[Esce oggi per Salerno editrice Dal Medioevo al Rinascimento. Saggi di lingua e stile di Pier Vincenzo Mengaldo, a cura di Sergio Bozzola e Chiara De Caprio, con un’introduzione di Matteo Palumbo. Il libro è il primo volume della nuova collana “Forme e stili del testo”, diretta da Bozzola e De Caprio. Pubblichiamo, per gentile concessione degli autori e dell’editore, l’introduzione di Matteo Palumbo e uno dei saggi di Mengaldo inclusi nel volume (sulla traduzione di Arnaut Daniel da parte di Fernando Bandini)].
Introduzione
di Matteo Palumbo
Il libro di Pier Vincenzo Mengaldo, a cui queste pagine fungono da prologo inadeguato, fa sistema con altri volumi dello stesso autore. I dieci saggi qui presenti (da Arnaut Daniel a Dante, da Boiardo e Sannazaro a Guicciardini) vanno almeno pensati in relazione con alcune linee di ricerca che un infaticabile, prodigioso e molteplice lavoro ha sviluppato nel corso degli anni. I testi che ora si raccolgono toccano aspetti diversi della cultura medievale e rinascimentale. Discutono i problemi di singoli autori o l’intelligenza di opere specifiche. Nella molteplicità e varietà dei soggetti permane un tratto comune: un metodo davvero magistrale, che si mette in gioco in ciascun esercizio critico. Su questo aspetto, che a me pare essenziale, dovremo ritornare.
Il saggio che apre la serie dialoga con le traduzioni di un poeta aspro come Arnaut Daniel, avendo sullo sfondo i problemi teoricamente inaggirabili del senso e dei modi di restituire in un’altra lingua le invenzioni di un fabbro tanto elaborato. Offro una testimonianza particolarmente viva delle osservazioni che il lettore incontra e che segnalano lo scarto tra opzioni di traduzione fortemente concorrenziali:
È sufficiente scorrere buona parte dei congedi,[…] – e si confronti anche in questi casi con Tripodo, sempre compresso e allusivo – per cogliere come, conservandone tenuta e arcate, Bandini ha sciolto la sintassi volentieri cosí attorcigliata, nodosa, addossata, micro-ipotattica di Arnaut. A rompere e pausare gli stretti anelli di catena subordinativi del provenzale sono allora le sostituzioni della paratassi alle convolute subordinazioni, le pause e i secondi piani ottenuti con parentesi e incisi, perfino, e ottimamente, lo strappo di un costituente del complesso sintattico in frase esclamativa autonoma (a compensare il contorto col “patetico”) (qui, p. 25).
La strepitosa eleganza e precisione del linguaggio fissa come meglio non si potrebbe il valore di un’alternativa. Descrive i tratti qualificanti di una scelta e la offre al lettore attraverso l’efficacia di esempi particolarmente pertinenti.
La galleria medievale, che successivamente si distende, non può escludere l’analisi di alcune questioni legate al commento di un’opera così cruciale nella bibliografia di Mengaldo come l’edizione e il commento del De vulgari eloquentia. Anche in questo caso speciale le questioni puntuali, prelevate come tessere singole dal corpo dell’opera, valgono in funzione di promemoria generali. Identificano protocolli che rivelano la loro utilità nel quadro complessivo dell’opera e dell’intelligenza con cui esplorarla. Offrono, in una prospettiva larga, dei punti fermi per discutere e risolvere altri possibili dubbi relativi alla lezione del testo o all’efficacia e lucidità del commento.
In questo ambito mi pare particolarmente necessario sottolineare gli avvertimenti metodologici sulla riconoscibilità di una fonte. Anche quando non è possibile né conveniente trovare connessioni nettamente giustificabili, è opportuno segnalare «un intreccio di suggestioni che si rimandano a vicenda, ciò che sarà sempre indicativo dello spessore ed elasticità delle letture dantesche, cosí spesso utilizzate con agilità prestigiosa, e, anche, sottilmente concorrenziale. […] In questi casi è metodologicamente proficuo mostrare che invece ci troviamo di fronte a particolari, e magari particolarmente pregnanti, elaborazioni di concetti vulgati, appartenenti a una opinio communis medievale» (pp. 42-43). Il riferimento dantesco diventa ancora più probante se entra in correlazione con il sistema teorico e linguistico medievale, nella cui semiosfera può ricevere le proprie esplicazioni. Un singolo reperto rinvia alla langue che lo comprende e nel suo assetto trova adeguate radici: «Con ciò siamo a cavallo di quei casi in cui non solo un determinato uso linguistico, ma una particolare modulazione concettuale di Dante si chiarisce meglio sullo sfondo della tradizione culturale del Medio Evo» (p. 36).
Il risultato più probante di questa indicazione coinvolge aspetti tutt’altro che periferici o puntuali. Conferisce validità a congetture prima labili, dando plausibilità alla loro legittimità storica e teorica:
In generale, uno dei compiti e una delle ambizioni principali di un commento, specie a un testo culturalmente cosí denso come il De vulgari, sono evidentemente quelli di cercare di indicarne volta per volta il sottofondo concettuale e terminologico, fino a stringere quando possibile la o le cosiddette “fonti” probabili. E per un autore la cui biblioteca (a differenza, per fare un caso vicino, di quella di Petrarca) è per lo piú ricostruibile solo indirettamente e congetturalmente, dati del genere possono ritenere un interesse che va ben di là dell’illustrazione del singolo passo. Cosí ad esempio reperire in un brano del trattato, come è successo a chi scrive, il probabilissimo calco di un passo dello Speculum historiale o dello Speculum naturale di Vincenzo di Beauvais, significa riaprire il problema piú vasto delle eventuali utilizzazioni di questa influente Enciclopedia nel complesso dell’opera dantesca (p. 38).
Ancora una volta un singolo elemento assume un’importanza strategica, che trascende il caso determinato. Diventa la verifica esplicita di un’ipotesi di lettura globale, sui cui sentieri il lettore è spinto a procedere.
