istituzioni rappresentative ai livelli comunitario, nazionale e locale (su questo ha ragione Chiamparino: il referendum andava fatto sei anni fa, quando si è riaperta la partita); e procedurali, perché il referendum diventerebbe allora un precedente da utilizzare per bloccare qualsiasi tipo di opera pubblica.
La via da adottare deve essere politica. Il richiamo al referendum è, in fondo, un’altra prova del fallimento della politica: la classe dirigente non è capace di affrontare la cosa, allora facciamo il referendum. No, deve essere proprio quella classe dirigente a farsi carico della cosa. Pena derive sempre più gravi in forme di rifiuto di ogni forma di mediazione politica. Gli appelli generici contro la violenza lasciano il tempo che trovano. La responsabilità individuale di chi organizza la violenza è ovvia, ma in queste crisi politiche è come nelle crisi tra coppie: la colpa non è mai solo da una parte.
(Torino, 4 marzo 2012)
[Immagine: No TAV: tutto il resto è noia, scritta murale (gm)].
Grazie per questa lucidità, che – svelando i propri limiti- svela quelli altrui: io stesso ho assunto e assumo di continuo con i miei studenti le medesime posizioni di Piras. E anch’io avverto tuttavia nel profondo l’odierna crisi di rappresentanza, inaudita. Non si può dimenticare il ventennio berlusconiano e le responsabilità non solo di chi è stato direttamente corrotto e sedotto da quel teatrino, ma di tutti gli altri, che l’hanno considerato “normale”. Ora ci invitano ancora una volta alla rimozione, in nome della “tecnica” e della crisi. “Pro o contro le maiuscole? Pro o contro la punteggiatura? (…) Qui si tratta pro o contro la bomba atomica! Contro la bomba atomica, non c’è che la realtà. E la realtà non ha bisogno di prefabbricarsi un linguaggio: parla da sola”. (scriveva Elsa Morante nel 1965: formulando un j’accuse non solo contro la bomba ma soprattutto contro il trionfo ideologico dell’irrealtà).
Questo articolo è la dimostrazione di come sia impossibile, anche per una persona intelligente, uscire dalle proprie gabbie mentali … Intanto, si continua a considerare «centri sociali e movimenti alternativi» come esterni al movimento No Tav: niente di più falso; ne sono parte integrante. In questi anni, fin dall’inizio di questa battaglia, hanno promosso, gestito, contribuito in maniera fattiva e potente al rafforzamento del Movimento, di cui sono non solo parte integrante, ma direi anche la parte più intelligente, in grado di proporre e di gestire azioni di lotta al di fuori del solito stantio ritonello violenza sì / violenza no … Prova ne è il fatto che pure a fronte di giornate come quelle di luglio, il Movimento No Tav non ha MAI preso le distanze, così come ha, nella sua interezza, espresso solidarietà agli arestati … Insomma, i «centro sociali e i movimenti alternativi» hanno contribuito in maniera inequivocabile a quell’esperienza di «maturazione democratica» di cui pure Piras parla con positività … Ma c’è un altro punto in cui Piras dimostra di non aver compreso l’essenza del Movimento, là dove parla del «collasso della rappresentanza politica e delle istituzioni sociali» … E se al Movimento No Tav interessasse proprio la produzione di quel collasso? L’esperienza di democrazia diretta che offre il territorio della Val di Susa è ANTAGONISTA a quella della rappresentanza. A loro non interessa cercare un interlocutore nell’ambito politico attuale; sanno di non poterlo trovare e dunque si dedicano – e giustamente – ad altro. Ridicolo poi il punto dove Piras invoca «il confronto politico». Forse Piras non si è accorto che «le forze politiche che sostengono il progetto» vanno quotidianamente a «parlare con chi protesta». Lo fanno con i blindati, con i manganelli, con i lacrimogeni … La polizia che opera in Val di Susa lo fa con mandato esplicito del PD (leggasi, su ciò, anche le recenti uscite del giudice Caselli). Lo stesso PD ha emanato un “editto” dove si minaccia l’espulsione di quegli iscritti che partecipano a manifestazioni No Tav … Le uniche premesse possibili per cercare un accordo sono la de-militarizzazione della Valle e la sospensione dei lavori … Non ce ne sono altre. Altrimenti che dialogo sarebbe? Voler riportare le istanze del Movimento alla dialettica politica istituzionale è, in fondo, un modo elegante di uccidere lo stesso Movimento … Così come ripetere il ritornello che il problema della Tav «non è schierarsi da una parte o dall’altra» è solo un modo diverso di schierarsi …
Stan. L.
PS: i «violenti» in Val di Susa sono solo da una parte, e quella parte non è certo il Movimento No Tav …
Secondo me, è un problema politico, ma non nel senso che va affidato alla politica (che poi significa i soliti noti pusillanimi), ma che mette in crisi una politica.
Non è la questione TAV che deve rientrare nel microcosmo della politica professionale, quella che pretende di essere rappresentativa di qualcosa e di qualcuno, che per magia dovrebbe trovare una mediazione che chiaramente non c’è (tant’è che lo stesso Piras però non ne indica alcuna ipotesi concreta), ma al contrario bisognerebbe che i soggetti interessati. i protagonisti della lotta comprendano come la specifica motivazione dovrebbe funzionare come grimaldello per scuotere la politica ufficiale, come insomma un obiettivo limitato mostri a tutti come un certo modo di fare politica, una certa concezione della democrazia, entri immediatamente in crisi quando si applica a casi concreti, riveli subito la propria inadeguatezza.
Purtroppo, temo che una nuova classe dirigente non c’è, ed è per questo che penso che crearla oggi, formare una nuova generazione dirigente, costituisca l’obiettivo prioritario di chi ha testa per pensare criticamente.
A parte la piccola spaccatura di alcuni sindaci del PD in Piemonte, il centrosinistra si è schierato giustamente a favore della realizzazione dell’alta velocità. Ci sono in ballo posti di lavoro, innovazione e apertura ad un progetto territoriale (e politico) europeo. E’ perfettamente comprensibile che, quindi, il PD sia favorevole a questa opera pubblica. E’ in linea con la più semplice e complessa idea di politica di sinistra.
La cosa grave dei no-tav è che questi ragazzi abbiano come referenti politici Travaglio, Saviano, Di Pietro, Grillo (questi due di recente in sintonia anche colla lega nord – ma populisti per populisti non c’è sorpresa). Gente che fa dell’antipolitica di destra, tutta improntata a produrre energia negativa, e la cui patente di intellettuali e politici dell’antisistema sistemato li rende appetibili ad un pubblico giovane e che si sente o si vuole sentire di rottura; un pubblico che si sente a sinistra del mondo, ma nello smarrimento generale, invece, ripetono i sermoni di Travaglio e leggono in estasi il suo giornale… che colla loro legittima voglia di cambiamento, forse anche ingenua?, e se ce l’hanno ancora, non c’ha nulla a che spartire.
A questi ragazzi, va spiegato per bene e con trasparenza quali sono i benefici reali e futuri della tav e in quale macchinario politico essa si inserisca, un macchinario politico dentro cui è contemplato anche il loro di futuro, (mentre in un’Italia esclusa dall’europa, e recintata dentro lo stivale, o dentro la mezzaluna fertile padana, sono cazzi) sperando che il bombardamento che dura da anni e anni sulla democrazia non abbia provocato irreversibili e scioccati reduci di guerra.
certo, una politica fatta nella trasparenza più totale, pur nel raggiungimento dei migliori propositi, la vedo dura.
Secondo me non è veritiero che c’è crisi di rappresentanza. Potrebbe essere addirittura il contrario, che ce n’è troppa. La crisi si può vedere soltanto riducendo il potere politico al gioco di rappresentanza parlamentare. Ma la politica, in Italia, si fa ovunque, la rappresentanza, in democrazia, si esprime facendo valere il proprio potere di grande o piccolo gruppo di pressione. Tanti, in questo paese, aderiscono ideologicamente a qualcosa, esibendo il giornale, per esempio, come gli antenati le clave, dando di fatto un potere enorme ai gruppi editoriali. In questo senso Miriam Mafai diceva recentemente che il direttore di Repubblica conta di più del segretario del PD (purtroppo anche il vicedirettore del Fatto Quotidiano, abbiamo visto l’altra sera, di fronte al quale Bersani balbetta… facendo finta di minacciarlo di querela). Trasferire il proprio piccolo potere di lettore al gruppo editoriale non è una bella idea, non foss’altro perché i gruppi editoriali appartengono ai padroni delle ferriere… Si fa sempre finta di scordarsi che l’alternativa ai populismi di destra è rappresentata sempre di più dalla filosofia politica del proprietario di Repubblica, i cui articolisti diventano da Presidente (della Repubblica italiana…) in giù… Che la vera opposizione al berlusconismo l’ha fatta Repubblica, perché il PD, in fondo in fondo, è contiguo al PDL, con il quale, non si sa come, stra oggi facendo base parlamentare a un governo che di sinistra pare non avere nulla (il PD fa di tutto pur di scongiurare il rischio di vincere le elezioni… e fa bene, intendiamoci, perché con Di Pietro e Vendola non si andrebbe da nessuna parte; e del resto Di Pietro è più a destra di Berlusconi…).
Ma lo stesso trasferimento di potere avviene quando si fa volontariato in croce rossa, pubblica assistenza, misericordia, arci: alla fine alla fine si scopre che sono tutte macchine di organizzazione del consenso, che fanno capo a qualche partito, a qualche potentato locale o nazionale (ad esempio, pare che la croce rossa sia nelle solide mani della famiglia Letta). Sono insomma tutte macchine di organizzazione del consenso che sfociano nella rappresentanza democratica. Vogliamo parlare di quanta rappresentanza producono i militanti di comunione e liberazione? Emergency stessa, non è anche una macchina di produzione del consenso a favore di quel poco che è rimasto di cultura pacifista? E la Protezione Civile? Chi di voi non ha temuto un Golpe della Protezione Civile sotto la montante leadership di Guido Bertolaso, ai tempi del terremoto dell’Aquila, dove fu messo in scena un mostruoso apparato organizzativo del tutto militarizzato, coi campi dei terremotati recintati e impenetrbili? Meno male che a fermare i Bertolaso ci sono i sottopoteri in conflitto fra di loro, che di queste cose si accorgono prima degli intellettuali… Verrebbe voglia di scrivere meno male che ci sono le massonerie (sempre meglio delle organizzazioni di derivazione papalina, alle quali lo stesso Bertolaso non parve estraneo)
Vogliamo parlare dell’inquietante fenomeno Beppe Grillo, che se mirasse davvero alla rappresentanza democratica, alleandosi con chi gli è culturalmente vicino, Di Pietro, de Magistris, Travaglio, potrebbe facilmente ambire a diventare un partito del 20%?
Vogliamo parlare della Lega Nord, che ha dato rappresentanza politica ai peggiori istinti popolari, arrivando a portare in tribunale i propri elettori per orientare le sentenze, come avvenne nel caso del tabaccaio che aveva vigliaccamente ucciso un rapinatore sparandogli alle spalle a 100 metri di distanza?
Vogliamo parlare di CasaPound e Forza Nuova, che raccolgono consenso tra i giovani da distribuire ai peggiori politici populisti, se non neofascisti?
Troppi di noi sono ancora convinti che la soluzione di tutti i mali sta nel dare più potere al popolo. Io penso sia assolutamente il contrario, che le Istituzioni, malgrado tutto, siano politicamente più mature degli istinti popolari, a partire dalle Istituzioni Europee, che vorrei vedere rafforzate, magari nel senso che stanno indicando i maggiori partiti socialisti europei (compreso l’arrancante PD di D’Alema e Bersani), in senso di maggiore welfare, maggiori investimenti in innovazione e ricerca, maggiori poteri decisionali della istituzioni sovranazionali. Invece stanno prevalendo gli istinti popolari, le istanze territoriali, ai quali è prevedibile sarà la stessa Europa conservatrice ad accodarsi (quella oggi rappresentata da Draghi, Barroso, Merkel, Sarkozy, Draghi), scoprendo essa stessa che la Tav europea non è necessario passi dall’Italia (tanti paesi brinderebbero, perché secondo i parametri attuali vuol dire mettere ancora più nell’angolo l’economia italiana, a favore di altre economie). Vabbè, a noi rimarrebbero la democrazia diretta, la decrescita, il default… un ulteriore dose di nazionalismo, di un nazionalismo sociale… Ecco l’idea, chi se ne frega se ci impoveriamo, se lo Stato non sarà più in grado di pagare le pensioni (se il PIL non cresce questo sarà il destino da qui a pochi anni). Via gli orribili orpelli economicisti, avanti le banche etiche (gli usarai già si fregano le mani, perché le banche, se non fanno utili, non sono in condizioni di fare prestiti ai cittadini né per fare impresa né per comprare casa); tutti sotto l’ombrello del nuovo Stato Etico… Il nazional socialismo, ecco quello che ci vuole… Poveri sì, ma uniti, stretti stretti, come in un fascio.
Comunque, la questione è complicata assai. Quello che volevo peraltro dire è che sono in crisi le macchine di produzione del dissenso, quelle sì! Quelle della rappresentanza (e del consenso) sono in forma quanto mai. Questo dipende dal fatto che il dissenso, in quanto tale, è sempre più criminalizzato (mi riferisco prima di tutto al dissenso politico, sostanzialmente vietato da protocolli come il Patrioct Act, emessi in nome della salvaguardia dei valori nazionali, della patria e quelle palle lì). Nel campo letterario e culturale italiano, del resto, in particolare nelle discussioni su internet, non si va recentemente dicendo che è colpa dei dissidenti se non si forma in Italia una vera autorevolezza critica (del pollaio oclocratico)? Ma sono andato già abbastanza lungo per rubare ulteriore spazio alla discussione.
Grazie Mauro di questo bell’articolo, l’analisi è accurata e acuta, gli esiti da me personalmente condivisi: l’esigenza di rappresentanza, di apertura di canali di comunicazione ma anche di autoaffermazione è senz’altro sentita soprattutto dalla popolazione giovanile e non trova adeguata risposta nelle sedi istituzionali classiche. Certo però è molto interessante il commento di “stan”, che ti mette davanti alle logiche dell’antagonismo (“l’esperienza di democrazia diretta … è ANTAGONISTA rispetto a quella della rappresentanza”, “Voler riportare le istanze del Movimento alla dialettica politica istituzionale è, in fondo, un modo elegante di uccidere lo stesso Movimento”) e, ancor più, alla difesa di un’identità che ormai in vent’anni si è consolidata ed è molto forte. Il problema, in tutti i conflitti, è che per superarlo ciascuna delle due parti DEVE – per necessità logica, prima ancora che morale – rinunciare a una parte importante, essenziale della propria identità e TRASFORMARSI. Ora qui, come in tutti i conflitti che si radicalizzano, in nessuna delle due parti mi sembra di vedere questa disponibilità, seppur certo tra le due parti quella che a me sembra più sclerotizzata e rigida è senz’altro quella istituzionale, la quale lo è anche per forza di cose, però, direi “per statuto”, e se i suoi avversari ne tenessero conto con un po’ più di indulgenza e con un tasso un po’ più basso di colpevolizzazione (quando non di esplicita ricerca di provocazione per poi poter ancor più duramente colpevolizzare) ne trarrebbe giovamento tutta la fragile, sempre più fragile, dialettica democratica italiana.
Infine, per quanto mi riguarda e per le informazioni che ne ho, sono piuttosto contraria alla TAV perché le ragioni del movimento mi sembrano attestate dalle fonte più diverse. E tuttavia non amo le radicalizzazioni dei conflitti, né gli atteggiamenti atti a radicalizzarli, dunque mi mantengo a distanza dal movimento, pur considerandolo con una certa apprensiva simpatia, come si potrebbe guardare uno studente che ha buone ragioni ma le porta avanti in maniera un po’ troppo scomposta. Si deve tuttavia sempre differenziare e riconoscere anche l’amplissima differenziazione interna al movimento che lo renderebbe in realtà – avendone adeguato tempo – un interessantissimo oggetto di indagine socio-politica. Spero che altri porteranno avanti questo lavoro, in modo da studiarne e salvarne tutti gli elementi innovativi e positivi di cui è stato portatore in questi anni.
SVEGLIA!!! il problema non riguarda solo i comuni toccati dalla tav, ma tutti gli italiani che vivano sul pianeta terra e non su marte…quei miliardi che i politici opportunisti intendono buttare in un’opera inutile che andrà a ingrassare i signori degli appalti SONO NOSTRI!!! un referendum dovrebbe permettere a tutti di esprimersi su un’opera così dannosa per la salute, per l’ambiente e per le nostre tasche, soprattutto in un momento di crisi nel quale tutti i diritti acquisiti con le lotte vengono calpestati in nome del pareggio in bilancio. ho 36 anni, non mi sento giovane o almeno non più giovanissima, e penso che non sia solo una questione pro/contro tav perché è una questione di democrazia e di decente amministrazione: non vogliamo quel maledetto tunnel, non vogliamo buttare tanti soldi in un’opera inutile e dannosa, non vogliamo che i partiti, con la sinistra complice come al solito, decidano tutto sulle nostre teste. saluti
Premetto che nell’insieme sono d’accordo con Piras: io, in più, avrei aggiunto la parola “moratoria!”, che lui evita di scrivere trincerandosi dietro la chiusura del processo decisionale (ma, caro Mauro, perché i lavori non potrebbero essere sospesi per ripensare la cosa?). Però m’interessano molto le obiezioni di Stan. Vorrei capire meglio: se si tratta di far collassare il meccanismo della rappresentanza (già evidentemente in crisi) per affermare la democrazia diretta, in nome di che cosa, a quelli che non abitano nella Valle, si chiede di prendere posizione e di manifestare? Contro la “democrazia borghese”? Contro la repressione poliziesca? Oppure che altro? A me sembra che l’unico modo di tenere duro, per il movimento, sia di restare nella Valle. Se ne esce, è fatale la sua fine: perché non c’è un retroterra di massa che accetti parole d’ordine “antagoniste”.