Questa tensione tra particolare e generale, tra dettaglio preciso e sistema a cui uno specifico problema rinvia e di cui è segno, si ripete, come un motivo replicato, in ogni altro saggio della raccolta. Si attualizza quando si tratta della lettura di un canto (il xxvi del Paradiso), analizzato nella dialettica tra esegesi della parte e logica del tutto a cui si annoda. Agisce in modo esteso nelle due altre sezioni del volume, quando le analisi sono relative a Sannazaro e Boiardo in un caso, a Guicciardini nell’altro. Di fatto, questa connessione è espressione di una necessità di metodo, che è la cifra del lavoro interpretativo di Mengaldo. Il referto stilistico, l’inventario delle figure retoriche prevalenti, i dati della metrica sono strumenti dell’interpretazione. Non si chiudono né si esauriscono dentro il perimetro delle loro catalogazioni. Guidano piuttosto a conoscere il senso di un’opera. Segnano la via che fissa le coordinate di un mondo umano e intellettuale. Gli danno evidenza e concretezza. Filologia, metrica stilistica, storia della lingua sono l’altra faccia dell’ermeneutica. Costituiscono la forma in cui le idee prendono corpo e diventano vive. Mengaldo, nei passaggi risolutivi del ragionamento, ribadisce, quasi per indefettibile necessità argomentativa, il nesso che stringe l’oggettività dei prelievi, l’inoppugnabilità degli spogli eseguiti, al valore interpretativo che essi assumono. Riafferma il legame tra il mondo visibile delle parole, che si può esplorare in ogni direzione e che si può schedare organicamente, con la sfera sommersa dei pensieri, che solo negli enunciati e nel loro ordine, nella trama delle successioni sonore e delle articolazioni metriche, raggiunge evidenza.
Gli esempi che si possono allegare sono molteplici e confermano tutti un medesimo scopo. Nel caso della lettura del xxvi del Paradiso Mengaldo osserva:
Si avrebbe gran torto a interpretare tutti questi fenomeni concordi sul semplice piano dell’ornatus; anche perché all’origine di molti di essi non staranno tanto i dettami della Retorica letteraria, quanto, se non piú, i modelli offerti dal linguaggio filosofico della Scolastica (basti pensare a s. Tommaso): dove la continua ripetizione verbale non ha già funzione ornamentale, ma proprio di ricerca della precisione e dell’approfondimento concettuale (p. 56).
Uno stesso principio vale per l’intelligenza degli Amorum libri di Boiardo e della tessitura stilistica che il canzoniere mostra. I riscontri, di cui l’analisi fa l’inventario, sono modi di intendere la complessità di un’esperienza, che è appunto sinolo di forme e di contenuti. Le anticipazioni del verbo intransitivo all’inizio di una stanza di canzone, per esempio, «creano un particolare “staccato” contemplativo» (p. 86). La legittimità di una figura come lo zeugma, a sua volta, appare motivata e spiegata in forza della sceneggiatura psicologica e poetica dell’opera. Non è perciò un dato che si giustifica per le opportunità di semplice «convenienza ritmica», ma trova la sua origine in «una concezione sintattica accentuatamente visiva e nominale: l’elemento razionalizzante e centralizzante, il verbo, tende cioè a mimetizzarsi e a ritirarsi da una posizione di rilievo per lasciare libero campo alle serie nominali, al gioco e scontro di situazioni, emblemi, oggetti, e a una sintassi eminentemente aperta e accumulatoria» (p. 89). Una medesima ragione giustifica il ruolo del polisindeto, che vale come segnale di una differenza di rappresentazione rispetto alle linee della tradizione poetica coeva. Nel confronto con gli impieghi di altri poeti, Boiardo ricorre a un’alternativa del tutto propria: «Usato di preferenza nelle enumerazioni descrittive, [il polisindeto] fa sí che sia impossibile l’indugio sui loro singoli elementi, in distaccata contemplazione, ma ne sottolinea anzi il carattere di cumulo senza respiro, con effetti lontani dall’obiettività naturalistica o anche dal realismo magico di un Poliziano, e come di folta impaginazione decorativa». Si tratta, dunque, di intrecciare i fenomeni dello stile con la poetica dello scrittore. Anzi, in maniera più precisa, occorre «cercare alcuni punti di intersezione precisi tra la poetica dello scrittore e la compagine stilistica e linguistica del testo, che valgano nello stesso tempo come canoni differenziali rispetto alla lirica quattrocentesca e come concrete posizioni di anticipatore» (p. 144).
La connessione tra i due campi può spingersi ancora oltre. Il sondaggio sulle Rime di Sannazaro si offre, a tale scopo, come una perfetta cartina di tornasole. Dentro i mutamenti di dizione poetica che Sannazaro avvia, si disegna, sullo sfondo, la grande ombra della storia e i processi di trasformazione innescati nel regno di Napoli alla fine del XV secolo:
E sembra (anche se nel Sannazaro non siano esplicite e sviluppate tutte le conseguenze relative) che queste nuove strutture stilistiche vadano rapportate a una crisi della chiara e geometrica ragione quattrocentesca e dei suoi equilibrati rapporti col reale, al profilarsi di una sorta di piú perplesso esprit de finesse, di un pensiero piú dubbioso e avvolto in sé, piú intriso di abbandoni sentimentali e di ripiegamenti stanchi, che si affida stilisticamente al chiaroscuro e alla protratta, molle e un po’ estenuata musicalità: certo non disdice individuare i sintomi e i prodromi stilistici di tale atteggiamento tardorinascimentale nella fucina culturale di Napoli, solcata da cosí evidenti stimoli pre-barocchi, caratterizzata da un umanesimo cosí aperto e possibilista, cosí poco categorico (p. 145).