@Annamaria
Se conveniamo che la questione TAV implica questioni di democrazia, allora, mi pare evidente, non è più in discussione solo la TAV, ma si tratta della questione centrale di cosa sia la democrazia, in rapporto all’evoluzione che l’europa ha subito.
L’antagonismo non è di moda, dice Genovese. Io veramente non lo darei per scontato, mi pare piuttosto che manchi il soggetto politico per farne progetto, ma c’è una situazione oggettiva certamente favorevole, e mi pare che le vicende dei referendum, come le vicende elettorali riguardanti certi sindaci. mostrino che la gente riesce ad esprimersi in modo anche apertamente alternativo a ciò che l’intero fronte parlamentare sa offrire.
Bisognerà pure cominciare a porsi il problema di come superare la dittatura della troika economica, e la questione TAV costituisce un’ottima occasione. Ammetto che non è detto che si vinca, ma nel caso si perda, non è meglio considerarla una battaglia di una guerra più lunga e complessiva? Non è alla fine più rischioso puntare tutto sulla TAV, magari rischiando contemporaneamente l’isolamento?
Si può in ogni caso dopo essersi resi conto delle implicazioni politiche a pieno titolo, far finta di niente, come se tutto si risolvesse nell’alternativa TAV sì o TAV no?
Leggo con sollievo queste due affermazioni, fatte dalla persona che si fa chiamare Dinamo Seligneri. “La cosa grave dei no-tav è che questi ragazzi abbiano come referenti politici Travaglio, Saviano, Di Pietro, Grillo”. “A questi ragazzi, va spiegato per bene e con trasparenza quali sono i benefici reali e futuri della tav e in quale macchinario politico essa si inserisca, un macchinario politico dentro cui è contemplato anche il loro di futuro”.
Ovvero, “questi ragazzi” hanno cattivi maestri, le istituzioni hanno spiegato male e con opacità quali sono i benefici reali e futuri di quest’opera pubblica. E’ incredibile come, a volte, problemi molto complessi abbiano una soluzione così semplice. Come ho fatto a non pensarci prima?
@dm
attorno attorno alla base della protesta No-Tav si sono intrecciate e accavallate diverse radici di rivendicazione sociale e di pulsione antipolitica che nutrono ora di loro la protesta che come sappiamo si è estesa in tutt’Italia; tali istanze ideologiche sono prevalentemente e da tempo ormai intercettate e alimentate da alcuni alfieri mediatici, tra cui alcuni sono quelli che ho nominato, i quali creano solo indignazione e tossine che alla lunga ma anche alla breve non fanno altro che indebolire la legittimità degli apparati istituzionali.
io non voglio apparire esattamente all’opposto (o forse sì mi sa), ma a me sembra che la persona che si fa chiamare dm creda eccessivamente nell’autonomia o indipendenza (ininfluenzabilità) intellettuale di alcuni movimenti d’antisistema come questo.
Caro Zinato,
grazie per l’apprezzamento. E’ giusto vedere la gravità della situazione, ma è importante anche non perdere di vista i dettagli, in cui come è noto spesso si nasconde il diavolo.
Caro Stan,
io non ho detto che i centri sociali ecc. sono “esterni” al movimento No TAV, ho solo parlato di sostegno, che può venire benissimo anche dall’interno; a me interessava solo sottolineare, come è ovvio, che buona parte di questi centri sociali sono alimentati da giovani, e volevo sottolineare questo perché mi stava a cuore il tema della violenza.
E qui è il nodo: anche dal suo intervento si vede che il problema è questo. Lei ha fatto la scelta: contro le istituzioni rappresentative, e anche con l’uso della violenza quando ci vuole. Non ci si dissocia, ha detto lei. Questo è proprio il problema che volevo mettere in evidenza, su cui dobbiamo riflettere. Mi sembra una via senza sbocco: o si sceglie la democrazia diretta come via di contestazione dei limiti della democrazia rappresentativa, ma allora si pensa a un modello organizzativo che la renda possibile veramente, e quello diventa il progetto politico, pena la marginalizzazione; o si sceglie una via di rottura antisistema violenta, e allora il problema non è l’opposizione alla TAV. In politica la lucidità è tutto, e qui la lucidità manca parecchio.
Caro Cucinotta,
la questione è politica nel senso che mette in crisi la politica, mi va bene. Ma ripeto in un altro modo quello che ho appena scritto sopra: questo modo alternativo di fare politica bisogna pensarlo e costruirlo come un modello destinato a durare, e non praticarlo soltanto in contesti marginali e con un aggancio strutturale alla violenza che ha solo il senso di esprimere l’insoddisfazione antisistema, senza costruire veramente. Se si vuole costruire veramente un progetto politico, si chiarisce davvero il rapporto con la violenza; lo si chiarisce rispetto al disegno. Se non lo si fa, o la violenza fa parte del disegno, o è solo espressione del mal di pancia.
Più in generale, io difendo anche il livello delle istituzioni rappresentative, dei partiti e dei sindacati, perché sono il frutto di un processo di democratizzazione pagato anche con lotte dure. Buttarlo a mare, invece di lottare per migliorarlo, significa rinunciare alla democrazia stessa. Fate pure.
Caro Seligneri,
d’accordo sul senso generale, non capisco però bene la presenza di Saviano (di cui vedo tutti i limiti) in quella lista.
Cercare di fare una politica istituzionale corretta, nella trasparenza, è difficile. Ma il problema è che se, spinti dal purismo, non ci si sporca le mani per farlo, allora gli altri fanno esattamente la politica non trasparente che noi non vogliamo.
Una considerazione generale, che mi viene qui, ma è anche per gli interventi sopra: in Italia la diffidenza per una politica degradata spinge a non partecipare alla politica istituzionale, ma: 1) questo è proprio quello che vuole la politica degradata; 2) in questo modo confondiamo il degrado della nostra democrazia mal nata e mal cresciuta con la democrazia in generale, e quindi, da grandi rivoluzionari, buttiamo a mare la democrazia, e ci teniamo i cocci.
Caro Massino,
condivido i suoi dubbi sulla democrazia diretta, il default, la decrescita ecc. Però mi sembra che il suo discorso sulla rappresentanza sia un po’ paradossale. Se per “troppa rappresentanza” intende la pressione dei gruppi e gruppuscoli per imporre il proprio punto di vista particolare, ogni volta spacciato per “la giustizia”, siamo d’accordo. Se però questa legittima critica porta a esaltare la “maggiore maturità” delle istituzioni in quanto tali, allora bisogna andarci piano. La dinamica democratica è una roba complessa, in cui entrano il funzionamento delle istituzioni, i partiti, i sindacati, il sistema dei media, forme di attività democratica dal basso, ecc. Tutto questo, e molto altro, fa funzionare una democrazia, e nessuno di questi pezzi preso da solo. Se, per irritazione contro gli interessi corporativi e le convulsioni antisistema, ci si schiera per le istituzioni e basta, allora si fa di nuovo il gioco dei nemici della democrazia, di ogni colore.
Cara Daria,
ho cercato di rispondere a Stan sull’antagonismo. Il problema di un progetto antagonista è che, secondo me, deve essere politico: ci dica davvero quale progetto è, e dove vuole andare. E come risolve il problema del consenso. Qui si pone il problema che sollevi tu: se un progetto politico vuole realizzarsi con un consenso vero, accetta anche la mediazione politica. Non dico la mediazione istituzionale: dico quella mediazione che ti permette di riunire delle forze, per costruire insieme. Se però si è convinti che quelli che divergono da te sono o servi del sistema o manipolati da esso, allora quella mediazione non ci sarà mai. L’altra parte, quella istituzionale, è rigida per tutte le mancanze che anche io ho cercato di denunciare. Ma non è l’unilateralità minoritaria, che non riconosce anche l’opinione, per esempio, di chi nella valle è a favore del progetto, che può sciogliere queste rigidità. Nel conflitto tra posizioni unilaterali si va solo dritti alla distruzione dell’altro che è anche l’autodistruzione, mi sembra che il conflitto tragico ce l’abbia insegnato bene; e questa è la fine della politica, quindi di ogni idea di eguaglianza e rispetto degli altri.
Cara Annamaria,
è un problema di democrazia, siamo d’accordo. E in termini democratici, il problema è quello di discuterne davvero, nel merito, per vedere se è un progetto dannoso o utile. Io per esempio, per ragioni economiche, per quel poco che ne capisco, penso che sia un progetto utile. E non mi sento preso in giro da chi governa. E’ vero che non c’è stato, prima, un vero confronto democratico; se però si accetta che ci deve essere, si accetta anche che le opinioni di chi è a favore siano legittime e possano prevalere; e se prevalgono, si accetta la decisione della maggioranza. Dopodiché, non so se un referendum nazionale sarebbe la soluzione. Come ho scritto, se i canali ordinari della rappresentanza sono bloccati, si è costretti a ricorrere al referendum (si veda la riforma della legge elettorale). Questa è già una distorsione.
(Nella risposta a Genovese, qui sotto, il seguito del ragionamento, perché le risposte sono intrecciate.)
Caro Rino,
non ho adottato l’idea di una moratoria, perché è un gran casino. Cerco di riordinare le idee, e così finisco anche di rispondere bene ad Annamaria, sul perché la logica democratica non si risolve con un appello al popolo per bocciare la cosa, e amen.
Una democrazia seria avrebbe richiesto delle consultazioni con la popolazione PRIMA di iniziare i lavori; ora si parla di istituzionalizzare un modello del genere, tipo Francia, con sei mesi di consultazioni, e solo DOPO la decisione. Pare che in Francia l’adozione di questo modello dalla metà degli anni novanta abbia ridotto molto la conflittualità. Non l’abbiamo fatto, e siamo in un casino. C’è stata una mediazione, che ha portato a dei risultati, dal 2006 al 2010: modifiche del tracciato, riduzione del progetto, maggiori controlli su tutto. Tutto positivo, in fondo. C’è ancora una forte opposizione, che però ha cambiato natura. Scoppiano questi conflitti. Che fare? Bloccare tutto per ridiscutere è problematico. Infatti: a) se serve solo a raffreddare gli animi, per poi comunque andare avanti, non si può dire che sia una soluzione democratica; b) se si discute per decidere veramente, allora vuol dire che tutti gli altri livelli di decisione istituzionale – parlamento, consiglio regionale, consigli comunali – non contano niente. Questo è il problema, per me: la democrazia è anche il rispetto del funzionamento delle istituzioni rappresentative. Non si può pensare che se queste decidono quello che non mi piace, allora sono antidemocratiche. Quelle istituzioni esprimono delle maggioranze, votate; si dovrebbe riflettere una volta per tutte sul fatto che, sommando voti di centrosinistra e voti di centrodestra, la maggioranza dei cittadini della valle sono a favore dell’opera. E’ questa la ragione per cui non si può continuamente fermare un processo decisionale: perché fare questo vuol dire delegittimare sempre quel processo. E’ una logica rivoluzionaria: bene, allora diciamolo chiaramente, per esempio con l’onestà dell’ultimo intervento di Cucinotta: la TAV è solo l’occasione per realizzare una grande rivoluzione contro il sistema rappresentativo servo del capitalismo. Ok, fate pure; ma chiarite bene tutti la posta in gioco.
Grazie Mauro delle tue precise e puntuali risposte, che fanno riflettere tutti. In merito, segnalo l’importante articolo di Saviano uscito proprio oggi su repubblica riguardo alle infiltrazioni mafiose: http://www.repubblica.it/cronaca/2012/03/06/news/tav_saviano-31013967/
Sono ulteriori elementi di cui bisogna pur tener conto nell’analisi generale sulla situazione, e riguardo ai quali il governo non dovrebbe potersi permettere di affidarsi a regole che ormai dimostrano chiaramente la loro impraticabilità e insufficienza.
per vedere anche qualche immagine e sentire le parole, ecco cosa ha girato Giuseppe Zironi: http://www.youtube.com/watch?v=8jqyPMxbHmU&feature=share
Caro Piras, non dico o istituzioni o morte. Dico soltanto che non si può prima beneficiare della partecipazione a qualche gruppo che alla fine fa riferimento ai partiti che stanno o staranno in parlamento, e poi sputare sulle istituzioni quando prendono unanimemente decisioni che non ci garbano. E dico anche che è l’ora di finirla con il tiro al piccione alle istituzioni e ai partiti, in atto ormai da un ventennio (ho detto ventennio). La democrazia è fatta di istituzioni e partiti. Non si può mettere in discussione la presidenza della repubblica, il parlamento, la consulta, le procure, la polizia ecc tutte le volte, Non foss’altro perché tutti questi soggetti istituzionali sono meglio degli italiani che rappresentano. E ho detto tutto.
L’altra questione è quella di studiare le forme e gli spazi del dissenso del nuovo millennio, dimodoché si produca un dissenso intelligente e a favore di conquiste che migliorino la vita di tutti, solo rispetto alle quali io ritengo legittimo l’uso della violenza in politica. Ragionando in questi termini non è difficile accorgersi che il dissenso Anti Tav (che è un inquietante dissenso anche contro la velocità) lancia un messaggio anti sviluppo che se non è immediatamente classificabile come reazionario è assolutamente sfavorevole al miglioramento materiale della vita di tutti, specie delle persone appartenenti agli strati più bassi della società. Senza contare che è un dissenso senza capi, senza struttura organizzativa riconoscibile, oramai a un passo dall’eversione, se non dal terrorismo.
Ps: vorrei dire a Daria che neanche questa volta il mitico Saviano è riuscito a scrivere la parola Impregilo…
Mauro, questa non è una rivoluzione e non credo che lo diventerà.
Qui si sta dando una svegliata ai partiti, agli organi di informazione, alle lobby sfacciate: tutto questo non lo accetteremo più, regolatevi, se ci tenete a farvi una passeggiata senza essere insultati, picchiati o addirittura uccisi. Il governo Monti, dopo una serie infinita di atti più o meno violenti commessi da tutti gli schieramenti, dovrà arrivare a fermare i lavori e ad avviare una nuova fase tutta basata sulla ri-valutazione dell’opera. Solo a carte scoperte il prossimo esecutivo prenderà la decisione definitiva, dopo averla chiaramente enunciata e spiegata in campagna elettorale. Qualcuno vede altre uscite?
E’ chiaro: succede quando una realtà complessa si risolve in “aut-aut”, al fondo del quale non c’è più la “giustizia” ma semplicemente un contrasto di forze. Il caso della Val di Susa diviene esemplare (a questo punto).
La tentazione bipolare consiste esattamente nella riduzione al piano della forza e la responsabilità di questo non è degli abitanti della Valle e nemmeno dei “violenti” o delle forze di Polizia. La responsabilità è in chi astrae una decisione politica dalla realtà e in questo caso la realtà è la gente che misura le cose con il metro della vita, che è un metro principalmente “affettivo”, mentre chi “astrae” dalla realtà ha il monopolio delle decisioni.
Metro affettivo non vuol dire sentimentale, ma conforme alla misura dei legami umani.
Invece la TAV è il simbolo di un’astrazione, che potrà certamente diventare cosa concreta quando comincerà a esistere, ma anche allora continuerà a prescindere dai legami umani, cioè dalla vera misura della vita. Sarà un’”opera”, come il progettato Ponte di Messina o il Centro Siderurgico di Gioia Tauro. L’astrazione si insedierà nel cuore della valle e nel cuore dei suoi abitanti.
Il bipolarismo è un’astrazione, la cui unica via d’uscita consiste nel conflitto della forza. Bisogna ricordare che esso non nasce da due volontà che si oppongono, ma da una sola, quella che costringe l’altra a riconoscersi nella contrapposizione, perché la prima sa che solo così potrà aver ragione, cioè prevalere.
Non è detto nemmeno che chi ha la forza sia consapevole di ciò, che sia un lucido calcolo. Anzi, per lo più non vede nemmeno l’altro, è così certa di se stessa che l’altro lo ignora del tutto. E’ così certa di se stessa proprio perché non lo vede. Il bipolarismo nasce quando qualcuno si crede “tutto”. Il resto, rispetto a questo “tutto”, diviene marginale ed è quasi un’anomalia. Che questo avvenga sotto forma di sétta oppure sotto il simbolo dello Stato democratico non cambia niente.
E’ stupido prendersela con i “violenti” ma altrettanto stupido prendersela con i “poliziotti”. La decisione della TAV appartiene a un dominio che non ha proporzione con la geografia di un insediamento umano. Una scavatrice non percepisce la formica.
La questione non è chi ha ragione, perché sappiamo già le ragioni delle “istituzioni”e le ragioni degli abitanti della valle. In pratica sono ragioni equivalenti (come peso, non come qualità) e incompatibili. L’incompatibilità è dovuta al distacco storico dei due mondi, quello della vita umana e quello dei meccanismi finanziari e degli interessi calcolati a distanza. E la mancanza di mediazione non è dovuta all’intransigenza degli abitanti della Valle.
Ricordate l’episodio dei Melii narrato da Tucidide?
Si parla sempre della “volontà di dialogo”, ma cosa significa? Chi convince chi?
E’ la misura umana che manca negli strumenti che ci governano, che prendono le decisioni collettive.
L’impersonalità dello Stato negli ultimi due o tre decenni è divenuta spaventosa, soprattutto se pensiamo alla sovranità dei suoi meccanismi finanziari e informatici sulla vita dei singoli, fatti di carne e sangue. I quali vivono “confusi” nella loro capacità critica dall’universo dei luoghi comuni dei media.
L’impersonalità dello Stato democratico ha raggiunto il culmine da quando ha messo la sua sovranità nelle mani della finanza atlantica.
Chi agisce contro i no-Tav e chi è preso di mira dai no-Tav perciò è veramente Nessuno, anche quando si presenta nel linguaggio sacralizzato e arcaico dello Stato ottocentesco.