Gli esempi più cospicui di questa interrelazione tra piano figurale e tensione espressiva sono particolarmente sintomatici nel caso specifico delle dittologie. Questa applicazione, ritrovata negli idioletti degli autori, mostra a quale punto, nelle raffinatissime costruzioni mengaldiane, possa arrivare il confronto tra un segnale di stile e la complessità dei processi che si innervano nel linguaggio. Nel caso di Boiardo, soprattutto se il confronto avviene con il modello di Petrarca, l’impiego delle dittologie rivela «un procedere manieristico e libero», contrassegnato dal «fatto che si utilizzino coppie petrarchesche spostandone il significato originario» (p. 109). Le conseguenze che ne derivano sono così enunciate:
la dittologia del Boiardo lirico si differenzia spesso da quella del Petrarca proprio in quanto preferisce a una congiunzione di termini di ugual “peso” e dimensione fonica e semantica, quindi perfettamente bilanciata e per cosí dire compensata (per cui essa, specie nella sua frequente collocazione in punta di verso spegne ed equilibra la tensione ritmica, ecc.), la coppia in cui l’accento batta con maggior forza sull’uno dei due termini, in modo da creare uno scompenso, un’ascesa di tono nel fluire del verso: costituisce cioè un elemento di tensione espressiva anziché di smorzamento e distensione come nel Petrarca (p. 111).
La soluzione che Sannazaro attua richiede una spiegazione differente. Il legame tra la coppia di termini obbedisce a ragioni di varietà rispetto alla prevedibilità delle coppie tradizionali. In più, però, la coordinazione disgiuntiva aggiunge un timbro speciale all’enunciato. Lo marca di un alone di indecisione che movimenta la frase in senso drammatico o dubitativo:
non è difficile individuare molti elementi per cui il Sannazaro tenta di liberare l’uso della coppia dalla caduta nel cliché: p.es. l’opzione non rara per la legatura disgiuntiva o, che sembra conferire anche formalmente alla dittologia un carattere di maggiore necessità, mentre rappresenta un interessante riflesso minimo, rattenuto al minimo dell’effusione, di una dominante incertezza psicologica (p. 168).
Non sono differenti le considerazioni sul lavoro correttivo che Sannazaro ha compiuto intorno al proprio corpus poetico. Anche in questo caso, per intendere il valore della revisione, le notazioni singole non sono autosufficienti. Sono indispensabili ma non esaustive. Valgono come parte di un sistema più generale, nella cui logica si integrano e al cui principio rinviano. Mengaldo afferma: «L’esame stilistico premesso risulta anche la condizione non pure opportuna, ma indispensabile per inquadrare un esame delle correzioni piú precisamente linguistiche (fono-morfologiche, in minor misura sintattiche) che stanno con l’elaborazione stilistica e la poetica sannazariana in rapporto di necessaria circolarità» (p. 177). Proprio questa circolarità, che lascia fluire una singola classe di fenomeni dentro sistemi più inclusivi e complessi, diventa l’insegna di un modo di leggere, analizzare e spiegare l’insieme dei processi letterari.
Le tre microanalisi che concludono il volume e che hanno come verifica la prosa di Guicciardini offrono uguali indicazioni di metodo e d’interpretazione. Anche in questo caso, accanto alla natura delle proposizioni participiali e alla funzione di quelle incidentali, un posto di assoluto risalto acquista l’indagine sulla figura della dittologia. Nelle grandi volute sintattiche della Storia d’Italia, Mengaldo ritrova le tracce che conducono al modo guicciardiniano di pensare gli avvenimenti e di scandire il loro racconto. I fatti si ordinano per gradazioni successive. Si connettono attraverso differenze reciproche e per gerarchia d’importanza. Le dittologie acquistano efficacia all’interno di questa volontà di comprendere e spiegare gli elementi in gioco. Le coppie non hanno, perciò, alcuna funzione esornativa. Come era accaduto per altri indizi, Mengaldo ribadisce che «il fenomeno delle dittologie non appartiene affatto, nell’opera, alla sfera dell’ornatus e dell’eleganza, o insomma dell’“estetico” […], ma obbedisce a intenzioni affatto diverse» (pp. 198-99). Bisogna, dunque, pensare a «un uso intellettuale e non estetico delle coppie» (p. 199): uno strumento che dà consistenza all’analisi, esplorando le sfumature di ogni singolo avvenimento. Sono una risorsa del Guicciardini storico e filosofo, impegnato a definire la natura variabile e irregolare delle umane cose. Ancora una volta i caratteri dello stile appaiono il correlativo di una precisa visione del mondo e rinviano ai suoi fondamenti:
È evidente che questi e simili fenomeni nulla hanno a che fare col gusto letterario italiano per la dittologia e la serie (vd. subito la frequenza del collegamento disgiuntivo con o). Esprimono invece il senso tutto guicciardiniano per la complessità e incertezza delle cause storiche e per la stessa varietà non interpretabile univocamente delle circostanze che della storia formano il tessuto. Di questo sentimento radicato nell’autore della Storia d’Italia tali fenomeni sono anzi l’equivalente stilistico più diretto (p. 210).
Pier Vincenzo Mengaldo appartiene alla generazione di grandi maestri, che hanno profondamente inciso nella storia della critica degli ultimi cinquant’anni. Il libro che segue è un’ennesima dimostrazione del suo luminoso magistero.
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Pier Vincenzo Mengaldo
Di Arnaut Daniel nuovamente tradotto
«La traduction ne donne à son ouvrage
rien qui soit sien que le simple langage»
É. de la Boétie
L’eccezionale – rispetto agli altri trovatori – fortuna di Arnaut Daniel in Italia è degnissima di nota ma facilmente razionalizzabile. Infatti, tolta qualche sua incidenza nella zona della poesia “siculo-toscana”, incidenza non certo superiore a quella di altri suoi colleghi su poeti antichi, o aree poetiche, diversi, quella fortuna è fissata da Dante.[1] Ricordando velocemente cose note, decisiva è l’azione del perigordino sul momento più eterodosso del rimare dantesco, le petrose, entro cui si situa la derivazione da lui della forma della sestina (affiancata da una, ma male etichettata così, “sestina doppia”). Anche attraverso Petrarca, che nei Rerum vulgarium fragmenta ne porterà a nove gli individui, la sestina diventerà un metro internazionale fino al Novecento ben incluso: basterà nominare Borchardt, Pound, Auden, Joan Brossa, e in Italia, dopo Carducci e D’Annunzio, De Bosis, Ungaretti e Fortini, e tanti o troppi più recenti:[2] in un parallelismo dopo tutto significativo con la massa di studi, in Italia e fuori (ad es. l’ultrafine Robaud) sulla sestina, sui rapporti Dante-Arnaldo, ecc.[3]
Ma accanto al Dante lirico, agisce potentemente il Dante critico e poeta-critico. Bifido l’atteggiamento del De vulgari (che agirà sulla cultura italiana a partire dal ’500). Ad Arnaldo, esponente di punta con Cino da Pistoia della poesia d’amore romanza, è anteposto Giraut de Bornelh (affiancato da Dante stesso) per ragioni contenutistiche, essendo il tema della virtus o rectitudo un gradino più alto di quello dell’amore; e il giudizio formale sui prodotti arnaldiani, più volte citati, oscilla fra l’ammirazione per la bravura tecnica e le riserve sull’eccesso della stessa, che però andranno lette in controluce come, anzitutto, riserve del momento sul “formalismo” delle proprie petrose. Altra la musica della Commedia, con una delle tante “contraddizioni” o sviluppi seghettati del poema rispetto alle opere precedenti: Purg., xxvi, dove nella solenne e insieme umile chiusa Arnaut parla, per il mimetismo trascendentale di Dante, in provenzale. Il Guinizzelli, altro pensionante della cornice dei lussuriosi, reagisce agli elogi del pellegrino Dante presentando Arnaldo non solo come «miglior fabbro del parlar materno» di lui Guinizzelli, ma come uno che «soverchiò» tutti sia in «versi d’amore» che in «prose di romanzi», quelle prose che Dante aveva pur frequentato, come mostra almeno l’episodio di Paolo e Francesca. È naturalmente da vedere se la proclamata eccellenza di Arnaut vada intesa, per così dire metonimicamente, come assoluta, su tutti gli scrittori provenzali e francesi, o sia pur sempre circoscritta alla materia amorosa (per limitarmi a questo, i commenti al poema più autorevoli degli ultimi decenni oscillano fra le due possibilità). In ogni caso l’esaltazione di Arnaldo sarà, ancora una volta, una mossa a uso interno, cioè varrà giustificazione di quanto di aspro, petroso, convoluto persisteva o anzi si potenziava nella Commedia, e soprattutto nell’Inferno.[4] Saltando la fase intermedia (interessante soprattutto il Cinquecento)[5] e venendo vicino ai nostri tempi, ecco che è in Italia che esce la prima edizione critica con traduzione di Arnaut, quella mitica di Ugo Angelo Canello (1883), altrettanto gloriosa che destinata a risonanza recente presso i non specialisti, perché Contini ne ha inserito nella sua Letteratura dell’Italia unita la pagina veramente memorabile sulla sestina, come esempio di prosa critica d’alto livello.[6] La Francia dovrà aspettare, e contentarsi, fino ad oggi, dell’edizione Lavaud (1910-’11) che tanto deve a Canello, e non meglio vanno le cose altrove. Da noi invece alla canelliana seguiranno nel Novecento le edizioni variamente importanti di Toja (1960, con notevole Premessa di Contini), di Perugi (1978) e di Eusebi (1984): da aggiungere, con varie versioni della sola sestina, la traduzione dell’intero corpus arnaldiano (s’intende quello costituito modernamente, e compresi gli altri tenzonanti sul cornar più tre canzoni dubbie) da parte del compianto Pietro Tripodo, con saggio introduttivo di Paolo Canettieri (Arnaut Daniel, Canti di scherno e d’amore).
Non meno interessante la risonanza arnaldiana, in Italia e fuori, presso critici d’alto rango e poeti-critici. Per i primi basti ricordare il costante interessamento dell’“espressionista” Contini, fin da uno studio filologico del ’36 in «Studi medievali», e magari anche un intervento recente di Agamben, benché la sua interpretazione del famoso corn di Puois en Raimons non sia accoglibile. Per i secondi il punto di partenza è ovviamente Pound, per il quale Arnaut ha contato ancor più che, mettiamo, Villon per Mandel’štam: da The Spirit of Romance del ’20 al saggio su Arnaldo, con testi e versioni, nel volume Instigations dello stesso anno, a tanto altro, ed ecco che Eliot dedica a Pound come a «il miglior fabbro», appunto, The Waste Land, ecco l’arnaldismo di Auden, ecc. Stando in Italia mi pare significativo che l’unico trovatore citato, sia pur parcamente, in tutte le prose critiche di Montale sia precisamente Arnaldo, e una volta per metterlo acutamente a capo di una traiettoria che conduce a Michelangelo poeta. Questo cenno valga come parte per il tutto: esclusi gli specialisti, e cioè presso la cultura militante, l’unico trovatore veramente “attuale”, in Italia almeno, rimane Arnaut, restando più o meno inutilizzati lirici d’oc di pari valore come Guglielmo IX o Bernart de Ventadorn.
L’attualità italiana di Arnaut è ora confermata, a pochi anni dalla traduzione di Tripodo, da una nuova e autorevole versione integrale, con accompagnamenti filologici: Arnaut Daniel, Sirventese e Canzoni. E prima di tutto andrà lodato senza riserve il lavoro del curatore Lachin, autore di una breve ma ottima postfazione e di “note ai testi” che si muovono con sapienza ed eleganza tra i testi arnaldiani e le versioni del poeta italiano (deliziosa in particolare quella al famigerato “sirventese” i). E tra l’altro Lachin, dopo averci avvertito che «Bandini accoglie quasi dovunque il testo e l’interpretazione di Canello», mette giustamente il dito sui casi, non pochi, in cui la versione bandiniana implica felici interventi testuali e interpretativi su luoghi del tradotto: il che, sia detto subito, non è merito da poco per un traduttore.