Che fare? Nella partita a scacchi la migliore soluzione per entrambi i giocatori è lo stallo.
QUANDO ANCHE GLI INTELLETTUALI SI FANNO STATO
Questo Paese (più precisamente lo Stato che dice di governarlo), invecchiato e in declino, divora sul nascere i movimenti. Come – si dice – facesse Crono con i suoi figli. E gli intellettuali, anche quelli che su LPLC si sono interrogati pensosi su «Il destino dell’intellettuale» o su «Lo spazio della critica sociale» assecondano. È la prova (richiesta?) che hanno portato a termine «l’elaborazione del lutto utopico».
Che delusione vedere quanto sfoggio di sottile dialettica giustifica, alla fine della fiera, le scelte imposte dai più forti. O vedere fare le pulci con massicce dosi di buon senso “democratico” agli argomenti elementari (ma rozzi, localistici, antimoderni) di questi “nuovi albigesi” della Val di Susa contro cui presto si muoverà la crociata benedetta dal presidente della repubblica (in supplenza dei papi). O ascoltare la lezioncina agli studenti contro i rischi della violenza, ovviamente – a differenza di quelle dei baroni del ’68 – più paterna, tremebonda, persino sofferta.
Vorrei notare che c’è un punto (la valutazione economica e politica degli effetti della TAV) tuttora controverso. E’ grosso più della montagna che sarà scavata dopo che questa lotta verrà repressa e dimenticata dal lotofago “popolo italiano”. Ma viene dato con disinvoltura per risolto da Piras. E (con mio stupore) da Seligneri, che profetizza «i benefici reali e futuri della tav» per un’Italia finalmente “europeizzata” (ma s’è informato sulla fine del “sogno europeo”? ha visto la fine della Grecia?); e pure da Massino, che ancora – beato lui! – riesce a distinguere destra e sinistra (Repubblica è di destra o di sinistra?) e ripone fiducia nelle Istituzioni e non invece nel Popolo becero, che tali Istituzioni hanno plasmato a loro immagine e somiglianza. (Egli paventa pure l’arrivo del nazionalsocialismo o del «fascio» che, come la storia insegna, le Istituzioni del primo Novecento coraggiosamente arginarono e tennero a bada). E ancora che delusione i tremolanti dubbi che, per salvarsi l’anima di intellettuali critici, spingono alcuni a tentare in extremis la solita “terza via”: il referendum, che poteva esserci in teoria («su questo ha ragione Chiamparino: il referendum andava fatto sei anni fa, quando si è riaperta la partita»), ma non c’è stato e meno che mai ci potrà essere ora; o la “moratoria”, che non ci sarà, perché le squadre d’assalto sono già state benedette e pronte per le strafexpedition necessarie.
Se una ideale discussione habermasiana sui pro e i contro della TAV da concludere con un verdetto equanime e salvando capra e cavoli (democrazia e affari) non c’è stata, è perché tale discussione è possibile solo nella testa dei filosofi. Nella testa degli uomini reali le discussioni sono inquinate da interessi, passioni, pregiudizi particolari e generali. E la decisione è venuta. Imposta dai più forti e furbi e corruttori, adusi al comando capitalistico. Quelli, sì. che sono capaci sempre di mascherare la loro violenza gridando alla violenza (purtroppo sempre rudimentale) di quelli che devono resistere alle prepotenze dei don Rodrigo di turno. Hanno pagato e pagheranno ancora ancora di più giornali, sindaci renitenti o incerti e scienziati e opinionisti “di valore”, per averli tutti dalla loro parte. A preparare il terreno “psicologico”, proprio come si è fatto di recente con la Libia di Gheddafi. Il tutto dietro la mascherata della democrazia, che nessuno più sa strappare dal loro volto.
Che dire? Siamo ridotti a sperare che i “nuovi albigesi” della Val di Susa trovino qualche potenza “umanitaria” (A proposito Obama che ne pensa della TAV?) disposta ad appoggiare la loro lotta, com’è accaduto per le “primavere arabe” o i “rivoltosi di Bengasi”? No, questa è amara fantapolitica. La crociata è quasi compatta. Se la dovranno cavare come possono, resistendo un minuto in più o arrendendosi (come i No Dal Molin). E con l’amarezza di passare per “luddisti”, per “violenti” o tolleranti verso i “violenti”, per gente, pronta «a rinchiudersi nella logica del riot, a cercare lo scontro per lo scontro». Che schifo. Ricordatevi della favola di Esopo.
Ma insisto: e gli intellettuali critici? Tutta qua la loro capacità critica? Tutti allarmati solo e soprattutto dalla violenza degli “estremisti”, degli “antagonisti”? Tutti a raccontare i loro patemi d’animo per evitare che i “giovani” – le pecorelle innocenti – non si lascino traviare dai lupi “estremisti” (e non una parola sui lupi che van dietro e su per i Monti)? Tutti a discettare della «radicale, vertiginosa crisi della rappresentanza politica», “arcana imperii”» , a dire persino (finalmente!) che i politici «hanno perso totalmente di credibilità, dopo avere portato il paese in questo disastro», ma solo per concludere poi – (con «quale lucidità», caro Zinato? Confrontala con quella dei Marx, dei Lenin, dei Gramsci, dei Fortini, di cui vi siete disfatti carriera facendo) – che sia questa stessa classe dirgente «a farsi carico della cosa». Ma quale cosa? Della repressione! Questa è la medicina che una classe dirigente malata e confusa sa usare e userà e che non ha usato finora solo per apparire ancora sana e “democratica”.
L’unica obiezione che mi sento di muovere (ma in disparte, evitando di “farmi Stato”) a Stan, che voglio immaginare giovane e non scafato, com’ero io nel ’68, è questa: ammesso che al «Movimento No Tav interessasse proprio la produzione di quel collasso», cosa viene dopo il collasso? O chi agirà dopo il collasso e per quale scopo? Cos’è quell’ “altro” a cui si dedicano quelli come te, ai quali «non interessa cercare un interlocutore nell’ambito politico attuale» perché «sanno di non poterlo trovare»? Anche ammesso che si arrivasse alla «de-militarizzazione della Valle e [alla] sospensione dei lavori», cioè a una tregua, dopo che si fa?
(Da un’eco del passato: «Non si lotta efficacemente contro l’autoritarismo se non se ne sa il perché. Bisogna sapere in nome di quale autorità si combattono le forme e le armi di cui si veste l’autorità che rifiutiamo. In nome, insomma, di quale prospettiva», F. Fortini, Il dissenso e l’autorità, «Quaderni piacentini», VII, 34, maggio 1968, pp. 91-100)
Darei parzialmente ragione anche a Cucinotta quando dice che una « mediazione […]chiaramente non c’è». Ma, se non c’è stata finora, da dove potrebbe venir fuori? Una nuova classe dirigente? Mi pare troppo ottimista e generico quando scrive che «c’è una situazione oggettiva certamente favorevole». Temo che finirà male per i No Tav. Mi spiace persino pensarlo. Ma devo pensarlo e sperare di essere smentito.
L’analisi di Piras, per quanto riguarda la situazione ampia del movimento studentesco degli scorsi anni, e le difficoltà di comunicazione a vari livelli del tessuto sociale, coglie in pieno il nocciolo della questione facendosene al contempo veridico esempio: una serie di flashback svela all’autore un diverso punto di vista, quel «qualcosa che sfugge, di più profondo», quello sguardo sulla realtà che è proprio di milioni di giovani italiani; i pezzi vanno a posto, si crea un’immagine precisa di un dato mo(vi)mento; il problema tuttavia è la tempistica, il semplice fatto che questo saggio sia pubblicato nel marzo del 2012.
Provo a spiegarmi meglio: dal punto di vista di studente universitario a fine carriera ho vissuto dall’interno le mobilitazioni di questi ultimi anni; leggendo queste parole di un autore che, seguendo questo sito, ho già avuto la possibilità di apprezzare, la mia reazione è stata di stupore: com’è possibile che finora tutto questo sia sfuggito? Per me, come per i miei coetanei, è un dato intrinseco.
Quando si discorre di una condizione esistenziale si sottintende – in una certa misura – anche l’incomunicabilità di questa condizione verso chi non ne è, o ne è solo marginalmente, partecipe; questo è un fatto che, accettato, a volte dilegua. La mancanza di prospettive, la coscienza dell’inutilità di una protesta civile, il non ascolto eretto a norma politica e avanti così: questo elenco, potenzialmente molto lungo, descrive una condizione esistenziale, quella di una generazione; e il grande merito di questo intervento è quello di palesare uno iato che coinvolge principalmente la comunicazione – a molti livelli –, e di palesarlo anche e sopratutto a quanti non abbiano vissuto altra logica che quella del menefreghismo, o del capo chino, o della rivolta, perché prospettiva politica non v’è mai davvero stata, ne conosciuta e persa, ne sognata. Non ci stiamo capendo, insomma. O forse non ci stiamo parlando, non a sufficienza. Le barriere, le diffidenze – quanta fatica, sempre, per superarle, quale sforzo umano e intellettuale.
«La via da adottare deve essere politica», scrive Piras riguardo alla contingenza. Certo. Ma categorie come mediazione e dialettica non si reintroducono su due piedi; due generazioni hanno un duro compito, quello di riapprendere l’arte del dialogo e del confronto, altrimenti lo iato di cui sopra sarà valicato da rade avanguardie senza seguito. In ambito politico come culturale. E’ un terreno difficile su cui è necessario lavorare insieme, guardando al futuro prossimo e non, e poi al passato, ai nonni. Non sia sottovalutata (come non lo è dall’autore, che lo dimostra nella pratica dell’insegnamento e nello sforzo di comunicazione e di comprensione), in ogni caso, la richiesta di dialogo e, perchè no, di guida che, urlata dai pochi, celata dai troppi, troppe volte cade inascoltata.
@Abate
Caro Ennio, io scrivo diverso da quello che dici tu (dov’è che parlo di destra e sinistra? Ti dà fastidio che io nutra almeno un po’ di fiducia nel partito socialista europeo? Repubblica non è né di destra né di sinistra, è un’impresa che fa copiosi utili ai danni della dabbenaggine dei propri (e)lettori)
Io mi riconosco in quello che scrivo con la mia pessimistica ragione prosastica, non in quello che interpreti tu con la tua ottimistica sragione poetica. Io scrivo come segue (potrei fare di più, concordo con te, ma se vuoi criticarmi critica quello che ho scritto… non quello che immagini scriverei se non mi autolimitassi):
Caro Piras, non dico o istituzioni o morte. Dico soltanto che non si può prima beneficiare della partecipazione a qualche gruppo che alla fine fa riferimento ai partiti che stanno o staranno in parlamento, e poi sputare sulle istituzioni quando prendono unanimemente decisioni che non ci garbano. E dico anche che è l’ora di finirla con il tiro al piccione alle istituzioni e ai partiti, in atto ormai da un ventennio (ho detto ventennio). La democrazia è fatta di istituzioni e partiti. Non si può mettere in discussione la presidenza della repubblica, il parlamento, la consulta, le procure, la polizia ecc tutte le volte. Non foss’altro perché tutti questi soggetti istituzionali sono meglio degli italiani che rappresentano. E ho detto tutto.
L’altra questione è quella di studiare le forme e gli spazi del dissenso del nuovo millennio, dimodoché si produca un dissenso intelligente e a favore di conquiste che migliorino la vita di tutti, solo rispetto alle quali io ritengo legittimo l’uso della violenza in politica. Ragionando in questi termini non è difficile accorgersi che il dissenso Anti Tav (che è un inquietante dissenso anche contro la velocità) lancia un messaggio anti sviluppo che se non è immediatamente classificabile come reazionario è assolutamente sfavorevole al miglioramento materiale della vita di tutti, specie delle persone appartenenti agli strati più bassi della società. Senza contare che è un dissenso senza capi, senza struttura organizzativa riconoscibile, oramai a un passo dall’eversione, se non dal terrorismo.
Caro Filippo Grendene,
grazie per il bell’intervento, che condivido. Perché mi sono accorto così tardi del problema? Non lo so, forse per l’eccessiva fiducia nella mobilitazione politica di cui abbiamo già fatto esperienza. Comunque è vero, c’è questo ritardo. Adesso il problema va affrontato: io mi rivolgo al lato della mia generazione e di chi in questa fa attività politica, ha responsabilità istituzionali (di ogni tipo: come docente, come dirigente sindacale o politico, ecc.). A tutti noi dico: il problema è riaprire il canale della comunicazione. Lo hai detto bene tu: non si può continuare con questo “non ascoltare, non riconoscere”, che è anche un uso diffuso nella società, oltre che nelle organizzazioni.
Caro Larry Massino,
chiarita così la cosa, allora sulle istituzioni siamo d’accordo. Ed è giusto cercare anche le nuove forme del dissenso, anche se io sono più preoccupato dell’altro lato, fare bene la politica delle istituzioni, renderle democratiche. Non ho capito però il suo accenno alla violenza.
Caro Giuseppe Zironi,
se non è una rivoluzione, deve essere una lotta politica democratica, che tenga conto della cornice delle istituzioni. Ho già detto perché ho delle perplessità, per ragioni di legittimazione democratica, non tecniche, sul bloccare tutto. Però può essere una proposta se fatta tenendo conto di queste ragioni.
E’ importante il rispetto reciproco delle parti: non si vede l’utilità di demonizzare chi sostiene il cantiere.
Caro “al-Farabi”,
se si vede la cosa in termini di conflitto antropologico tra due “mondi”, la vita concreta della gente comune contro l’astrazione del capitale finanziario, è inevitabile non uscirne mai. Non accetto questa prospettiva: in primo luogo, perché una politica ragionevole si salva se si cercano di capire le ragioni pertinenti, e si evitano queste generalizzazioni filosofiche; in secondo luogo, perché mi sembra semplicistico. La vita umana procede anche grazie alle “astrazioni”, anche grazie alle conoscenze generali della scienza, al dominio tecnico sulla natura e alle forme di cooperazione sociale garantite dal mercato. Demonizzarle in sé significa condannarsi a stare fuori dalla realta; comprenderle e ancorarle a istituzioni e agire sociale consapevole significa invece cercare di orientare, per quel che si può, la realtà.
Caro Ennio Abate,
lei esagera. Posso capire la sua indignazione morale contro chi difende le guerre (come è capitato a me), perché si tratta delle vite delle persone. Ma non la capisco, a questi livelli, per la discussione su un’opera pubblica. E’ proprio questo che rende la discussione impossibile: se per lei chiunque difenda l’opera è un servo del capitale, la partita è chiusa. Il servo non la ascolterà, e la politica va a farsi benedire.
Ci permettiamo di discettare della crisi della rappresentanza politica e sociale, perché per il momento non disponiamo di sistemi politici migliori, e questo non vorremmo buttarlo a mare.
Lei deride i miei “patemi d’animo” per i giovani, e il rapporto con la violenza. Le piace fare il duro.
Le rispondo solo con un verso di una poesia di Brecht che lei conoscerà, intitolata, mi sembra, “Piaceri”: “freundlich sein”. Per me è un imperativo.
Quanto alla lucidità di Lenin, le consiglio di leggere con attenzione “Tutto scorre” di V. Grossmann.
@ Massino
Il tuo errore, Larry, è affidarti a quelle stesse Istituzioni che portano in seno e coltivano i mali che vorresti combattere.
@ Piras
E’ lei che esagera e fa il duro (o lo è ben più di me per il ruolo di potere che svolge) senza darlo a vedere. La discussione è impossibile perché lei non risponde alle obiezioni (il buco per la TAV è davvero utile economicamente, politicamente, socialmente?) e tira dritto per la sua strada. Al suo Brecht quasi sdolcinato dei “Piaceri” (Copio sotto una traduzione per comodità dei lettori di LPLC) preferisco il Brecht del finale di “A quelli che verranno”:
Anche l’ira per l’ingiustizia
fa roca la voce. Oh, noi
che abbiamo voluto apprestare il terreno alla gentilezza,
noi non si potè essere gentili.
Quanto a Lenin, si ricordi che guidò una vera rivoluzione e non guerre colonialiste. Anche Mazzini passò per terrorista. E i loro nemici non possono vantare mani più pulite. Ho letto Grossman, Salomov ed altri. Ma anche Moshe Lewin, Luigi Cortesi, ecc. La letteratura illumina la storia, ma non la sostituisce.
P.s.
B. Brecht, Piaceri
Il primo sguardo dalla finestra il mattino
il vecchio libro ritrovato
volti entusiasti
neve, il mutare delle stagioni
il giornale
il cane
la dialettica
fare la doccia, nuotare
musica antica
scarpe comode
capire
musica moderna
scrivere, piantare
viaggiare
cantare
essere gentili.
Insomma, è palese, il sogno modernista si è già infranto rispetto a una realtà che ha dovuto fare i conti con la limitatezza delle risorse, anche di quelle come l’aria e l’acqua che pretendevamo inesauribili, ma direi anche con un modello antropologico estremamente rozzo.
Oggi, improvvisamente rispetto alla constatazione del peso preponderante dell’emozionalità negli uomini in carne ed ossa, alla caduta verticale quindi di quel modello antropologico di tipo illuminista, si reagisce dubitando della stessa premessa della democrazia in senso etimologico, e cioè che sia opportuno dare il potere al popolo.
Difendiamo le istituzioni rappresentative si dice, ma bisognerebbe pure rendersi conto di chi mette in pericolo queste istituzioni: davvero sarebbe il popolo bue che pretende di saltare le mediazioni politiche ed istituzionali? Ma stiamo scherzando, ma in che mondo vive qualcuno dei miei dotti interlocutori? Possibile che a più di tre mesi dal suo insediamento, non si sia ancora reso conto che Monti è diventato il nuovo premier, messo lì per dare attuazione ai diktat della troika come dimostra la vicenda della lettera della BCE? Che quindi sono le stesse istituzioni che si automettono in crisi quando scambiano la politica per una tecnica al servizio del raggiungimento di alcuni obiettivi economici assunti come obiettivo indiscutibile da perseguire?