Venendo al lavoro traduttorio vero e proprio, è notissima la opposizione fra i sostenitori di due tipi di traduzione: quella acclimatante o “appaesante”, che risucchia l’originale entro lingua e cultura poetica del traducente, e l’antitetica, straniante o spaesante, che tende il più possibile lingua ecc. d’arrivo verso quella di partenza e il suo “genio” (qui stavano fra altri Leopardi e Benjamin). È chiaro che si tratta di una contrapposizione-limite, o meglio di una polarità i cui estremi difficilmente sono toccati da singoli individui. Ma ecco che questa astratta e pur sacrosanta polarità sembra materializzarsi nel confronto tra la versione bandiniana e la precedente di Tripodo, che a scanso di equivoci collocava a esergo un passo di Rudolf Pannwitz, esponente radicale della “linea Benjamin” (se così si può chiamarla, semplificando).[7]
Dunque, una prima comparazione per xv, Sols sui qui sai lo sobrafan que ·m sortz, citata da Dante nel De vulgari, ii 6, come esempio di suprema constructio (credo anche in virtù della protratta, agglutinante allitterazione iniziale): mi limito alla prima stanza. I due versi d’apertura mi sembrano una specie di manifesto del modo di tradurre di Tripodo: è conservata l’intera serie allitterativa (7 occorrenze), e così i due derivati con sobre: «Son sol che so il sovraffanno ch’è sorto / […] soffrendo in sovramare»: sobrafan e sobramar, che in Arnaldo erano anche in corrispondenza concettuale, sono ricalcati ottimamente con voci non attive in italiano ma plausibilissime e trasparenti. Al v. 3 il lieve scivolamento semantico di intero lascia però intatta la coppia arnaldiana nella stessa posizione di fine verso («ferms et entiers» = «fermo e intero»); non si teme di ripetere come in Arnaldo poi, vederla-vedo, lei, e al v. 7 è conservato l’introverso inciso «tan l’ai» (= «tanta ne ho»). La presenza di un toscanismo o voce letteraria come fo e i vari troncamenti “aulici” non saranno meri mezzi per ottenere la misura versale, quanto ulteriori allusioni alla forte monosillabicità del provenzale antico, e di Arnaut, anche mediante calchi puntuali («al cor d’amor» = «al cuor d’amor»). Come nell’originale è evitata la rima (la canzone è unissonans), ma poiché Arnaldo compensa l’assenza di rime entro la stanza con assonanze ecc. in fine verso e all’interno, così più o meno cerca di fare Tripodo: sorto – cuor – amor – sovramare – volere – fermo – intero – vederla – deviò – fo – so – ho, più quanto visto sopra.[8]
Bandini fa esattamente il contrario, scioglie, distende e ammoderna. L’allitterazione plurima si riduce a tre elementi («Io solo so […] soffre»), i derivati arnaldiani sono resi con sintagmi d’uso («enorme affanno» e «troppo amore»); tutte le ripetizioni conservate da Tripodo sono variate; solo il primo e terzo verso sono endecasillabi, tutti gli altri più larghi alessandrini (il che comporta, diversamente da Arnaldo e Tripodo, pausa costante a centro verso); «ferms et entiers» è italianizzato (e molto bene!) con «tenace e intatto»; in fine verso spiccano rime o consonanze in cinque versi su sette (cuore – amare – volere – apparire – dire, con rima in clausola) e viceversa minore è la ricerca di legamenti sonori interni; ai vv. 6-7 compare un italianissimo ma non arnaldiano (nel caso) enjambement, «poi quando / la vedo»; al v. 3 è invertito l’ordine (che sarebbe quello normale anche in italiano) delle parole, con effetto “poetico”: «car mon voler es tant ferms et entiers» = «Perché tenace e intatto è il mio volere»; elegante amplificazione è «in me fan ressa» 7, che risponde alla bella “interpretazione” «trabocco di parole». Per non insistere e finire, si noti che due punti fermi tagliano la stanza in 2 + 3 + 2.
Qualcosa di simile emerge confrontando le rispettive rese della prima cobla della celeberrima sestina (xviii). Mi limito a osservare quanto segue. Tripodo riesce a conservare la struttura metrica di 1 eptasyllabe + 5 décasyllabes eliminando al primo verso l’articolo (con un effetto dunque più astratto) che invece Bandini dilata a questo, e apocopando voler e cuor (calchi su Arnaldo), mentre Bandini attacca addirittura con un alessandrino, come lo sono i vv. 3 e 5; le famose parole-rima non corrispondono soltanto (come in Bandini) a quelle arnaldiane, ma sono anche, sempre, bisillabe piene come nell’originale, a costo di resuscitare alma ‘anima’ (ciò che premette pure un gioco più stretto di assonanze tra le stesse parole-rima). Al v. 2 («no ·m pot jes becs escoissendre ni ongla») Bandini inverte ma perde l’epifrasi: «strapparmelo non può becco né unghia» (Tripodo «non mi può becco scalfire né unghia»);[9] al v. 3 Tripodo calca il mal dir arnaldiano con maldire, mentre Bandini espande, come già nella metrica, «maligna sua lingua»; v. 5: ove Tripodo / dove Bandini; al v. 6 il primo mantiene la figura etimologica arnaldiana («jauzirai joi») con «gioirò di gioia», Bandini allenta («godrò gioia») ma compensando tramite allitterazione con giardino (in Tripodo, più letterarmente e arcaicamente, verziere: Arnaldo vergier), e va aggiunto che, se non interpreto male, Tripodo si contiene nelle undici sillabe facendo eccezionalmente sineretico gioi-rò (perciò bisillabo come gioia), non so se per avventurosa forzatura o per ulteriore omaggio alla compressione di Arnaldo.[10]
Già questi scarni appunti comparativi indicano che la versione di Bandini, lavoro di tutta una vita di un poeta così notevole, è quasi in tutto e per tutto del tipo “appaesante”.[11] E anzi Lachin ritiene che in questo vi sia una sorta di “scommessa” dell’autore, quella di attenuare l’immagine tradizionale di “poeta oscuro” di Arnaut Daniel: non so se sia proprio così; va ricordato comunque che Bandini ha al suo attivo anche ottimi lavori critici (Leopardi, Rebora, Giudici, ecc.). Come che sia, il carattere di queste traduzioni è rivelato, come pure si è intravisto, prima e sopra di tutto dalla metrica. Non solo di fronte ai testi metricamente più compatti di Arnaut, ma anche a quelli fascinosamente scheggiati e sussultanti, il traduttore usa con elegante ariosità – in sostanza – plessi di endecasillabi (anche quelli più “prosastici” di 4a e 7a: rarissimi gli “aritmici”), settenari e anche molti alessandrini. Vale a dire che sta ben dentro la tradizione che, fra canzone e madrigale cinquecentesco, e con punto d’arrivo nel “suo” Leopardi, gioca su quella alternanza già magnificamente illuminata dal Bembo per Petrarca, di endecasillabi e settenari, o versi “spezzati” (più raramente quinari). Ma, a integrazione e arricchimento, profitta dell’intercambiabilità tipicamente novecentesca, e ammiccante alla Francia, di endecasillabo e alessandrino – che poi è un doppio settenario (Montale, Penna, Luzi…). Che queste soluzioni, certo coerenti e applicate finemente, siano un po’ lontane – non che Bandini non lo sappia – dalle compaginazioni metriche di Arnaut, col loro senso come di un improvviso (e nel finale di iii siamo quasi dalle parti della canzonetta), sembrerebbe suggerirlo via negationis questo dato: che forse la maggior riuscita fra queste versioni sia quella de L’aura amara (ix), che Bandini interpreta come cascata di versicoli anziché, come Tripodo, quale serie di décasyllabes a fratture interne; qui la fisarmonica dei versi può contrarsi fino a quadri- e bisillabi, potenti suggeritori il frastaglio e l’ansimo dell’originale, «in una specie di febbre di caduta all’indietro e di parto ultrarapido verso l’interno» (parole di Benn, a tutt’altro proposito).
E le rime? Opportunamente Bandini si guarda dall’inseguirne la completezza strutturata, ma a questa “allude”, esibendone quante più riesce ma non fino a coprire l’intero della stanza; e le surroga tutt’altro che raramente con assonanze ecc. Questa è del resto la via maestra di tanti buoni o ottimi poeti-traduttori del nostro paese nel Novecento, e ci dice anche qualcosa che vale pure nel caso specifico del punto di vista storico di partenza: Montale naturalmente, e i montaliani come vari ermetici o vicini all’ermetismo, e, perché no?, D’Annunzio. Tutto questo però avviene all’interno di un “compenso” più ampio e sistematico. Fuorché i e iii, tutte le canzoni di Arnaut (compresa a suo modo la sestina) sono unissonans. Ora Bandini, a differenza di Tripodo che qua e là ci prova, rinuncia saggiamente a riprodurne la “regola”, cioè la rima fra tutti i versi in egual posizione di tutte le coblas, rimanendo queste all’interno non rimate (ma magari con assonanze, ecc.); e invece rima più o meno ampiamente e “regolarmente” ogni singola stanza in sé (rarissimo, come accennato, il caso di stanze interamente rimate: vd. i 2; vi 1).[12] E qui si fa luce un elemento che ci indirizza altrove dal retroterra sopra accennato: ed è la frequenza con cui il traduttore rima comunque l’ultimo verso della stanza (anche nella forma baciata, più nettamente clausolare: cfr. ad es. i 5; ii 3; x 2), lasciando nello stesso tempo irrelato il primo. Che è più della simmetria paradossale, a cornice, del pieno col vuoto, è l’evidenza che si consegue, in una sequenza largamente rimata, togliendo la rima al verso d’apertura e alla parola che lo chiude. E questo è Leopardi (basta vedere A Silvia).
Se poi, per dir così, sdraiamo le rime sulla orizzontale e ci domandiamo cosa diventino le vischiose e martellanti allitterazioni di Arnaut, ecco più o meno come ha proceduto Bandini: si è guardato bene dal correr dietro alle esibizioni più esplosive del perigordino, come quelle specie di superbi senhals formali che sono gli incipit di xi e, come s’è visto, xv; ma non ha mancato di distribuirne coppie o terne, più parcamente, in molti punti, sia dove ha creduto di modellarsi sull’originale (p.es. v 1 4: «la ran’ el riu, el bosc l’auzel» = «rane nel rio, nella foresta uccelli»), sia – come fanno i buoni traduttori – dove l’originale non offre lo spunto (p.es. xiv 2 1: «Colui che in un sol colpo […]»). Ancora: come nelle proporzioni e quasi nella regola dei traduttori italiani contemporanei, Bandini crea bensì begli enjambements estranei al testo arnaldiano, ma senza eccedere (uno particolarmente sapiente cade all’inizio di xi, in un contesto intorto, vagamente montaliano: «Sarà in rotta tra poco questo tempo / di burrasche e il rovaio, il suo rombo e il suo impeto, / ognuno alto con le proprie insegne / sui rami ancora senza foglie»: eccellente riuscita complessiva). Di fatto poi i fenomeni che così si potrebbero etichettare nei testi di partenza sono alquanto lontani dalle morbide inarcature all’italiana, sono fratture, sbalzi, effetti di discontinuo e non di un continuo morbidamente sospeso e pausato.
È da ogni punto di vista un Arnaldo arieggiato, anche un po’ razionalizzato – ma si sa che le traduzioni, opera insieme di poesia e cultura, o di poesia raggiunta attraverso la cultura, razionalizzano sempre, poco o tanto, gli originali (faccio mie considerazioni, se non ricordo male, di un grande critico e traduttore come Solmi). Basta ora che il lettore confronti, nel totale, la versione bandiniana della sestina, in sé più che pregevole, con quella coraggiosa e genialmente forzosa di Raboni, così serrata fonicamente e spigolosa da toccare, oltre l’ellissi, l’obscurisme.[13] Ma qui m’arresto, se non altro per non farmi complice dell’attuale voga manieristica, a me un po’ sospetta, della sestina. Per quanto è del colore lessicale, è ancora evidente che il traduttore è abbastanza appoggiato alla tradizione dantesco-petrosa, come già un po’ Canello, che è il suo principale punto di riferimento non soltanto per il testo. Ma la mia impressione è che anche qui non ci sia oltranza ma moderazione, in omaggio alla tendenza prima e quasi biologica del poeta Bandini verso fusione e scioltezza (quelle che ne L’aura amara, ix 1 7, gli fanno rendere il magro, nervoso e sperduto «dels auzels ramencs» col disteso «degli uccelli che vagano tra i rami», che attraverso la parafrasi perviene a una tonalità idillica).