Chi ha nominato a tamburo battente senatore a vita Monti e dopo qualche giorno gli ha conferito l’incarico di premeir se non la vestale somma della costituzione, nella persona di Giorgio Napolitano? Chi ha con la stessa procedura d’urgenza tradito il potere che gli elettori aveva loro conferito di governare nel loro nome, se non i partiti rappresentati in parlamento (o almeno la maggior parte di loro)?
L’aspetto francamente paradossale di tutto questo è che gli stessi motivi che fanno dubitare della capacità del popolo di assumere potere, e cioè la natura non proprio libera e razionale della persona umana, misteriosamente non mettono però in crisi ma esaltano proprio quel ruolo del mercato che è interamente basata sulle quelle stesse premesse antropologiche: sarà un mistero della fede?
Segnalazione
Angelo Tartaglia: Una replica a Passera
http://www.sinistrainrete.info/politica-italiana/1947-angelo-tartaglia-una-replica-a-passera.html
Una premessa: la costruzione di linee ad Alta Velocità è un progetto internazionale, non puramente nazionale, che ha già trasformato, in meglio, il commercio, l’economia, la cultura e la vita di tutte le popolazioni di tutto il continente europeo. Se ne possono discutere gli elementi tecnici, si può suggerire un altro tracciato, si può chiedere maggiore trasparenza nei costi e nella procedura di costruzione, ma vedere considerare dai più una rivolta neo-luddista ancora scomposta come una forma di avanguardia politica è scoraggiante. Mi sembra che un simile atteggiamento riveli tutta la povertà teorica e politica della sinistra italiana.
Il testo di Piras è molto bello, e mi chiedo se la questione del «collasso della rappresentanza politica e delle istituzioni sociali» e dello «sfondo di crisi generale della democrazia» che lo accompagna non debba essere separato dal problema della costruzione delle linee TAV ancora più accuratamente. Prendere posizione nel dibattito, e a favore, è molto importante.
Innanzitutto perché, da persona la cui vita è stata interamente trasformata dall’introduzione di linee ad alta velocità provo enorme fastidio nel sentir dire che si tratti di un’investimento inutile e dispendioso. Non si tratta di un ritorno puramente individuale. Ne abbiamo già avuta la dimostrazione. Tanto per fare l’esempio più stupido, poter percorrere Roma Milano in 3 ore serve molto di più alla riunificazione materiale e simbolica del paese che decine di discorsi retorici sull’Unità d’Italia: significa contrapporre allo scomposto discorso leghista il fatto reale che migliaia di persone percorrono quotidianamente il paese in tutta la sua lunghezza come se fosse uno. E in Francia le linee TGV hanno prodotto una rivoluzione simbolica dei rapporti tra centro e periferia.
C’è inoltre una serie di argomenti sbandierati da più da una parte che mi sembra politicamente molto fastidiosa. Il primo fra tutti: quello per cui coloro che abitano nella valle avrebbero un diritto di parola in più rispetto al resto della popolazione o rispetto a un governo che esprime la volontà di tutta la Nazione. I territori della Val di Susa (come tutti i territori al di qua dei confini nazionali) non appartengono a coloro che vi abitano né alle comunità locali; appartengono allo Stato e alla Nazione, che può disporne sovranamente e liberamente per l’interesse della Nazione, come lo ha fatto per la costruzione di tutte le linee ferroviarie che percorrono il paese. Parlare di un presunto diritto delle popolazioni locali a dire qualcosa di più del resto della popolazione sulla costruzione della Val di Susa mi sembra una tesi populista e antipolitica peggiore di quelle che accarezzate dalla Lega. L’Italia è uno stato nazionale, non una confederazione di comunità locali e la divisione geografica è puramente amministrativa, non politica.
Più in generale, mi chiedo se piuttosto che continuare a interrogarsi sulla rappresentanza e la sua crisi, la sinistra non debba anche ricominciare ad interrogarsi sul governo: sul progetto reale e concreto che ha sul Paese, su quello che ha intenzione di fare con il paese. Il parlamento è fatto per trasformare e governare il paese (nel rispetto di tutte le regole democratiche) non per rappresentare un manipolo di minoranze, fossero anche le più deboli. E una forza politica è diversa da una forza sindacale. Finché non ci sarà una ridefinizione degli scopi ultimi, il dibattito a sinistra, mi sembra, sarà destinato a un carnevale di opinioni poco edificante.
@ Averroè
Anche lei tra gli intellettuali di sinistra abili arruolati al servizio di Monti e del PD?
Senta, non mi dica che Cristo adesso s’è fermato in Val Sesia! Da un illuminista arabo come lei non me l’aspettavo che s’innamorasse dell’Alta Velocità perché «è un progetto internazionale, non puramente nazionale». Come se i progetti, per essere internazionali, fossero di per sé buona cosa. Anche le «guerre umanitarie» sono progetti internazionali e quantomeno danneggiano alcuni e avvantaggiano altri. Che l’Alta Velocità (capitalistica) abbia « già trasformato, in meglio, il commercio, l’economia, la cultura e la vita di tutte le popolazioni di tutto il continente europeo» è tutto da dimostrare. Sarà una cosa che facilmente ammette lei, che se n’è avvantaggiato «da persona la cui vita è stata interamente trasformata dall’introduzione di linee ad alta velocità». È più difficile che se la bevano i pendolari delle tratte locali o i milioni di disoccupati in continua crescita che vedranno passare i treni del Progresso come l’asino carducciano di una volta.
Mi scusi: ma perché il Progresso dell’Alta velocità non sfiora costoro ma solo lei e le élite?
«Poter percorrere Roma Milano in 3 ore serve molto di più alla riunificazione materiale e simbolica del paese che decine di discorsi retorici sull’Unità d’Italia»?
Pensi che ottima riunificazione ci sarebbe se si potessero percorrere le tratte tra le città di provincia in tempi ragionevoli, anche soltanto a Media velocità.
Come mai tanti sinceri riformisti demcoratici non si curano di tali possibili progetti e abbaiano solo in difesa del Progresso TAV?
E poi perché gli altri, gli esclusi o i danneggiati, dovrebbero applaudire o obbedir tacendo come ai tempi del Duce? Tolleri almeno qualche discorso «scomposto» e un po’ di protesta neo-luddista prima di assistere alla loro inevitabile e sacrosanta repressione. E non si scoraggi della povertà teorica e politica della sinistra italiana. Ragioni lei almeno. E almeno qui, su LPLC.
Il testo di Piras sarebbe anche bello, se stessimo discutendo di estetica e non di economia, politica e forse di visioni (al plurale!) del mondo.
Del progetto TAV si «possono discutere gli elementi tecnici». Bene, l’ha fatto Angelo Tartaglia nel testo da me linkato sopra.
Perché non gli controbattete? Perché lei parte da una premessa che assomiglia a un dogma? Perché, soprattutto, ribalta la frittata? Dov’è questo governo che dimostra nei fatti e non a parole di esprimere «la volontà di tutta la Nazione»? Coloro che abitano un territorio non «hanno un diritto di parola in più rispetto al resto della popolazione», ma le ragioni che hanno portato finora per opporsi sono valide o inconsistenti, sono stupide o realistiche, sono miopamente localiste e leghiste o ben più nazionali e persino internazionali degli interessi pubblico-privati degli affaristi di cui avete sposato la causa?
È su questo che sorvolate dando il vostro contributo al carnevale italiano.
Aria surriscaldata, naturalmente non solo su questo “blog”. Propongo una pausa di riflessione (del resto anche riguardo alla costruzione della nuova linea ferroviaria sarei per una moratoria, come ho già detto). Però chi ha dei dubbi sulle forme di lotta o sulle questioni stesse poste dai no Tav, non andrebbe per ciò stesso demonizzato (non è un “servo del capitale”, direbbe Piras). Si può essere a favore dello sviluppo dell’alta velocità, che potrebbe diminuire l’impatto dell’inquinante traffico automobilistico e aereo, ed essere al tempo stesso a favore di un rafforzamento del trasporto pubblico locale. Le due cose non sono in contraddizione. Ma nella Valle c’è un problema di consenso, ossia di deficit di consenso nei confronti di un’opera pubblica che non può essere imposta alle popolazioni locali con uno spirito statalista-bonapartista, quello che sembra piacere ad Averroè. Cari amici, riflettete!
In democrazia decidono le maggioranze (teppistelle?). Può darsi che decidano male, non è questo il punto. Il punto è che la maggioranza pro Tav è schiacciante, comprende adesso anche la CGIL. Le minoranze possono esprimere il loro dissenso, possono fare pressione affinché almeno una parte delle loro istanze venga accolta, ma dopo si debbono fermare. Altrimenti passano alla contestazione della democrazia, italiana ed europea, come infatti stanno facendo, portando acqua con le orecchie ai localismi e ai populismi della destra identitaria, razzista, statalista, nazionalista, autoritaria, ultraconservatrice ecc Opporsi allo sviluppo, almeno quando è ragionato come in questo caso, significa anche opporsi al progresso. Come fate a non vedere tutto questo? Come fate a dire che non esiste più distinzione tra destra e sinistra?
Poi, in generale, in questo contesto politico, penso che si può essere per un’Europa migliore di questa, ma non contro l’Europa. A chi blatera ancora di autodeterminazione dei popoli, vorrei dire che l’Italia l’autodeterminazione l’ha in gran dovuta cedere perché colpevole di aver inventato il fascismo, e perché, guarda un po’, ha perso la guerra, facendosi ricostruire il paese dai liberatori, i quali, temo, sono i veri padroni del territorio (100 e rotte basi militari Usa e Nato vorranno dire qualcosa o no?), e hanno il diritto (secondo me scritto in trattati segreti) di farci quello che gli pare.
Ps: Piras, anche un picchetto è violenza politica.
Il 3 luglio 2011 ho partecipato alla manifestazione No Tav in Val di Susa. Durante la giornata, parlando con gli abitanti di quel territorio, assistendo alla manifestazione ed agli scontri con la polizia, è cresciuta dentro di me la consapevolezza che quell’opera non sarà mai costruita (anzi, che non verrà mai iniziata). In Val di Susa, infatti, vivono migliaia di persone, di tutte le età ed estrazioni sociali, che hanno piena coscienza, per quanto riguarda questa questione, di ciò che è giusto e di cosa è sbagliato. Ho sentito e compreso chiaramente che queste persone non si arrenderanno mai, perché stanno lottando per difendere la terra su cui vivono e che amano (allo stesso modo degli aborigeni australiani, che hanno ricevuto il mandato dalla divinità di prendersi cura della propria terra). La passione e la forza con cui si battono crescono quotidianamente e sono contagiose; le ragioni dei fautori dell’opera sono invece lontane da quei luoghi e sono troppo deboli per mortificare chi lotta per amore e per ciò che sa essere giusto.
Invito quindi chiunque ad andare in Val Susa per farsi un’idea più completa sulla questione.
Segnalo inoltre l’Appello per un ripensamento del progetto di nuova linea ferroviaria Torino-Lione indirizzato al Presidente del Consiglio Monti il 9 febbraio e firmato da 360 studiosi e professionisti.
http://www.notav.eu/notav/Articoli/2012/02/Lettera%20al%20Presidente%20Mario%20Monti_9%20febbraio%202012.pdf
@Abate
Genovese ha perfettamente ragione: essere per la costruzione dei TAV significa anche (e così è stato nel resto d’Europa) potenziare il rafforzamento del trasporto pubblico locale, e non vedo perché per rafforzare le linee regionali si debba per forza lottare contro quelle ad alta velocità.
Per il resto, se voler viaggiare veloci, su treni moderni ed eleganti, sulle lunghe tratte così come su quelle regionali significa appartenere alle élites e sposare le cause degli affaristi beh, lunga vita alle élites e agli affaristi. Il pauperismo volontario in questo caso mi sembra solo una scelta piena di snobismo e risentimento.
@Andrea Fogato
«[…] stanno lottando per difendere la terra su cui vivono e che amano (allo stesso modo degli aborigeni australiani, che hanno ricevuto il mandato dalla divinità di prendersi cura della propria terra)»
Forse nella discussione ha avuto un problema di memoria, ma in Italia abbiamo abbandonato lo stato di natura da qualche millennio. Gli aborigeni qui non ci abitano più da molto, sa? Quanto ai celicoli temo che le divinità locali si preoccupino al massimo di ottenere qualche esenzione ICI. Sono divinità molto più pragmatiche rispetto alle loro colleghe australiane.
Provo a distinguere i due piani, da un lato quello del problema di rappresentanza politica che ho cercato di mettere in evidenza, dall’altro quello della TAV.
Sul primo, vorrei dire anzitutto che era il mio tema centrale, non tanto la presa di posizione sulla TAV. Qui si tratta di vedere se questo problema di rappresentanza si può affrontare, o se le istituzioni rappresentative portano il male in sé, come dice Ennio Abate o suggerisce Cucinotta. Io penso che le istituzioni rappresentative abbiano in sé il male quando non funziona più il rapporto tra la politica e la società civile in tutti i suoi aspetti: quando non c’è apertura e ricambio dei quadri dirigenti, quando non c’è capacità di progetto politico, e quando, dall’altro lato, non c’è partecipazione. Non cerco di fare la diagnosi, di spiegare perché le cose vanno così in Italia. Ma penso che possiamo aspirare a un modello di democrazia in cui le istituzioni rappresentative o sociali siano in tensione con movimenti che premono su di esse dal basso. Le due cose separate, isolate, fanno degenerare la democrazia. Anche i movimenti devono avere una prospettiva politica che si possa tradurre in decisioni istituzionali. Nel complesso, mi trovo d’accordo con gli ultimi chiarimenti di Larry Massino: è ovvio che in questa prospettiva bisogna accettare, una volta garantita la voce a tutti, la logica della maggioranza. Non si può definire antidemocratico quello che non corrisponde alla propria opinione. E se per “violenza politica” Massino intende le forme di resistenza e protesta che, in alcune occasioni, non sono strettamente legalitarie (come i picchetti, ecc.), è vero che in una dinamica politica che faccia spazio ai movimenti anche questo ha uno spazio. Io non userei la parola violenza, ma ci siamo capiti. Ciò che è escluso sono gli atti di forza contro l’integrità delle persone e dei loro beni.
Ad “Averroé” dico che il discorso sulla crisi di legittimità e sul progetto della sinistra sono la stessa cosa: la mancanza di un progetto politico è una delle cause della crisi di legittimità. Costruire quel progetto significa avere una idea di giustizia articolabile dentro lo stato democratico, nelle condizioni del capitalismo avanzato; allo stesso tempo, significa capire le radici della crisi di rappresentanza e trovare le idee e le parole per convincere chi si sente tagliato fuori.
Sulla TAV. Io non evito di rispondere, caro Abate, in questo non c’è nessuna arroganza. Non volevo che la questione della TAV in sé fosse il centro della discussione. Però, per correttezza, ho detto che sono a favore. Non ho grandi argomenti, lo confesso, perché non faccio una crociata del mio essere a favore del progetto. La ringrazio quindi per il link all’intervento di Tartaglia, così come ringrazio Andrea Fogato. Espongo brevemente quel poco che ho capito.
1. I costi. Le cifre ufficiali, adesso, parlano di 2,8 miliardi, per un’opera di dieci anni, da finanziare in 25-30 anni; sono costi sostenibili, che non incidono pesantemente sulle finanze pubbliche (la diminuzione del cosiddetto “spread” in questi ultimi giorni ci fa risparmiare molto di più).
2. Il rapporto costi-benefici: non ho letto ancora il documento ufficiale del governo. In effetti tutti lamentano l’assenza di un calcolo attendibile. Alcuni economisti (lavoce.info) hanno fatto notare che il calcolo è ancora negativo, ma che lo è per ogni opera pubblica, e con il nuovo progetto “ridotto” il divario è inferiore ad altre opere pubbliche in costruzione, non contestate.
3. L’utilità in generale. Il fine prioritario dell’opera è favorire la circolazione delle merci in Europa, in una complessa rete di alta velocità, in cui la Torino-Lione fa parte di un lungo asse est-ovest. Un progetto del genere sicuramente aumenta l’integrazione del mercato e favorisce le piccole e medie imprese. Allo stesso tempo, sposta questi traffici su rotaia, con vantaggi per l’ambiente. E’ chiaro che sulla lunga durata questi vantaggi economici ed ecologici si otterranno, a prescindere dal rapporto attuale con i costi.
4. La linea storica. Questa è sottoutilizzata anche perché è poco redditizia. Un tunnel di base rende il traffico più redditizio. Inoltre è vero che c’è poco traffico a causa della crisi, ma un argomento del genere avrebbe bloccato qualsiasi cantiere pubblico aperto da Roosevelt per combattare la crisi del 1929. Le opere pubbliche hanno una funzione anticiclica, se progettate bene.
5. Il lavoro. Il cantiere può creare 6000 posti di lavoro, includendo l’indotto. Ma tutti sanno che la creazione di posti di lavoro, in periodo di crisi, ha una funzione anticiclica perché inverte la spirale negativa di contrazione della domanda. Tutte le sinistre lamentano la politica solo monetaria dei governi europei, e poi ci opponiamo ai pochi casi di politica economica di stimolo alla crescita da parte della UE.
6. L’impatto ambientale e l’amianto. Qui andrebbero resi noti i documenti di valutazione di impatto ambientale fatti dall’osservatorio. Non ne so niente, sono onesto. Dico solo che in questo momento, in Val di Susa, è aperto il cantiere di rifacimento della A32, senza che nessuno abbia protestato per problemi ambientali.
Questo è il non molto che so. Il problema è trovare il modo politico di affrontare la cosa. Oggi si è aperto un tavolo in cui erano presenti tutte le amministrazioni, anche tutti i sindaci contrari, e Sandro Plano. Vediamo a cosa porta.