Più in là, come è ovvio, Bandini è andato col sirventese (i) la cui versione ammicca, ancor più che al dantismo, alla linea comico-realistica e direi anche a certa novellistica: più in là forse dello stesso fisicissimo originale, perché qualche volta ci si vuole pure sfogare di più col parlare, e perché qui lo stesso intellettualismo (non negato, al contrario, dal linguaggio di taverna) di Puois en Raimons, più a piede libero che altrove, ha suggerito probabilmente minore discorsività, con effetti locali più incisi (cfr. la rima «vischioso piaccichiccio» : «umidiccio», o il distico «che un pispolo di piscio giù di sgrondo, / gli sbollentasse la ganascia e il collo», o ancora mostaccio e «sucida gruma» per cill e rovill ‘ruggine’ di Arnaldo). Ma in genere Bandini compensa espressionismi con attenuazioni, il che si può cogliere anche nel confronto con Canello, xvi 7 1: «Sieus es Arnautz del cim tro en la sola» = «Suo è Arnaldo dal cucuzzolo fino alla suola [del piede]» (Canello) / «Arnaut è suo dai capelli alle suole» (Bandini), e qui anche Tripodo non forza («Arnaut è suo dalla cima alla suola»), però sempre più “letterale” o a ricalco.[14]
È indicativo che le soluzioni locali ottime (e non ce ne sono poche) di Bandini siano, in assoluta maggioranza, nell’ordine dello slargamento e della fluidità. Ad es. «la sec a traill» («a seguir le sue orme» Canello, «ne seguo la traccia» Eusebi) = «sto dietro al suo sentiero» (ii 2 8); «Se ben vau per tot ab esdalh» (testo Eusebi, con traduzione «Ovunque vada vagando»; Canello qui non conta) = con un testo un po’ diverso, «Sebbene qua e là, falcando il passo, io vada» (ii 5 1), Wanderer o meglio “Fannullone” romantico; «Ieu sui Arnautz qu’amas l’aura» (lett. ‘ammasso l’aria’) = «Io sono Arnaut che stipa i suoi granai al vento» (x 7 1), alessandrino; «e nadi contra suberna» (‘corrente’) = «e nuota contro la marea che sale» (x 7 3), endecasillabo; «lai on doutz motz mou [lett. ‘muove’] en agre» («là dove dolce parola comincia per Agre» Eusebi, quasi come Canello) = «dove […] / con una punta d’agro nelle prime due sillabe» (xi, ultimo v.), altro alessandrino e trovata da applaudire.
Ma se c’è un campo in cui le qualità del traduttore, sempre in armonia con la sua complessiva cordialità stilistica, più eccellono, questa è la resa sintattica. È sufficiente scorrere buona parte dei congedi, o, che so?, ii 2 1 e sgg., o x 2 5-7 – e si confronti anche in questi casi con Tripodo, sempre compresso e allusivo – per cogliere come, conservandone tenuta e arcate, Bandini ha sciolto la sintassi volentieri così attorcigliata, nodosa, addossata, micro-ipotattica di Arnaut. A rompere e pausare gli stretti anelli di catena subordinativi del provenzale sono allora le sostituzioni della paratassi alle convolute subordinazioni, le pause e i secondi piani ottenuti con parentesi e incisi, perfino, e ottimamente, lo strappo di un costituente del complesso sintattico in frase esclamativa autonoma (a compensare il contorto col “patetico”). Vd. sopra e ad es. il congedo di iii: «Vai t’n, chansos / denans liei ti prezenta; / que s’ill no fos / no’i meir’ Arnautz s’ententa» = «Vattene, mia canzone, / presentati davanti alla mia amica. / Solo perché c’è lei / Arnaut con le parole si affatica», e naturalmente si noti anche qui l’amplificatio. Qualcosa di analogo può avvenire anche per via metrica: nel congedo di ii i versi sono in realtà nella traduzione tre (endecasillabi) contro i quattro, “medi” o brevi, di Arnaut, ma l’ultimo endecasillabo è graficamente sdoppiato per un’ideale ricomposizione con episinalefe: «perché il vostro valore / in alto svetta» sicché la corrispondenza numerica con l’originale c’è e non c’è.[15] Torna però ad onore della sensibilità del traduttore non aver fatto lo stesso col congedo della sestina, la cui tensione è anzi accresciuta tramite una robusta, prolungata inversione: «Arnautz tramet sa chansson […]» = «Invia questa canzone… / […] / Arnaut […]». E a questo punto, con questa necessità di commettere armonicamente mattoni anziché lasciar scendere con apparente casualità colate di cemento, si comprende anche meglio la funzione delle inarcature in aggiunta di Bandini, che smussano e soprattutto arrotondano e legano.
Se io dico, terminando, che con questo libro noi possiamo leggere un Arnaldo veramente italiano, m’illudo che quanto precede chiarisca che uso “italiano” in senso forte e non sto facendo un truismo. Chi ha condotto quest’impresa così difficile con tanta coerenza, ne ha azzeccato così bene, nel complesso, il risultato non solo perché è un poeta vero (condizione che dovrebbe essere sempre la preliminare, almeno con antagonisti del rango di Arnaut Daniel); ma anche perché ha voluto e saputo perseguire – e forse anche con l’intento che gli attribuisce Lachin –, mettendo a fuoco tutti i mezzi della sua sensibilità ed esperienza, uno scopo organico: che magari finisce per trasbordare troppo nei lidi patrii (lingua, metrica, tradizione) un lirico decisamente altro e spinoso come il perigordino; ma lo fa con un lavoro nobile, limpido, artigianalmente di prima qualità, ricco di invenzioni di vero talento nel dettaglio – perciò anche, se l’economicismo non sembri diminutivo, utile. L’Arnaldo italiano di Bandini sarà meno compresso e strambo, meno duro e raro e quasi pronto ad esplodere dell’Arnaut occitanico (e anche dell’altro Arnaldo italiano di Tripodo): ma non era possibile, in generale, far altrimenti senza forzare il «nostro pesante linguaggio polisillabico», e vocalico, di fronte al monosillabismo e al consonantismo del provenzale, soprattutto arnaldiano. L’importante è che il senso di quelle liriche sia scavato e restituito, la linea discorsiva portata in evidenza, i nessi sciolti e ammorbiditi e dunque chiariti. Questo e altro ha saputo fare Bandini: ascoltiamo una musica certo diversa da quella di Arnaut, ma è una musica che suona bene e non è confondibile con altre.