@Piras
In precedenti occasioni, Lei ha risposto a ciò che affermavo. Non capisco perchè stavolta lei mi fa dire cose che non ho mai profferito, e glissa su ciò che invece affermo chiaramente.
Poi, Bersani, e forse anche lei, possono dire che la democrazia si sostanzia nell’esecuzione di alcune procedure formali, io non sono d’accordo, ma rispetto le opinioni differenti, purchè si ammetta che nella sostanza le decisioni le sta assumendo la troika BCE-FMI-commissione UE.
Da questi fatti, io desumo che sono i rappresentanti che stanno distruggendo la democrazia rappresentativa, prendendo ordini da un altrove che addirittura è collocato fuori dai confini nazionali. Inoltre, sembra una banalità, dall’andamento della discussione trovo che non sia superefluo ricordarlo, non sono i rappresentati a doversi preoccupare di inseguire i propri rappresentanti, ma al contrario sta ai rappresentanti preoccuparsi di non perdere il contatto con i propri rappresentati.
Trovo così davvero stravagante che si dica ai rappresentati di non mettere in crisi le istituzioni rappresentative: rappresentative appunto, se smettono saranno ancora istituzioni, ma che non rappresentano più nessuno.
Se ammettiamo tutti un’altra banalità, ma pare che ci siano difficoltà insormontabili nel convenire sull’ovvio, e che cioè la democrazia prevede il conferimento del potere al popolo (certamente nelle forme previste dalla costituzione), allora quando i rappresentanti smettono di rappresentare i propri elettori la democrazia cessa, oppure possiamo avere una democrazia che si sostanzia indipendentemente dal suo grado rappresentativo? Spero che non lo crediate.
Allora, se le istituzioni scricchiolano, ciò è dovuto esclusivamente a una cattiva gestione da parte di chi le rappresenta pro tempore, da Napolitano ai ceti dirigenti dei vari partiti.
Andiamo adesso al TAV. Pur ammettendo che non ne sa molto, lei ha però una convinzione ferma, di essere a favore. Ciò è molto interessante perchè mostra il modo in cui si costruiscono le convinzioni anche in certo ceto intellettuale che pure avrebbe i mezzi per farlo sulla base di argomentazioni logiche. Invece, si potrebbe dire, la posizione sul TAV dipende dal credere o no alla divina trinità. Intendo dire che c’è una visione generale delle cose a cui i dati tecnici non interessano.
Pensate che Averroè si spinge fino a credere che gli aborigeni australiani vivano allo stato di natura: e pensare che io credevo che fosse una persona istruita!
Il problema dellì’occidente è proprio questo, di far coincidere la propria civiltà con unica civiltà, e misurarne quindi il grado per ciascun popolo sulla base della prossimità alla nostra. Insomma, potrei dire che gli ayatollah iraniani sono dei dilettanti rispetto alla convinzione degli occidentali di essere l’ombelico dell’universo. E’ chiaro che da un simile substrato culturale, si finisce con il misurare tutto in funzione del PIL, del grado di confort della propria vita. Crederlo per quanto riguarda la propria personale vita, può essere sbagliato, ma è comunque del tutto lecito, il guaio è quando se ne fa la misura di tutte le cose e quindi si pretende di applicarlo a tutto e a tutti, allora siamo su terreno ondeggiante tra gli ayatollah iraniani e i robot, se addirittura si assume un procedimento di calcolo automatico di questi parametri.
Caro Cucinotta,
chiedo scusa, in effetti lei non ha detto che le istituzioni rappresentative hanno il male in sé, ma fa un discorso più generale sulla responsabilità delle istituzioni nell’allontanamento dai rappresentati. In termini di principio siamo d’accordo. Probabilmente la differenza è sulla valutazione della situazione particolare.
Sulla TAV non ho detto che ho una posizione ferma, la sostengo ma non ho grandi argomenti (tradotto: non sono preparato sul dossier), il che vuol dire che non la difendo a spada tratta. Ho proposto però quei pochi argomenti che ho. Adesso sta a lei confutarli (cosa probabilmente facile).
Un caro saluto,
mp
Rispondo punto per punto.
1. Non è un argomento sostenere che li possiamo spendere perchè l’abbiamo risparmiato sui titoli pubblici ( a parte che basta intendersi da quale data si calcola, rispetto a una data più anticipata, gli interessi sono aumentati e non diminuiti). Con lo stesso criterio, potremmo paradossalmente sostenere qualsiasi spesa anche se costituisse visibilmente uno spreco.
2. Se i benefici sono inferiori ai costi, allora ci potremmo chiedere se esistono spese prioritarie o anche soltanto più vantaggiose.
3. Se lei andasse a consultare le cartine che illustrano il corridoio 5 nel contesto dei trassporti ferroviari europei nel complesso, si accorge immediatamente di almeno due omissioni. L’una è che la Germania sembra stare fuori dall’unione europea, non passa nulla da lì, e non si capisce da Roterdam a Budapest come c’arriveranno mai quelle merci.
L’altra è l’omissione delle linee TAV già esistenti sull’asse Svizzera – Austria. Esistenti significa già almeno in parte realizzate, e come tali già in concorrenza con quelle (ancora da iniziare) che dovrebbero passare dalla pianura padana. Concorrenti forse non rende ancora l’idea, significa che sono più vantaggiose perchè di latitudine più prossima a quella media europea (linee più brevi).
4. Constatato che la nuova linea sarebbe migliore sia come quota altimetrica più bassa che come possiiblità di ospitare containers più grandi, rimane da capire se tali miglioramenti aumenterebbero davvero il traffico. Come corridoio europeo, non mi pare ci interessi tanto. L’unica cosa davvero ionteressante sarebbe quello di scoraggiare il traffico su gomma, ma mi pare che le recneti decisioni di restituzione trimestrale delle accise sul carburante agli autotrasportatori non sembra manifestare una ferma volontà governativa di scoraggiare quel tipo di trasporto. In egnerale, manca un piano geenrale del trasporto, l’unico in cui ha senso una possiible iscrizione di quest’opera.
Infine, sulla questione della crisi, ha ragione lei se la considera come un fatto contingente, ciclico. Tuttavia, così lei non considera alternative ad un progresso che si sostanzia in un aumento quantitativo, e che pure è assolutamente incompatibile con un qualsiasi quadro ragionevole della situazione ambientale.
5. Se l’obiettivo fosse quello della creazione di posti di lavoro, non ha senso crearli per la costruzione della TAV. Considerate le costose apaprechciature richieste, l’enorme quantità di energia richiesta, ogni posto di lavoro costerebbe un occhio della testa ed avrebbe una durata estremamente limitata nel tempo. Monti, da buon liberista, esclude che si crei occupazione creando posti di lavoro, troppo banale, bisogna solo aiutare il mercato a trovarli lui i posti di lavoro, e nel frattempo che il cavallo muoia di sete.
6. Lo stesso governo ammette che il 15% del materiale di risulta delle perforazioni risulterebbe costituito da amianto, ma dicono che hanno le tecnologie sicure. In ogni caso, l’impatto di una così mastodontica movimentazione di terra non mi pare molto rispettosa dell’ambiente.
Il problema ambientale, in ogni caso, è costituito innazitutto dal modello quantitativo di ogni progetto di sviluppo.
@Cucinotta
Ha ragione, scusi la mia ignoranza, ma l’ironia è sempre più interessante dell’istruzione. Non capisco però cosa c’entrino le sue prediche contro l’arroganza universalista dell’occidente e gli ayatollah, con la constatazione, banale, che i territori della val di Susa non appartengono a chi li abita, ma a tutta la nazione, ed è tutta la nazione e non i suoi abitanti a dover decidere cosa farne.
@Piras
No, non sono affatto la stessa cosa. La crisi di rappresentanza è solo un accidente secondario, e del tutto trascurabile rispetto all’assoluta mancanza di un progetto politico e di governo sia della sinistra parlamentare che dei numerosi gruppuscoli di protesta, da New York alla val di Susa.
Trovo molto riduttivo pensare che il progetto politico da costruire si debba limitare ad «avere idea di giustizia articolabile dentro lo stato democratico» e a «convincere chi si sente tagliato fuori». Il problema della sinistra è proprio questo minimalismo castrante, che riduce il potere (politico) a quello giudiziario.
Governare un paese ha e deve avere altri scopi, molto più ampi che la giustizia e la sua amministrazione: significa per esempio dover immaginare cosa poter fare con una massa incredibilmente ampia di risorse umane e naturali; significa, per esempio, avere un’idea di come produrre nuova ricchezza, prima ancora di preoccuparsi di come distribuirla; significa, soprattutto, avere una visione su un futuro possibile del paese. Per essere più chiaro: preoccuparsi di come procurarsi energia non ha nulla a che vedere con la giustizia, mi sembra. Decidere se il paese deve continuare a investire nel mercato (obsoleto) delle automobili o invece puntare su altri molto più promettenti non è una questione riconducibile a un problema di giustizia e di rappresentanza, ma è un problema, importante, di governo. Se il dibattito continua a concentrarsi sempre e solo su come rappresentare gli emarginati, vinceranno sempre (e direi per fortuna) gli affaristi e le élites di cui parla Abate.
Anche per questo trovo altrettanto riduttiva l’insistenza continua sull’idea di rappresentanza: un governo si deve preoccupare soprattutto di educare, cioè di trasformare i cittadini, non di rappresentarli. Sono le associazioni sindacali e i partiti (cioè gruppi di influenza privati che si preoccupano di pilotare la vita pubblica a scopi privati) che si preoccupano di rappresentare parti sociali. Un governo non deve rappresentare nulla e nessuno, deve avere un fine, uno scopo verso cui condurre un paese. Altrimenti è solo una forma allargata di sindacato. O l’armata Brancaleone.
@Averroè
Lei risponde a me dicendo:
Non capisco però cosa c’entrino le sue prediche contro l’arroganza universalista dell’occidente e gli ayatollah, con la constatazione, banale, che i territori della val di Susa non appartengono a chi li abita, ma a tutta la nazione, ed è tutta la nazione e non i suoi abitanti a dover decidere cosa farne.
Mah, si metta d’accordo con sè stesso, visto che quella frase l’ha scritto lei. E’ lei che ha scelto di considerare il nostro essere civili (al contrario degli aborigeni australiani, immagino) la ragione per non tenere in considerazione le ragioni dei valligiani.
Lei in verità, mi pare che più che preoccuparsi del localismo, si preoccupa delle implicazioni di carattere politico più generale di quegli abitanti, come si desume facilmente dalla sua risposta a Piras:
Governare un paese…significa, per esempio, avere un’idea di come produrre nuova ricchezza, prima ancora di preoccuparsi di come distribuirla.
Non credo che occorra una grande dose di immaginazione per capire come il suo stesso modo di concepire l’idea di governo implica la crescita ininterrotta, assunta come assioma, e che quindi l’ossessione occidentale esclude la possibilità di considerare civile chiunque metta in dubbio tale assioma, in primis proprio quei vallegiani.
Se davvero un governo dovesse avere obiettivi come lei dice buoni di per sè, allora non credo che serva la politica, perchè la politica o occupa lo scranno più alto, è quella che decide, o se invece esistono criteri e obiettivi che la precedono, essa nei fatti non c’è più scompare.
@Cucinotta
«ha scelto di considerare il nostro essere civili (al contrario degli aborigeni australiani, immagino) la ragione per non tenere in considerazione le ragioni dei valligiani»
Non l’ho scelto io: far parte di uno stato significa privilegiare le ragioni nazionali a quelle locali. E’ una nozione elementare di teoria politica che di solito si apprende molto presto, ma che a quanto pare lei e molti dei No Tav hanno deciso di non prendere in considerazione, proprio come il “popolo della Lega”: i nostri aborigeni sono loro. Somigliano molto alle popolazioni preistoriche del resto. Compionio degli strani riti e si manifestano con strani gesti, borborigmi, dialetti sconosciuti ai più.
Su quella che lei chiama l’ossessione occidentale non so che dirle. Io non ho parlato di crescita, ho parlato di produzione di ricchezza: non so se bisogna crescere, ma so che ogni ricchezza è deperibile e deve essere ricostituita e un governo deve preoccuparsi di capire come farlo, prima ancora di porre il problema della giustizia. Lei è liberissimo di rinunciare alla ricchezza e alla produzione, ma non può pretendere che la nazione la segua.
E soprattutto, non si illuda: i vallegiani, così come i metalmeccanici della Fiom che scioperano oggi sono ossessionati da quegli stessi vili desideri che lei disprezza tanto: una casa grande, piena di oggetti tecnologicamente evoluti, le stesse auto costose che producono, viaggi, cibo, vino. Ricchezza, nella forma più varia. Mi creda, persino la Camusso non sciopera per una vita più autentica. Non difenderebbe altrimenti degli impiegati dell’industria automobilistica, non trova?
@Averroè
Magari se leggesse quel che scrivo, questo colloquio sarebbe più proficuo, non trova?
Dunque, mi dica dove ho detto che deve vincere il localismo. Al contrario, le mie motivazioni contro il TAV sono di carattere politico generale, ed anche corredate da riflessioni di carattere tecnico.
Nel leggere ciò che lei scrive a proposito del TAV, vedo che lei è completamente prigioniero dell’ideologia della crescita ininterrotta del PIL*, e le facevo notare che lei non solo è antidemocratico, ma addirittura è antipolitico, cioè ipotizza un automatismo tecnico di assunzione delle decisioni. Non posso quindi esimermi dal farlo notare perchè trovo che questo processo in atto nel mondo occidentale, e di conseguenza in tutto il mondo, porterà l’umanità a rendere questo pianeta inospitale alla nostra specie.
I nostri atteggiamenti spontanei in sè non indicano la direzione giusta delle nostre decisioni, la storia dell’umanità è un continuo processo di autoeducazione,e solo oggi, proprio in omaggio a questa ideologia occidentale distruttiva si ritiene che quanto è spontaneo sia automaticamente anche giusto.
Per esemplficare, i Masai preferiscono soffrire la fame piuttosto che uccidere le prede se verificano che in quel periodo sono poche e potrebbero estinguersi. Se i Masai riescono a resistere alla fame, non potrebbero allo stesso modo gli occidentali rinunciare a qualcosina?
Io credo di sì, credo che l’accentuazione dei consumi sia indotta e tutto deriva dal meccanismo capitalistico che è incompatibile con un’economia stazionaria. Tutto quindi dovrebbe partire dal mettere in forse il meccanismo capitalistico, e invece c’è chi, come lei, assume quel punto di vista come l’unico accettabile.
*Non è vero che ogni ricchezza è deperibile, il denaro ad esempio non lo è, ed il grado di deperibilità delle merci è ampiamente differenziato.
@Cucinotta
Quindi la soluzione a tutti i mali della politica è la teoria del buon selvaggio? Chapeau! E la democrazia sarebbe questa miscela tra spirito reazionario, neo-apocalittica ecologista, esotismo da colportage che nega i più elementari dati dell’etnografia otto e novecentesca? Vedo che la sinistra italiana è davvero all’avanguardia! Ma mi spieghi, nella sua idea di società proporrà di sostituire i blog con dei segnali di fumo?
E che cosa significa Occidente? La Cina sta devastando l’Africa per acquisire materie prime. Brasile e India stanno facendo politiche economicamente molto più aggressive di quelle “occidentali”. Teheran rivendica il diritto al medesimo approvvigionamento energetico di qualsiasi altro stato “occidentale”. Se l’Italia o l’Europa inizia a vivere come i Masai o qualche altra popolazione con cui lei solletica la sua immaginazione, subirà le loro stesse conseguenze: si estinguerà nel giro di qualche decennio e queste terre si copriranno di resorts turistici per giovani rampanti provenienti da paesi “orientali”.
Una precisazione: forse sono antidemocratico, ma credo di più a Marx o alle teorie economiche che a questa forma di neo-francescanesimo nostalgico e un po’ new age.
Infine, mi spiace contraddirla, ma il valore della moneta è estremamente deperibile. Mai sentito parlare di inflazione?
E i Masai, piccolo inconveniente, non sanno né scrivere né leggere. Alla lettera lei ci sta invitando a tornare tutti analfabeti. Grazie per le sue prospettive così autenticamente democratiche!
@Averroè
Le posso consigliare di calmarsi? Apparentemente, nella foga polemica non si accorge più di quanto abbia alzato la voce, e questo la rende incapace di capire cosa dice il suo interlocutore.
Cominciamo dalla fine.
Se lei avesse un minimo atteggiamento dialogico, capirebbe che se io richiamo i Masai, è per esigenza esemplificatrice (l’ho anche esplicitamente scritto…). Cosa c’entra ora se sappiano leggere e scrivere, dove avrebbe letto che propongo di aderire alla cultura Masai? Eppure glielo dissi, mi legga se vuole dialogare con me, altrimenti mi pare complicato.
Invece all’inizio, ritorna alla teoria del selvaggio: lo vede che lei misura il grado di civiltà dalla prossimità al nostro specifico modello culturale? Prima si giustificava con una presunta esigenza umoristica, ma alla fine la verità viene a galla, lei è il riferimento di giudizio del mondo intero. Se a lei va bene, continui pure così, un’autoreferenzialità al 100%, complimenti.
Il denaro è deperibile perchè c’è l’inflazione? Certo che lei usa il termine “deperimento” in modo stravagante, non c’è che dire.
Infine, se lei non comprende, magari per carenza di attenzione, cosa le viene detto, sarebbe preferibile che non tranciasse giudizi affrettati sulle tesi dei suoi interlocutori, che nel caso specifico non sono nè new age, nè di neo-francescanesimo, sono solo realista, mi rendo conto, anche sulla base delle mie coscenze scientifiche, che le risorse della terra sono tutte limitate, anche l’aria e l’acqua. Ciò è alla base di una nuova branca della scienza, l’ecologia, ne ha mai sentito parlare per caso?
Mi spiace che lei pensi che fare ironia significhi alzar la voce. Provo a restare terra terra stavolta e a parafrasare tutto al livello più letterale possibile:
1) Le contestavo giustamente la pertinenza del suo esempio: raccontare (a partire da testimoni occidentali) cosa sembrano fare alcune popolazioni prive di scrittura non mi sembra molto utile per immaginare il futuro di nazioni appena usciti da un conflitto che ha coinvolto (e sconvolto) tutto il cosmo. E mi auguro che i nostri governanti non prendano mai simili esempi per immaginare il nostro futuro.
2) Come forse lei stesso sa, le sue tirate contro l’autoreferenzialità sono un tipico prodotto della cultura occidentale postmoderna: è un discorso nato e sviluppatosi nell’ultimo quarto del secolo scorso e diventato ora mainstream nelle facoltà umanistiche americane. Quando lei mi dà dell’occidentale, sta utilizzando parole, termini, opinioni prodotte dall’Occidente per pensare se stesso.
3) Io non misuro il grado di civiltà, ma sarei più cauto a parlare di “Occidente”, “civiltà” ecc. Non credo che ci si possa muovere tra modelli culturali come tra prodotti di bellezza in un supermercato. Una cultura non è una veste e non si può certo dire, basta ora mi metto quest’altra cosa. Che lo voglia o meno, anche lei è un occidentale.
4) Sulla deperibilità ha capito benissimo cosa voglio dire. Dopo la fine del sistema di Bretton Wood il valore del denaro è costantemente fluttuante, e un governo deve preoccuparsi costantemente di come creare e produrre nuovo valore.
5) Si figuri che le risorse della terra siano limitate lo diceva persino la teologia cristiana. E lo dice anche l’economia. E quanto volevo suggerirle è il fatto che se improvvisamente una nazione pretende di usarne di meno, ci sarà sempre una seconda nazione che si approprierà di tutto il resto.
6) A me sembra che sia molto più occidentale e antidemocratico pensare che ora che l’Occidente si è divertito, tutte le altre nazioni debbano fare una dieta di energia, di beni e di lusso. Ci sono molti altri paesi “non occidentali” che hanno raggiunto (o vogliono raggiungere) un grado di sviluppo economico pari a quello “occidentale”. E non si può impedir loro di farlo. Anche perché non è l’Occidente ad averglielo chiesto.
6) Ho più di una difficoltà a capire come si possa parlare di decrescita e di Masai rispondendo ad un blog con il proprio PC o Laptop. Vuole che smettiamo di usare l’elettricità? Vuole tornare all’uso delle candele la notte? Benissimo, ma non pretenda che tutti non desiderino altro. E non insulti come “occidentali” “antidemocratici” “antipolitici” coloro che desiderano qualcosa che rende oggettivamente la vita più bella. O per lo meno non si lamenti se poi qualcuno le risponde a tono.
Caro Cucinotta,
non replicherò punto per punto alle sue critiche, perché non ho da dire molto di più di quello che ho già scritto, quindi credo che basti ai lettori confrontare i miei punti e le sue risposte.
Caro “Averroè”,
la mia idea di una democrazia liberale che garantisca una certa giustizia, anche sul terreno sociale, non è affatto minimalista.
Parlando di giustizia, non intendo l’amministrazione della giustizia, cioè semplicemente il giudiziario, ma l’idea di giustizia in generale, riferita a tutti i piani che può toccare: i diritti fondamentali, i diritti politici, l’eguaglianza delle opportunità, la redistribuzione della ricchezza, ecc. Il problema è come garantire queste cose in una democrazia rappresentativa e dentro un’economia di mercato (limitandola). “Vaste programme”, direi piuttosto.
Detto questo, lei obbietta che lo scopo di un governo non è garantire la giustizia ma realizzare certi obbiettivi che la società si pone, cioè in effetti governare. Questo è innegabile. Ma il problema politico si pone perché le decisioni si prendono sempre in condizioni di scarsità, più o meno moderata, e quindi le persone sono toccate dalle decisioni in modo differenziato, o traendone vantaggio o subendone dei danni. Inoltre, l’ordine sociale è fondato anche su rapporti di dominio, per esempio di classe, che rendono inevitabili le ricadute ingiuste delle decisioni politiche.
In sintesi: qualsiasi decisione implica problemi di giustizia. Se vogliamo semplificare, possiamo anche dire che il fine del governo di una società non è il mantenimento della giustizia, ma la realizzazione di certi obbiettivi (per esempio, dice lei, crescita, benessere, ecc.). Anche messa in questi termini, i problemi di giustizia sono inevitabili. Primo, perché in generale se si prendessero decisioni sempre ingiuste l’ordine sociale a un certo punto salterebbe (tensioni, conflitti, ecc.), quindi lo stesso obbiettivo dell’efficienza non verrebbe raggiunto. Secondo, e più importante, perché ogni società ha dei principi di legittimazione del potere politico, e nella modernità la legittimazione del potere politico si regge sull’eguaglianza dei cittadini e sulla loro libertà individuale. La base di legittimazione di una società definisce non solo la cornice di giustizia in cui si collocano i fini che la società si pone, ma anche una parte di questi fini: se l’eguaglianza è un fondamento della nostra società politica, la nostra politica non può non avere tra i suoi fini anche quello di creare e promuovere le condizioni dell’eguaglianza (per esempio con l’istruzione, con le pari opportunità, con i diritti civili, con la redistribuzione della ricchezza, ecc.).
E qui si viene al fatto che inevitabilmente un progetto politico di sinistra (e non solo, secondo me) deve passare per la questione della rappresentanza, non solo per un progetto di modernizzazione tecnica ed economica: i cittadini devono poter mantenere il loro status, e questo è possibile se la rappresentanza politica funziona. Inoltre, il governo non può governare senza tenere conto della rappresentanza delle realtà politiche e sociali: altrimenti si apre la strada a qualsiasi forma di autocrazia. E’ vero che un governo deve essere capace di mettere un interesse generale al di sopra della pressione dei gruppi; ma questo deve essere reso possibile correggendo il funzionamento delle istituzioni, e il rapporto tra istituzioni e società, non affidandosi a un governo che decide passando sopra la testa di tutti. Sarebbe totalmente arbitrario. Non bisogna confondere la rappresentanza politica e sociale con il sistema di pluralismo degli interessi, cioè di rappresentanza di gruppi, che caratterizza la storia d’Italia.
@Averroè
Guardi che io non ho mai detto di non essere anch’io del tutto immerso nella cultura occidentale, anzi è proprio perchè ne sto all’interno che mi rendo conto delle dinamiche che c’hanno portato alla situazione in cui ci troviamo. Aggiungerò che il mio modo, che potremmo definire critico, di partecipare alla cultura a cui appartengo da quando succhiavo il latte dalle mammelle di mia madre, mi pare l’unico modo utile, forse perfino necessario. Lei invece, mi pare interpreta il suo essere parte di tale cultura come il napoletano che tifa per la squadra di calcio Napoli, lì è nato e lì è così che ci si comporta. Mi permetta di obiettare a un tale atteggiamento di adesione acritica che non fa i conti con tutti i disastri che la nostra civiltà ha causato.
Lei si spinge addirittura fino al punto di escludere che noi si possa apprendere da altre civiltà, e questo lo trovo gravissimo.
In realtà, la chiudo qui perchè è evidente che lei non è, dal mio personale punto di vista, una persona interessante, ripete il mantra dell’inevitabilità del pensiero occidentale, e perchè non vi sia qualcuno che possa minimamente mettere in dubbio le sue certezze, non esita minimamente a ridicolizzare le posizioni altrui facendo dire ai suoi intelrocutori cose che essi non si sono neanche sognati di dire, come la rinuncia all’uso dell’elettricità, opinione che mi attribuiva non si sa a partire da quale mia affermazione.
Se lei per tentare di non soccombere in una discussione deve farmi dire cose evidentemente ridicole e che ovviamente non mi sogno neanche lontanamente di pensare, di scambiare l’esigenza di un’attenzione ad un uso più oculato delle risorse ed ad uno stile di vita più sobrio, come il proporre di tornare ad abitare le caverne, evidentemente è a corto di argomentazioni, e vedrò di dedicare le mie risorse intellettuali in direzioni più produttive. Addio.
la fiom di Maurizio Landini è diventato un punto di coagulo del malessere sociale che il governo Monti-Fornero con l’appoggio di Napolitano stanno dispensando a piene mani sulle classi subalterne, la stessa trattativa sul neo-riformismo del mondo del lavoro né è l’esempio più eclatante, quando il padrone comincia a definire i tempi della trattativa e questo viene accettato già si sa come la “trattativa” finisce.
Il cuore è l’eliminazione dell’articolo 18 e cioè il padrone può licenziare chiunque e quando vuole.
Il No-Tav è l’altro punto di coagulo che da territoriale e locale, grazie alla resistenza, alle capacità e alle competenze che il movimento è riuscito ad esprimere, è diventato nazionale e generale, dove si raccoglie il modo di opporsi alle autorità facendo risaltare la palese inutilità, il costo e il degrado ambientale della “non opera”.
La manifestazione è stata la saldatura fra questi due punti di coagulo. Quello che avverrà nessuno lo sa, ma è il punto di partenza, per un’opposizione consapevole e di classe.
questo scrivevo al bel articolo di Antonio Catalano sul sito Comunismo e Comunità del 10 marzo.
Vorrei solo aggiungere che il terzo punto di coagulo è la lotta alle mafie che viaggia ancora, spero per poco, indipendente e separata, dallo sposalizio iniziato tra i No-Tav e la Fiom di Maurizio Landini.
Mafie che hanno tre regioni saldamente in loro potere: Sicilia, Calabria e Campania, in cui nulla si muove se loro non vogliono e a macchia di leopardo, ma ben posizionate in Piemonte, Liguria, lombardia, Veneto e Lazio, per non rinunciare a elencare le altre regioni italiane. e il Monti-Fornero non ci vengano a dire che la crescita ci potrà essere con le mafie dentro casa, solo con l’abbattimento dell’articolo 18.
@Piras
Mi scusi, ma a me sembra ancora che la sua riduzione del progetto politico al solo problema della giustizia e dell’uguaglianza sia estremamente minimalista. In primo luogo perché, rifacendosi alla tradizione liberale americana, sembra dare già per scontato che lo stato e il pubblico debbano concentrarsi solo sul tema della giustizia e non si occupi in nessun modo, per esempio, dell’amministrazione costruttiva e creativa dell’economia, dello spazio, del cosmo, se non nella misura in cui si creano ingiustizie o patologie sociali legate alla mancata eguaglianza.
Non so se «i problemi di giustizia sono inevitabili» (mi sembra un po’ esagerato francamente). E’ sicuramente vero, invece, che «la nostra politica non può non avere tra i suoi fini anche quello di creare e promuovere le condizioni dell’eguaglianza». Ma non si può farne gli unici ed esclusivi obiettivi di un programma di governo. Anche perché governo non è un ente puramente morale, almeno non nella modernità
Sono due, mi sembra i problemi di questa forma di riduzionismo:
1) Il rischio di cadere in una forma di umanesimo consolatorio e pieno di buoni sentimenti. Uno stato non è solo una collezione di uomini che aspirano alla giustizia o producono al contrario ingiustizia. E’ innanzitutto e per lo più una collezione di elementi, territori, energie, spazi, menti ecc. Ed è anche un sistema di produzione di oggetti, di spazi, di energie, di elementi che sono moralmente e giuridicamente neutri, nel senso che non producono in nessun modo giustizia ed ingiustizia. Questa collezione chiede di essere usata per fare qualcosa, e quello che è in questione nel loro uso non è sempre e solo la giustizia. Una prospettiva come la sua tende a rendere politicamente del tutto insignificante una sfera vastissima dell’esistenza collettiva, e trasforma la politica in una Supermorale che deve ricondurre qualsiasi evento ad un’idea astratta di Bene o di Male.
2) La vita collettiva, come quella individuale, è fatto soprattutto di realtà e fenomeni che possono o meno essere prodotti e che non hanno necessariamente a che vedere con la giustizia. Anche nella vita individuale è così: non si decide se andare al cinema chiedendosi se è giusto o sbagliato; non si decide cosa poter cucinare la sera pensando che è qualcosa di moralmente conveniente. Allo stesso modo è un po’ riduttivo, mi sembra, pensare che le decisioni sulla vita collettiva debbano sempre essere prese avendo di mira l’uguaglianza e la giustizia. Se il pensiero politico smette di prendere in considerazione la sfera vastissima di ciò che è moralmente indifferente perde, letteralmente, ogni senso; se la riconduce sempre e solo alla giustizia e di uguaglianza, rischia di trasformarsi in un esercizio un po’ pretesco di moralizzazione perpetua.
Possibile che il pensiero politico non riesca a prendere sul serio il problema del piacere collettivo per esempio e stia tutto il tempo a flagellarsi sulla questione dei torti e delle disuguaglianze? Non è un fatto da poco: perché è una prospettiva che impedisce di considerare come fatti politici (o rilevanti politicamente) tutta una serie di fenomeni che vengono snobbati dalla “filosofia politica” delle accademie
SUGLI ULTIMI COMMENTI A QUESTO POST
@ Piras
«Qui si tratta di vedere se questo problema di rappresentanza si può affrontare, o se le istituzioni rappresentative portano il male in sé, come dice Ennio Abate o suggerisce Cucinotta».
Non è un bel riassunto né della mia posizione né di quella di Cucinotta (che ha detto o dirà per sé).
Preciso allora il mio pensiero: QUESTE istituzioni, a cui lei affida le sue speranze di rinnovamento, sono state da decenni svuotate di senso politico, non sono affatto RAPPRESENTATIVE (dei conflitti sociali e politici reali), ma piuttosto uno scenario di cartapesta. È fuori scena che avvengono, e in maniera niente affatto trasparente e democratica, le contese reali. Nel caso della TAV a duellare vedo lobby, bande, mafie o altri gruppi di pressione meglio piazzati ai posti di comando o d’arrembaggio (nello Stato e fuori di esso).
Se QUESTE istituzioni fossero state davvero RAPPRESENTATIVE, almeno un referendum l’avrebbero fatto fare. E il movimento NO TAV non sarebbe oggetto di disprezzo, demonizzazione, intimidazione; né sarebbe costretto a far sentire ormai le sue ragioni quasi esclusivamente sulle piazze o sulle autostrade della Val Sesia. E, infine, i RAPPRESENTANTI ufficiali e riconosciuti di QUESTE istituzioni non lo accompagnerebbero come stanno facendo, con mosse astute e subdole, a un bivio dove la scelta è tra sottomissione e repressione.
Tra l’altro lei stesso ha scritto:
« Io penso che le istituzioni rappresentative abbiano in sé il male quando non funziona più il rapporto tra la politica e la società civile in tutti i suoi aspetti: quando non c’è apertura e ricambio dei quadri dirigenti, quando non c’è capacità di progetto politico, e quando, dall’altro lato, non c’è partecipazione».
Ma non riconosce che il «modello di democrazia in cui le istituzioni rappresentative o sociali siano in tensione con movimenti che premono su di esse dal basso» non funziona o non ha funzionato.
Il suo modello resta cioè un modello. O una semplice aspirazione. Più maliziosamente potrei dire che resta un mutandone ideologico per coprire le pudenda della democrazia italiana, simile a quelli che furono imposti ai nudi michelangioleschi della Cappella Sistina.
Come si fa allora ad accettare QUESTE ISTITUZIONI, QUESTA DEMOCRAZIA, se la voce non è stata affatto garantita «a tutti»? Come si può parlare di «logica della maggioranza», quando vengono imposti interessi particolari, privati, di gruppi economici e politici forti, che numericamente maggioranza non sono?
Come non vedere che tali gruppi, manipolando e corrompendo, si costruiscono delle maggioranze fittizie, più o meno “popolari” a sostegno dei loro interessi di minoranze prepotenti? Denunciare queste prepotenze e omissioni significa essere antidemocratici? Non mi pare. O significa essere violenti? Ma non vede che il progetto TAV è in sé un atto non di forza ma di prepotenza violenta, perché almeno un atto di forza può essere legittimato dalla ragione e da una necessità vitale. Mentre qui una legittimazione piena, convincente, scientificamente razionale di una sia pur indispensabile atto di forza, manca. E non viene né dalla popolazione, che non s’intende o non s’intenderebbe di certi aspetti complessi della questione, ma neppure dai tecnici, dagli studiosi, dagli “informati”.
@Averroè
Il suo realismo è di segno opposto al mio: lei sta senza tentennamenti coi più forti, è un intellettuale organico allo Stato; io, anche se non nego i limiti del movimento NOTAV, sto dalla loro parte («dalla parte del torto»). Concordo solo su tre punti del suo discorso:
1. esiste l’«assoluta mancanza di un progetto politico e di governo» da parte dell’attuale opposizione sia della sinistra parlamentare che dei numerosi gruppuscoli di protesta, da New York alla val di Susa»;
2. molti che si oppongono oggi alle scelte neoliberiste lo fanno da posizioni ambiguamente paternalistiche (di chi vuole «convincere chi si sente tagliato fuori», magari solo per fargli ingoiare consenziente il rospo) o pauperistiche (non sono però le mie, come lei disinvoltamente scrive, e andrebbero comunque spiegate e crticate e non enfatizzate o soltanto schernite);
3. è vero, da Machiavelli in poi, che il governo o lo Stato «non è un ente puramente morale, almeno non nella modernità»;
Non concordo assolutamente sul pilastro teorico su cui lei s’appoggia per dare addosso ai NOTAV: lo Stato moderno di cui lei fa l’apologia, non è neutro, oggettivo, imparziale (e non è neppure più tanto nazionale, come lei pretende). Le manca Marx tra i suoi studi o se n’è disfatto, non so. Per me resta una macchina al servizio soprattutto di affaristi, potenti lobby (e mafie).