Note
[1] Cfr. anzitutto il saggio del ’26 di De Lollis su Arnaldo e Guittone, in Idealistische Neuphilologie (poi in De Lollis, Scrittori d’Italia, pp. 3-19).
[2] Fondamentale Frasca, La furia della sintassi, con estesissima bibliografia (cui magari aggiungerei Speroni, rec. Riesz). Fra i saggi sull’argomento eccelle sempre, a mio parere, Roncaglia, Invenzione; vd. anche, chiarissimo, Baldelli, Sestina, e più di recente La sestina.
[3] Ma delizioso è l’eterodosso volumetto di Fo-Vecce-Vela, Coblas.
[4] Rinvio a Mengaldo, Dante critico.
[5] Ma per il Quattrocento va ricordato un illustre, e per ora curiosamente isolato, esempio di conoscenza quasi certa di Arnaut, con altri trovatori: gli Amorum Libri di Boiardo. I dati sono in Benvenuti, Tradizioni letterarie; e così si esprime l’ultimo editore dell’opera: «Solidi appaiono gli echi di Arnaut Daniel e di Peirol, pressoché sicuri quelli di Bernart de Ventadorn» (T. Zanato, in Boiardo, Amorum libri tres, p. xxviii).
[6] È possibile che Canello risenta della definizione della sestina fornita da F. de Gramont (1872); cfr. Frasca, La furia della sintassi, pp. 366-67 e 407.
[7] Val la pena di riportare il bellissimo brano di Pannwitz: «L’errore fondamentale del traduttore è quello di attenersi allo stadio contingente della propria lingua invece di lasciarla potentemente scuotere e sommuovere dalla lingua straniera. Egli deve, soprattutto quando traduce da una lingua molto remota, risalire agli ultimi elementi della lingua stessa, dove parola, immagine e suono si confondono; egli deve allargare e approfondire la propria lingua mediante la lingua straniera; non si ha l’idea della misura in cui ciò è possibile, e in cui ogni lingua si può trasformare, e lingua da lingua si distingue quasi solo come un dialetto dall’altro, e non già se è presa troppo disinvoltamente alla leggera, ma proprio quando è presa in tutto il suo peso» (in Benjamin, Il compito del traduttore, p. 51).
[8] Va aggiunto che Tripodo allude con insistenza anche al carattere unissonans della canzone: nei primi versi di ogni stanza, che in Arnaut rimano fra loro in –ortz, anzi con coppie di rime equivoche a due stanze per due (sortz ‘nasce’ : sortz ‘sordo’, cortz ‘corti’ : cortz ‘corto, scarso’, bortz ‘storto’ : bortz ‘giostra’), Tripodo colloca la serie sorto – sordo – corti – corto – storto – giostra, e così cerca di fare, magari con assonanze, paronomasie, ecc., anche per i successivi sei versi rispettivi (p.es. i terzi: intero – bracciere – mestieri – altrimenti – altero – falsodicente). Anticipo qui che il comportamento di Bandini è tutt’altro: cuore – sordo – corti – scarso – falsi – giostra; ma vd. oltre.
[9] Noto di passata che l’esatto senso contestuale di escoissendre (propriamente ‘spezzare’ e sim.) è ancora sub iudice.
[10] Si ricordi anche che, come noia, gioia è più di una volta monosillabico nei poeti italiani antichi, «come il suo corrispettivo occitanico joi» (Menichetti, Metrica italiana, p. 294).
[11] Vd. le immediate recensioni, molto favorevoli, di Giudici, Il trovatore Arnaut, e di Raffaeli, Il provenzale firmato Bandini.
[12] Continuo a citare indicando col numero romano quello della canzone, con i due arabi rispettivamente quello della stanza e del verso nella stanza. Disgraziatamente nell’edizione einaudiana non compare alcuna numerazione di stanza e di versi.
[13] In Raboni, Canzonette mortali, e Id., Versi guerrieri e amorosi; in entrambi i volumi (e più diffusamente nel secondo) con felici frammenti lirici su temi o spunti arnaldiani. Scelgo 5 1-4: «Poi che la secca verga [settenario] / morì, e in Adamo son nipoti e zio, / mai bell’amore come in cuore m’entra / credo non fosse né in corpo né in alma [n. b.]», con una sorta di oscura contorsione; Bandini: «Dal tempo che fiorì la secca verga / da Adamo discesero i nipoti e gli zii, / amore come questo che nel cuore mi penetra / fu mai vivo in un corpo? No, nemmento in un’anima! [dunque endecasillabo + tre alessandrini; per le interiettive vd. sotto]». E Tripodo, sempre più radicale: «Da che fiorì l’arsa verga / e fu da Adamo ogni nipote e zio / sì fin’amor come quel che in cuor m’entra / non credo fosse in corpo mai né in alma».
[14] Sia Tripodo che Bandini vanno lodati per aver sempre conservato l’antroponimo Arnaut anziché italianizzarlo.
[15] Osservare che qui Arnaut (schema a6b4b4a6, con a femminile e b maschile) produce rima identica fra l’ultima parola del congedo e l’ultima della stanza precedente, di cui comunque il congedo riproduce lo schema dei quattro versi finali (capduoilla): e Bandini, conservando quasi alla lettera forma e sostanza della rima centrale (-ore vs –ór), perde quella a cornice ma fa rimare derivativamente la parola di chiusa assoluta, svetta, con quella che termina la strofa che precede, vetta, così pareggiando efficacemente il tecnicismo arnaldiano.
Bibliografia
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[Immagine: Pier Vincenzo Mengaldo, foto di © Mario Bergamaschi].