È vero lo Stato non decide «avendo di mira l’uguaglianza e la giustizia» (pur se questo dichiara nella sua Costituzione). E neppure mira solo a una tecnica e neutra “efficienza”. Tende, invece, con le sue scelte a-morali, a consolidare rapporti di forza (interni e internazionali) che danno stabilità e maggiore dominio esclusivamente alle forze politiche e sociali in esso egemoni. (Consiglierei un post di LPLC per capire quali siano oggi le forze che stanno dietro al governo Monti e valutare quanto siano “nazionali” o “europee”).
Sta di fatto che tali forze fanno scelte che danneggiano alcuni (classi o gruppi sociali) e avvantaggiano altri. E possono anche illudersi (come lei fa) di potersi sottrarre a una valutazione di giustizia o ingiustizia. Alcune delle loro scelte saranno vissute comunque come ingiuste e diseguali da chi le dovrà sopportare. E non è una questione irrilevante, anche se la prepotenza per ora ( e forse a lungo o addirittura per sempre) riesce a tamponare l’effetto negativo, che non può mancare. In particolari situazioni storiche (non questa purtroppo), quando vari fattori spesso imponderabili creano una miscela esplosiva, questi regimi autoritari saltano. Mi pare, dunque, che su questo punto abbia ragione Piras: «i problemi di giustizia sono inevitabili», anche se non sono gli unici o quelli prioritari da un punto di vista strettamente politico. Comunque, non vedo perché le vittime di certe scelte dello Stato – presentate come giuste o ingiuste o semplicemente come “tecniche” – debbano subirle in nome della “volontà generale” o “nazionale”.
Detto questo, aggiungo altre considerazioni più generali rivolte anche ai (pochi qui) sostenitori dei NO TAV.
Non basta sentirsi vittime di un’ingiustizia, incazzarsi, scontrarsi con la polizia a una manifestazione. Non basta lo scontento, la ribellione. Non basta un movimento eterogeneo aggregatosi soltanto e soprattutto sul NO e che non riesce ad avanzare oltre questo no (un po’ anche come la Fiom di Landini).
Ci vuole una “visione del mondo”, un progetto politico, un’opposizione che sappia dire un suo SI’ e perseguire un suo Scopo da contrapporre a quelli emergenziali e “tecnici” di uno Stato ridotto, questo sì, ad armata Brancaleone dei più prepotenti.
Oggi in effetti non c’è.
Ma gli intellettuali (se ancora esistono) davanti ad una realtà del genere che fanno? Danno addosso ai “luddisti” e sostengono la solita modernizzazione capitalistica?
La discussione in questo post ha dimostrato la difficoltà e la miseria del pensiero politico e critico in cui ci dibattiamo.
O abbiamo la posizione di Piras, che aderisce al progetto TAV e al governo Monti, si dispiace per l’opposizione “cieca” dei NO TAV, vorrebbe più dialogo per convincerli; e ripropone un progetto che definirei “postgobettiano” riducendosi a fare la predica al PD o a una inesistente sinistra, credendo di trovarvi ancora una sponda per una visione egualitaria o più egualitaria, che è invece stata del tutto svuotata sia dai processi di globalizazione sia dalla risposta suicida che quella stessa sinistra (non solo italiana) ha dato alla crisi, disfacendosi del suo patrimonio teorico e culturale scoloritamente classista per diventare arlecchinescamente neoliberista.
O abbiamo la posizione di Averroè, che è per una scelta statalista autoritaria. E giudica carta straccia la ancora (formalmente) vigente Costituzione e ogni « forma di umanesimo consolatorio e pieno di buoni sentimenti», muovendosi col vento in poppa verso l’utopismo capitalistico, che è l’altro volto dell’ utopismo pauperistico (o della decrescita).
O abbiamo la posizione di Cucinotta, che pur difendendo i NOTAV, lo fa – mi permetto di dirlo sinceramente e con rispetto – con attese quasi millenaristiche. Una resistenza onorevole non può di per sé colmare il vuoto di strategia politica creatosi con il crollo della sinistra e del comunismo. Quando scrive « Se i Masai riescono a resistere alla fame, non potrebbero allo stesso modo gli occidentali rinunciare a qualcosina?» rischia di fare il predicatore. Solo se i Masai fossero in grado di contrastare i dominatori del mondo d’oggi la loro cultura e il loro stile di vita potrebbe diventare un modello accettabile per i “consumatori” coatti o convinti del mondo occidentale.
Se solo un miracolo potrà strappare una resistenza come quella dei NO TAV (o dei metalmeccanici) al suo probabile destino di sconfitta, non vedo perché i superstiti intellettuali capaci di critica debbano dare addosso a questi “ultimi mohicani” e schierarsi coi prepotenti.
Leggo l’ultimo post di Rino Genovese dedicato al concetto sartriano di impegno
(che non tanto inspiegabilmente è passato sotto silenzio!). E pur dubitando della sua tesi di fondo
(«non c’è il progresso ma solo dei progressi a partire da situazioni date»)
, concordo almeno con il suo appello a «uno spirito critico applicato alla politica e alla storia».
Ma che sia davvero critico dei potenti e non di chi tenta come può di resistere o di ribellarsi.
Concludo perciò così: cari intellettuali statalisti, saremo anche pochi eretici da bruciare,
ma non riuscirete a convincerci/mi che il Progresso (capitalistico)
che verrà imposto ai “luddisti” o “aborigeni” della Val di Susa non sia violenza
ben più conservatrice e regressiva di quella di chi con armi impari tenta di resistervi.
Vincerete, perché vi appoggerete ai più forti e prepotenti del momento, ma la ragione non sarà dalla vostra parte.
E chissà, un domani…
@Abate
Ennio, è scorrettissimo che tu etichetti chiunque esprima perplessità sul movimento No Tav come pezzo di M traditore della classe e dalla parte delle istituzioni oppressive.
Le Istituzioni in Italia fanno abbastanza schifo, Ennio, tutti d’accordo. Ma secondo me fanno meno schifo degli italiani che rappresentano, compresi quelli che contestano senza avere quella che tu chiami una visione alternativa del mondo. Però su questo, dall’alto della tua purezza rivoluzionaria, una domanda bisognerebbe tu te la facessi: se neanche chi contesta con così tanta forza mette in campo una visione alternativa del mondo, non sarà che essa è impossibile se non esce dal cilindro delle grandi forze che il mondo lo tengono per le palle? Non è sempre stato così? Le rivoluzioni moderne (non le rivolte straccione) non sono state il frutto di elaborazioni politiche e culturali effettuate in oscuri laboratori per decenni, se non per secoli, spesso a prezzo della vita, da parte di componenti delle avanguardie aristocratiche e borghesi?
Sul referendum a me risulta che neanche i No Tav lo hanno mai proposto (del resto sarebbe costituzionalmente discutibile, perché si tratterebbe di abolire un trattato internazionale); in ogni caso si dice che sappiano di perderlo alla grande… In Germania, precisamente a Stoccarda, dove gli ecologisti, proprio in nome del no all’opera legata alla Tav avevano conquistato alle elezioni la maggioranza relativa, pare abbiano fatto un referendum: a sorpresa ha vinto il sì.
Lasciami anche dire che se si fosse in regime classista comunista – quello di cui tu pari avere nostalgia, abbastanza sciaguratamente – in nome degli interessi della collettività si eliminerebbe la montagna del tutto, altro che farci un buco…
Se poi il tuo nemico è la modernità, come fa intendere il tuo sarcasmo verso la ” solita modernizzazione capitalistica “, direi che sono fiero di non pensarla come te, anche se ciò mi qualifica non solo ai tuoi occhi come infingardo sostenitore delle politiche neoliberiste. Delle quali, detto una volta per tutte, io personalmente sono vittima, intendo dire nella vita materiale; ma non quanto sarei vittima di processi politici classisti e neocomunisti più favorevoli ai tuoi soddisfacimenti intellettuali.
Insomma, Ennio, io sarei il primo a contestare la società economicista nella quale viviamo, ma non per allargare l’area dei privilegi e restringere l’ingresso alla società a maree sempre crescenti di esclusi (che di fatto, inspiegabilmente, fanno gli esclusi individualisti, ognuno a modo loro… Mettiamo i precari, che sono milioni: perché non scioperano?). Quella della Val di Susa, secondo me, è una rivolta di inclusi, di benestanti che non vogliono si metta in discussione la loro sicurezza, se non ricchezza. In questo senso è reazionaria assai di più del governo neoliberista che tenta di rimettere in discussione i privilegi (anche se, sappiamo tutti, non lo farà nella necessaria misura).
Ti lascio con una riflessione sulla mancanza di buon senso degli italiani. Come sai vivo in Firenze. Ebbene, anche qui c’è una questione Tav, con due progetti in campo: uno di superficie e poco invasivo che costa duecento milioni; uno sotterraneo e assolutamente fuori controllo dal punto di vista geologico che costa almeno 5 volte tanto. Secondo te quale si sta facendo, senza che nessuno protesti? Il mio sospetto è che per mantenere il potere si deve mantenere o accrescere il consenso, ciò che avviene principalmente attraverso l’autorizzazione di spesa pubblica diciamo così fuori programma (le disastrate casse non consentono altro, né ai comuni né allo Stato). In Firenze si tratta della carriera di un ambizioso sindaco, forse di un ambizioso governatore (il primo è un coglione, la cui ultima decisione è il cimitero dei feti… ma il secondo è bravo). Per la questione Tav Torino Lione si tratta di un’intera classe politica, che difficilmente si farà disintegrare da valsusini, grillini e sellini.
Questa vicenda della citazione dei Masai, viste le reazioni che ha suscitato, con mia grande sorpresa devo dire, richiede che ci ritorni brevemente.
Se nel corso di un’argomentazione si cita un comportamento di altri uomini, che questo sono i Masai, sono uomini come noi e come gli europei, non sono mica un’altra specie animale, ciò non significa nè può essere considerato come l’adesione al loro modello di civiltà. Sembra un’ovvietà, ma dal decorso della discussione mi trovo costretto a precisarlo.
Aggiungerò, malgrado l’inevitabile allargarsi della discussione aldilà dei limiti che mi ero prefissato, che uso questo argomento a supporto della tesi che anche le teorie politiche non possano prescindere da un certo modello antropologico, e che il modello antropologico liberale sia troppo grossolano, del tutto inadeguato a descrivere l’uomo come effettivamente è. Se vogliamo quindi capire meglio la natura di noi uomini, converrà distanziarsi di più, usare uno guardo più da lontano in modo da minimizzare le influenze culturali.
La mia distinta impressione è che vorremmo parlare dell’uomo e finiamo per parlare dell’uomo occidentale, cioè di un uomo immerso in uno specifico tipo di cultura, e finiamo col commettere l’errore grossolano di scambiare una determinata specifica cultura per una caratteristica inevitabile dell’uomo, ciò che si usa designare col termine natura umana.
Caro Abate, non pensa che possa essere un giudizio un po’ affrettato darmi del predicatore? Dopo tutto, io ho fatto, analogamente a lei, la scelta di metterci la faccia con nome e cognome, tengo un blog ormai da più di tre anni, e se ci si da’ minimamente la pena, si può vedere che ho anche scritto un libro, che, tengo a precisarlo, non è un libro di prediche, ma di politica. Naturalmente, può piacere o può non piacere, nè pretendo che le mie considerazioni vengano condivise, ma a chi giova ridicolizzarle a livello di predica?
@ Massino
Se rileggi bene ho usato etichette non sono quelle moralistiche e stravolte che tu mi attribuisci. Non ho parlato di «pezzo di M traditore della classe», né di «infingardo sostenitore delle politiche neoliberiste». Le uniche etichette che ho usato sono, pur nel dissenso, del tutto rispettose verso i miei interlocutori: « progetto che definirei “postgobettiano” » per Piras; « scelta statalista autoritaria» per Averroè; « attese quasi millenaristiche» per Cucinotta. Queste tue “traduzioni”, comprese quelle (intiutive? Rabdomantiche?) di attribuirmi «nostalgia» per un «regime classista comunista» o di presentarmi come nemico della «modernità», mentre io ho parlato di «modernizzazione capitalistica» e ho sempre visto nella storia moderna tensioni contrapposte ( i Babeuf, i Buonarroti, i Mazzini, i Pisacane pensavano a ben altra modernità dei termidoriani, di Cavour ed altri) sono dunque non solo troppo“libere” ma sbagliate. Né ho esibito un qualsiasi distintivo di «purezza rivoluzionaria. Siamo in epoca post-rivoluzionaria e la mia chiusa («E chissà, un domani…») mi pare eloquente.
Ho scritto io ( e non tu): «Ci vuole una “visione del mondo”, un progetto politico, un’opposizione che sappia dire un suo SI’ e perseguire un suo Scopo da contrapporre a quelli emergenziali e “tecnici” di uno Stato ridotto, questo sì, ad armata Brancaleone dei più prepotenti. Oggi in effetti non c’è». Dichiarare però «impossibile» una visione alternativa del mondo mi pare prematuro. La storia e la realtà sono sempre piene di sorprese. Chi vivrà, vedrà. Noi fra non molto non ci saremo più e potremmo essere più calmi nel giudicare le cose.
Sul referendum resto convinto che, se i TAVISTI fossero stati sicuri di vincerlo, lo avrebbero fatto subito.
La questione vera che ho posto è però un’altra: gli intellettuali anche nella “postmodernità” debbono inevitabilmente stare coi più forti?
@ Cucinotta
Se vuole ritiro il “predicatore”, ma la sostanza dell’osservazione critica rimane: un progetto che non tiene conto dei rapporti sociali capitalistici dominanti e si affida solo alla sua desiderabilità o astratta razionalità fa i conti senza l’Oste (capitalista appunto, dominante appunto).
“L’uomo come effettivamente è” è quello storico, la cui natura è ormai del tutto trasformata e complicata: c’è quella dei Masai, c’è quella dei cinesi, c’è quella degli occidentali o dei metropolitani. C’è una compresenza di umani che vivono in tempi e contesti diversi. E sono in conflitto tra loro.
“La natura di noi uomini” qual è?
E’ possibile “minimizzare le influenze culturali”?
Per tornare a una “radice comune”?
Ma basta vedere quanto è difficile in questa discussione parlare dei valsusini senza disprezzo
e senza degradarli a barbari…
@Abate
Io mi sono mosso dalla distinzione che ovviamente non è dimostrabile, al massimo argomentabile, tra natura e cultura.
Capisco che lei possa non condividere questa impostazione, ma capisco meno, anzi ritengo incomprensibile dire che la cultura e la storia abbiano trasformato la natura dell’uomo, perchè dicendo così si distrugge quella distinzione dei due termini, che smettono così di svolgere una loro funzione. Mi parrebbe a questo punto più coerente da parte sua parlare di uomo in senso complessivo.
Ripeto, non è questa la mia visione, io credo profondamente all’utilità di distinguere una natura intesa perfino in senso genetico, dalle acquisizioni culturali, come sono certo che il mio DNA sia analogo a quello di un masai o di un cinese, ma per chi non crede che sia utile distinguerli, tanto vale non usarli del tutto.
Caro Cucinotta,
lei è sempre troppo risentito quando replica alle obiezioni altrui. Per quanto mi riguarda, se la contrasto su dei punti o pongo dei problemi, lo faccio per capire di più “sfruttando” anche le conoscenze altrui.
Io pure distinguo ancora natura e cultura ( e non dico che la storia abbia trasformato COMPLETAMENTE la natura dell’uomo – meglio: quello che nel dibattito filosofico è stato indicato con tale espressione). Tuttavia, dalla rivoluzione industriale in poi mi pare che le trasformazioni indotte dagli interventi umani sulla natura ( non dall’Uomo che è una troppo vaga astrazione) siano rilevanti (e anche preoccupanti). E che una parte ormai consistente degli abitanti di questo pianeta siano stati strappati più violentemente che meno a ritmi definibili “naturali”. E la cosa mi pare irreversibile. E le soluzioni andrebbero cercate nell’ambito di questa realtà “meno naturale”.
Da qui i problemi di cui stiamo discutendo.
Ma non vorrei dare a un post intitolato TAV: UNA CRISI POLITICA una piega di tipo filosofico-cosmico che ci porterebbe fuori strada e mi parrebbe un lusso.
@Abate
Ennio, famo a capisse… è vero che sono stato io a interpretare le tue parole. Ma tu fai di peggio che parlare di pezzi di M traditori della classe», o di «infingardi sostenitori delle politiche neoliberiste».” Tu dici che chi è perplesso di fronte alla protesta No Tav, o chi è favorevole all’opera, è un servo dello Stato (Borghese imperialista?). E lo fai adoperando parole assai confinanti con i discorsi politici più retrivi, reazionari se non eversivi, di sinistra e di destra. Le quali categorie politiche, destra e sinistra – che esistono ancora! -, ai loro estremi sono vicinissime, nel circolo politico: non te lo devo insegnare io, dato che credo tu abbia vissuto la faccenda sulla tua pelle, a cavallo tra i sessanta e i settanta. Comunque, tu, nell’intervento al quale mi sono riferito hai detto questo:
” Più maliziosamente potrei dire che resta un mutandone ideologico per coprire le pudenda della democrazia italiana, simile a quelli che furono imposti ai nudi michelangioleschi della Cappella Sistina “.
” lei sta senza tentennamenti coi più forti, è un intellettuale organico allo Stato ”
” Se solo un miracolo potrà strappare una resistenza come quella dei NO TAV (o dei metalmeccanici) al suo probabile destino di sconfitta, non vedo perché i superstiti intellettuali capaci di critica debbano dare addosso a questi “ultimi mohicani” e schierarsi coi prepotenti. ”
Senza dire, Ennio, che quanto segue, scritto da te, è espressione della dietrologia più oscurantista, quella che sta dietro ai ragionamenti eversivi o fintoistituzionali delle destre più volgari, non solo italiane, da Borghezio a Forza Nuova e oltre: ” (Consiglierei un post di LPLC per capire quali siano oggi le forze che stanno dietro al governo Monti e valutare quanto siano “nazionali” o “europee”).
Sta di fatto che tali forze fanno scelte che danneggiano alcuni (classi o gruppi sociali) e avvantaggiano altri. ”
Infatti concludi con parole che avrebbe potuto scrivere un qualunque sostenitore delle nuove destre, magari tinteggiate di anarchico, come Daniel Cohn-Bendit: ” Concludo perciò così: cari intellettuali statalisti, saremo anche pochi eretici da bruciare,
ma non riuscirete a convincerci/mi che il Progresso (capitalistico)
che verrà imposto ai “luddisti” o “aborigeni” della Val di Susa non sia violenza
ben più conservatrice e regressiva di quella di chi con armi impari tenta di resistervi.
Vincerete, perché vi appoggerete ai più forti e prepotenti del momento, ma la ragione non sarà dalla vostra parte.
E chissà, un domani… ”
Insomma, Ennio, l’epoca post rivoluzionaria che hai nella testa coincide con i discorsi degli ispiratori delle nuove destre (in sintesi meno Stato e più Popolo). Possibile tu non te ne renda conto? Prova a leggerti i documenti, anche sui siti ambigui come Don Chischiotte. Possibile tu non capisca che essere senza se e senza ma contro le istituzioni dello Stato, oggi, significa stare dalla parte dei nuovi autoritarismi, più o meno fascisti? Io credo invece che le istituzioni vadano difese, semmai riformate, soprattutto quelle giuridiche, che debbono essere patrimonio di tutti. Altrimenti i deboli che sembrano starti a cuore ci rimetteranno ancora di più. Senza contare che i deboli veri, ti ripeto, nel contesto politico italiano non sono i manifestanti della val di Susa, ma i disoccupati senza sussidio alcuno, i lavoratori precari, gli invalidi (quelli reali) che non sono abbastanza protetti, le donne che per essere assunte debbono firmare lettere di dimissioni in caso di maternità, la maternità stessa che è poco o zero tutelata, gli immigrati che diventano clandestini se perdono il lavoro, i figli degli immigrati che non hanno diritto pieno di cittadinanza fino alla maggiore età, i ragazzi ricattati da leggi sul possesso di droga assolutamente anacronistiche (leggi che li depotenziano delle loro naturali capacità espressive, anche in termini di rivolta…), i detenuti trattati peggio di animali, i ricercatori costretti a emigrare ecc
Capisci Ennio? Io in termini di ” chissà, un domani… ” vorrei si smettesse di fare solo battaglie perse in partenza, che si (ri)cominciasse a essere pragmatici, a usare l’energia politica prodotta dalla società in direzione di allargare la base dei diritti. Oppure si resta fermi per sempre al consolatorio indignarsi per i comportamenti e le decisioni dei governanti, etichettandoli come servi del capitale, lobbisti, corrotti e mafiosi… E si va in piazza a manifestare contro le minigonne… Ma così facendo, cosa si ottiene?
Da ciò che riesco a capire, Massino sarebbe un socialdemocratico alla D’Alema, che disprezza la stessa gente di cui pretende comunque di rappresentare gli interessi.
A parte gli aspetti paradossali di questa posizione, il primo presupposto per sostenerla è che essa funzioni.
Ebbene, ormai sono trent’anni che è in atto un processo di autodistruzione delle socialdemocrazie europee, capitolate davanti all’offensiva liberista, possibile che ci sia ancora qualcuno che non se ne sia accorto?
Oggi, questi residui politicanti di area socialdemocratica non trovano di meglio per giustificare ancora la loro azione politica che agitare lo spauracchio delle destre populiste.
Insomma, attaccare o difendere i rappresentanti non dipende da ciò che essi concretamente fanno, da quale specifica politica essi portino avanti, essi vanno difesi a prescindere, perchè comunque costituiscono un ceto migliore del popolino.
Tentiamo di capirci, se ancora è possibile svolgere un’argomentazione che pretenda di avere elementi di razionalità.
A premessa, sarebbe utile finirla di paragonare il popolo coi suoi rappresentanti, stabilendo chi sarebbe migliore e chi peggiore. Si tratta di un paragone improponibile, perchè chi si pone come rappresentante, pretende così di entrare a far parte della classe dirigente, ed è abbastanza ovvio che chi dirige deve essere migliore di chi viene diretto. Stare a rappresentare insomma, comporta degli obblighi, di mantenere certi standard di comportamento che non avrebbe senso pretendere dalla gente comune, credo che su una tale ovvietà si dovrebbe convenire.
Ancora, come dicevo rispondendo a Piras, non restiamo prigionieri dei termini destra/sinistra perchè, come si può leggere in qualunque testo di politica si tratta di definizioni imprecise, e nei fatti esistono più tipi di destre e di sinistre.
La destra concreta che domina il mondo è quella finanziaria, quella liberista che ha portato il mondo intero in una crisi economica gravissima, forse perfino più grave di quella storica del 1929. C’è qualcuno che si consideri davvero di sinistra, che possa difendere queste politiche liberiste agitando i pericoli di una destra fascista? Non è che si possa escludere che certe forme di destra possano rinascere, ma oggi non mi pare che costituiscano il pericolo più grave, il richiamare tali pericoli fa inevitabilmente sospettare che tale pericolo venga agitato in modo strumentale.
Se guardiamo alla realtà ad occhi bene aperti, ci rendiamo conto che le socialdemocrazie hanno finito di svolgere un loro ruolo, che di fronte al ritorno dei capitalisti alla loro costitutiva avidità, quella forma di compromesso che ha dominato soprattutto in Europa per pochi decenni non ha più spazio politico, così come le urgenze ambientali impongono di farla finita con scelte economiche basate sulla crescita ininterrotta e portano in primissimo piano il problema della distribuzione delle risorse.
Infine, non sono io che dico che le ricette socialdemocratiche sono fuori tempo massimo, sono fuori dall’attualità storica, ma sono gli stessi socialdemocratici: chi se non il socialdemocratico Napolitano ha consegnato le chiavi del potere a uno dei più autorevoli liberisti europei?
@ Massino
Lascia stare le etichette della sinistra (stalinista) d’antan («pezzi di M traditori della classe», «infingardi sostenitori delle politiche neoliberiste», «servo dello Stato»). Così non «famo a capisse» più facilmente. Imbottigli soltanto questa discussione per molti versi interessante in un ghetto gergale, appunto, che impedisce il confronto.
Lascia stare anche le categorie politiche, destra e sinistra. Valide si è no fino agli anni Settanta, oggi sono come minimo equivoche: segnali stradali che qualcuno o qualcosa si è divertito a invertire, spostare. Leggi infatti ‘sinistra’ e ti trovi sulle strade che una volta erano ‘di destra’ e viceversa.
Il mondo in cui ci ritroviamo dopo una cesura storica ancora tutta da capire (alcuni dei nostri padri hanno parlato di Restaurazione o di mutazione antropologica, ma ho l’impressione che siano stati pur essi approssimativi e comunque generici…) è caotico e non lineare-progressivo, né tranquillamente binario (destra-sinistra), come tu sembri credere.
Ma, libero di non disfarti di tali categorie, non si capisce perché le debba usare come una clava nei miei confronti adottando toni solo in apparenza amichevoli ma in sostanza moralistici, inquisitori e offensivi.
Che tu scriva qui in pubblico, che le considerazioni da me rivolte – in particolare a Piras e ad Averroè e non a te – siano «assai confinanti con i discorsi politici più retrivi, reazionari se non eversivi, di sinistra e di destra» o esempi della «dietrologia più oscurantista quella che sta dietro ai ragionamenti eversivi o fintoistituzionali delle destre più volgari, non solo italiane, da Borghezio a Forza Nuova e oltre» dimostra non la mia, ma la tua deriva e forse l’oscurità delle tue rimozioni. Tanto più che abbiamo intrattenuto una qualche corrispondenza privata e in post precedenti di LPLC siamo stati addirittura “alleati” contro certi “servizi d’ordine” che tu stesso qualificavi “di sinistra” pronti alla censura e alla demonizzazione dei commentatori critici).
E con questo ho chiuso. Non replicherò più se i tuoi toni saranno questi.
@Cucinotta
guardi, è ancora peggio di come la mette lei, in senso mi pare dispregiativo. Infatti io sarei liberale, se ciò fosse possibile: meno Stato, diritto anglosassone, mercato, concorrenza, merito, aiuto ai più deboli e quelle cose lì (lo welfare state lo ha introdotto Churchill, a me risulta; per non dire le 40 ore settimanali Hitler…). Ma pare non si possa esserlo, prima di tutto perché la gente il liberalismo rigoroso non lo vuole, perché, pare, quando ha un problema va cercando aiuto dai potenti, se trova… (peggio per tutti, ci tocca sopportare che lo Stato aiuti le banche, invece di ridurre le tasse, oggi insopportabili per chiunque).
Poi, detto tra me e lei, occuparsi di politica, in questo paese qua, è abbastanza inutile: decidono tutto nell’ombra, in quel coacervo di comitati d’affari, comitati elettorali, gruppi finanziari e industriali, gruppi editoriali, enti religiosi e parareligiosi, logge massoniche, correnti dei partiti e chi più ne ha più ne metta. La politica del parlamento è giusto per mantenere le apparenze, e per far coincidere l’inverosimile aumento di spesa pubblica degli ultimi 30 anni con i bisogni del paese (quando ciò è utile più che altro a chi ci lucra sopra, prima di tutto i gruppi finanziari e industriali, ben sostenuti dal sistema delle banche, dai loro giornali e dalle loro teste di ponte nei partiti e in parlamento). La spesa pubblica, Cucinotta lei lo sa bene perché è studioso che studia, è il vero cancro. Negli ultimi 11 anni, 9 dei quali con governi di centrodestra, è aumentata a un ritmo superiore a quanto avrebbe dovuto se si fossero tenuti stretti i cordoni della borsa (come deve fare la destra…). I termini sembra siano del 30%. In cifre reali vuol dire che lo Stato oggi spende almeno 100 miliardi in più di quanto dovrebbe se si fossero tenuti i conti in ordine, come faceva Prodi e come fece D’Alema, il mostro socialdemocratico D’Alema (ce ne fossero…), che proprio l’altro giorno ricordava che quando Prodi si dimise, 2008, su pressione di Veltroni l’Africano, lo spread era a 24… Insomma, se le destre avessero almeno tenuto i conti a posto oggi l’Italia sarebbe uno dei paesi più virtuosi del mondo, e ci sarebbero i soldi per investire in welfare e ricerca, che sono i due punti deboli (in Italia si brevetta poco, per essere un paese industriale; così come, per essere la culla dell’umanesimo e dell’arte, si investe pochissimo in produzione di pensiero e bellezza. In Italia, passando allo welfare, non esiste nessuna protezione per un adulto senza lavoro, si tratti di disoccupazione lunga, di precariato o di ritardato ingresso nel mondo del lavoro; come non esiste una vera protezione della maternità).
Per finire: in campo, a tutt’oggi, per limitarmi all’Italia, ci sono Berlusconi e Napolitano: chi dovrei scegliere, secondo lei? D’altra parte, il giorno in cui si aggiungesse l’opzione Vincenzo Cucinotta, mi permetta lo scherzo, sempre il pragmatico Napolitano sceglierei.
Cari amici,
ho avuto poco tempo in questi giorni, ma vorrei comunque rispondere alle ultime osservazioni a me rivolte.
Prima però faccio un invito a evitare di cadere nell’aggressività verbale nei vostri scambi.
Caro “Averroè”,
tutto sommato, se guardiamo bene, non siamo tanto in disaccordo: io non dico che la politica si debba occupare solo di giustizia, ma che inevitabilmente (su questo avverbio siamo in disaccordo, è vero) deve dare delle risposte a problemi di giustizia. Poi la politica avrà anche tante altre finalità, e meno male, altrimenti non ci sarebbe nessun progetto. In particolare, da quello che ho già scritto, mi trova particolarmente sensibile sul problema dello sviluppo.
Caro Ennio Abate,
forse ho forzato la sua posizione. Mi sembrava che lei dicesse che le istituzioni liberaldemocratiche in quanto tali sono il male. Se invece dice che “queste” sono sfasciate, corrotte, ecc., allora la cosa è diversa. Ma in questo caso io per ora non vedo altro modello (certo, il mio è un modello), se non queste corrette al meglio nel senso sociale. La differenza tra me e lei è qui, immagino.
Comunque, siccome mi sembra che stiamo un po’ tutti girando a vuoto sugli stessi temi, e causa anche la mancanza di tempo, non credo che riuscirò più a intervenire in questa discussione.
Me ne scuso e ringrazio tutti per gli interventi.
Un caro saluto,
mp
Necessaria rettifica: nel penultimo intervento ho fatto un grave errore, scrivendo Daniel Cohn-Bendit invece che Alain de Benoist.
SEGNALAZIONE
http://www.sinistrainrete.info/ecologia-e-ambiente/1969-salvatore-settis-la-tav-in-val-di-susa-e-le-new-town-dellaquila.html
La Tav in Val di Susa e le new town dell’Aquila
di Salvatore Settis
Brani scelti:
1. Che cos’hanno in comune la Tav in Val di Susa e le new towns berlusconiane che assediano L’Aquila dopo il terremoto? Che cosa unisce l’autostrada tirrenica e il “piano casa” che devasta le città? Finanziatori e appaltatori, banche e imprese sono spesso gli stessi, anche se amano cambiare etichetta creando raggruppamenti di imprese, controllate, partecipate, banche d’affari e d’investimento. E sempre gli stessi, non cessa di ricordarcelo Roberto Saviano, sono i canali per il riciclaggio del denaro sporco delle mafie. Ma queste lobbies, che senza tregua promuovono i propri affari, non mieterebbero tante vittorie senza la connivenza della politica e il silenzio dell’opinione pubblica.
2. Un unico modello di sviluppo, una stessa retorica della crescita senza fine governano le “grandi opere”, la nuova urbanizzazione e la speculazione edilizia che spalma di cemento l’intero Paese. Ma su questa idea di crescita grava un gigantesco malinteso. Dovremmo perseguire solo lo sviluppo che coincida col bene comune, generando stabili benefici ai cittadini. E’ invalsa invece la pessima abitudine di chiamare “sviluppo” ogni opera, pubblica o privata, che produca profitti delle imprese, anche a costo di devastare il territorio. Si scambia in tal modo il mezzo per il fine, e in nome della “crescita” si sdogana qualsiasi progetto, anche i peggiori, senza nemmeno degnarsi di mostrarne la pubblica utilità.
3. A giustificare questa deriva si adducono due argomenti. Il primo è che la redditività delle “grandi opere” è provata dall’impegno finanziario dei privati; ma si è ben visto (Corte dei conti sulla Tav) che il project financing è uno specchietto per le allodole. Una volta approvato il progetto, i finanziatori spariscono e subentrano fondi statali, accrescendo il debito pubblico. Il secondo argomento, la creazione di posti di lavoro, è inquinato da un meccanismo “a piramide” di appalti e subappalti, tanto più inesorabile quanto più grandi siano le imprese coinvolte e le relative “opere”. Nessuno, intanto, si chiede se non vi siano altri modi di creare o salvaguardare l’occupazione. La Legge Obiettivo del governo Berlusconi, ha scritto Maria Rosa Vittadini, «ha trasformato il paese in un immenso campo di scorribanda per cordate di interessi mosse dal puro scopo di accaparrarsi risorse pubbliche. Un numero imbarazzante di infrastrutture (oltre 300) è stato etichettato come “opera di preminente interesse nazionale” e come tale ha ricevuto incaute promesse di finanziamento da parte del Cipe. Si tratta di una impressionante congerie di infrastrutture prive di qualunque disegno “di sistema” nazionale, di qualunque valutazione d’insieme, di qualunque ordine di priorità».
4. In Val di Susa, l’irrigidirsi del governo sta provocando una crescente sfiducia nelle istituzioni, certo non temperata dalle “risposte” pubblicate sul sito di Palazzo Chigi. Esse lasciano in ombra troppi punti importanti: per esempio il recentissimo ammodernamento della già esistente galleria del Fréjus, costato mezzo miliardo di euro; per esempio gli alti rischi di dissesto idrogeologico (come già accaduto nella tratta Bologna-Firenze); per esempio la reticenza sullo smaltimento dello smarino amiantifero e sui danni alla salute da dispersione delle polveri sottili.
5. O ancora l’azzardata asserzione che «le tratte in superficie si collocano in aree già compromesse». Ma il vero capolavoro di questa artefatta verità è in una frasetta: «Si può dire che il consumo del suolo dell’opera assuma una rilevanza minima se confrontato con i dati del consumo edilizio e urbanistico dei comuni della Val di Susa nel periodo 2000-2006». Complimenti: lo scellerato consumo di suolo da parte dei Comuni non è dunque, per chi ci governa, un errore da stigmatizzare e correggere, bensì una scusante per martoriare ulteriormente la valle. A ragione un recente convegno a Firenze, organizzato da Italia Nostra, si è chiesto se le “grandi opere” siano causa o effetto della crisi economica. Ma una cosa è certa: non ne sono la cura.
6. Perché un modello di finto sviluppo come questo ha tanta solidità da esser condiviso da governi d’ogni sorta? La forza d’urto delle lobbies e dei loro affari è essenziale ma non basta. La dominanza di una fallimentare idea di crescita è il rovescio e l’identico della drammatica incapacità di immaginare per il Paese un modello alternativo di sviluppo, che vinca il muro contro muro delle opposte retoriche della “crescita” e della “de-crescita”. E l’assenza di un progetto per l’Italia del futuro è insieme causa ed effetto della crisi della politica, della fiducia nei partiti scesa sotto l’8%, della somiglianza fra non-progetti “di destra” e non-progetti “di sinistra”.