di Clara Capelli
Il salario come chiave di lettura della Storia dal secondo dopoguerra ai giorni nostri. Una Storia fatta di lotte dalle quali negli ultimi quarant’anni il lavoro ne è uscito progressivamente più debole e sconfitto. La realtà – raccontata dai numeri o dall’osservazione – restituisce storie di salari sempre più livellati verso il basso, in molti casi al di sotto della soglia di sopravvivenza; di pratiche espressamente volte a porre tutto il peso dell’attività economica sul lavoro, a vantaggio del capitale.
Basta salari da fame! di Marta e Simone Fana (Editori Laterza, Collana Tempi Nuovi) riporta al dibattito la centralità della questione del lavoro e del salario in Italia, innanzitutto attaccando e smontando la narrazione prevalente che vede nelle basse remunerazioni, se non nella miseria, la conseguenza di una generale inadeguatezza dei lavoratori rispetto al mercato: poco impegnati, poco qualificati, oppure non in possesso delle giuste “skills”. Attraverso un libro che mette insieme storia, cronaca, analisi e teoria economica, gli autori propongono una articolata riflessione sull’impoverimento del lavoro come esito del conflitto che oppone quest’ultimo al capitale, contrastando sia il pensiero dominante in economia, sia il senso comune che si appiattisce sulla caricatura della classe lavoratrice pigra e choosy, per citare l’ex Ministra del Lavoro con il Governo Monti, Elsa Fornero.
Il punto di partenza è la rivendicazione di una teoria distributiva conflittuale, in cui la ripartizione tra la remunerazione del capitale e quella del lavoro è il risultato di precisi rapporti di potere. Riprendere la visione economica del pensiero classico – e di quello marxiano in particolare, come gli autori scelgono di fare – ha molteplici meriti. In primo luogo, contribuisce al dibattito che si oppone all’approccio prevalente, cosiddetto neoclassico-marginalista, il quale considera la distribuzione profitti-salari una questione “tecnica”, risultato di processi determinati dall’andamento impersonale del mercato e da dinamiche di produttività ed efficienza. In secondo luogo, questo approccio ribadisce l’importanza della “distribuzione funzionale del reddito”, ossia appunto della distribuzione fra lavoro e capitale, una dimensione non sempre sufficientemente presa in considerazione nel quadro del dibattito contemporaneo sulla disuguaglianza, molto più spesso orientato alla “distribuzione personale del reddito”. La lente “funzionale” sulla distribuzione permette infatti di leggere le dinamiche economiche come esito dei rapporti fra lavoratori e capitalisti, evidenziando così come la disuguaglianza non sia la conseguenza di molteplici storie individuali, bensì un processo macro, di classe. Ne consegue quindi che solo come classe lavoratrice sia possibile agire per restituire potere al lavoro, intervenendo per una redistribuzione dal capitale al lavoro.
I primi tre capitoli del libro ripercorrono la storia d’Italia a partire dal secondo dopoguerra attraverso il prisma delle lotte per le rivendicazioni salariali e il miglioramento delle condizioni lavorative, le quali hanno prima visto un periodo di importanti vittorie del lavoro sul capitale (tra il dopoguerra e il 1973, periodo anche noto come “I Trenta Gloriosi”, secondo il termine coniato dal demografo francese Jean Fourastié), per poi assistere a un progressivo indebolimento del primo a beneficio del secondo nel corso dei decenni successivi. Gli autori bene evidenziano (come già fatto nei loro precedenti libri, “Non è lavoro, è sfruttamento” di Marta Fana e “Tempo rubato” di Simone Fana) come tale indebolimento – e conseguente generalizzato impoverimento – del lavoro non derivi né da automatismi di mercato né dal poco impegno dei lavoratori, ma al contrario discenda da specifiche politiche orientate al beneficio del capitale. Con riferimento al caso italiano, le misure che hanno favorito il profitto a danno del salario sono molteplici, dall’abolizione dalla scala mobile al “divorzio” tra Banca d’Italia e Ministero del Tesoro nel 1981, dal Trattato di Maastricht (e si potrebbe dire l’impalcatura europea tutta per come è stata costruita) alle svariate riforme del mercato del lavoro dal Pacchetto Treu al Jobs Act. Altro pregio di questa sezione storica è l’attenzione che viene dedicata ai rapporti tra Nord e Sud e agli squilibri economici che alimentano il divario tra le due parti del Paese, mentre si ritiene che dedicare maggiore spazio alle dinamiche internazionali degli ultimi quarant’anni (la svolta neoliberale verso la fine degli anni Settanta, le teorie sull’efficienza dei mercati, le politiche che hanno favorito la mobilità internazionale del capitale fino ai processi di finanziarizzazione in corso) avrebbe potuto arricchire l’argomentazione e aggiungere tasselli al quadro che questa prima parte realizza.
La fotografia che il libro restituisce dati alla mano ai lettori mostra una classe lavoratrice italiana ancora esistente e numericamente consistente, transitata nel corso degli ultimi decenni dalla manifattura a un terziario a basso valore aggiunto: commercio al dettaglio, logistica, turismo, ristorazione, etc. Un problema non solo in termini di innovazione e produttività – rispetto ai quali la manifattura, o almeno diversi anelli della filiera produttiva manifatturiera, è superiore alle citate attività del terziario -, ma anche in termini di inquadramenti contrattuali e condizioni lavorative e salariali. Come illustrato dagli autori, infatti, la classe lavoratrice italiana è stata progressivamente frammentata e impoverita attraverso politiche che in nome della flessibilità “richiesta dal mercato” (e invece funzionale alla remunerazione del capitale) hanno reso il lavoro precario e mal pagato, ingabbiato in una selva di esternalizzazioni, delocalizzazioni, appalti, partite iva, fino alle pratiche di lavoro nero; tutti meccanismi che consentono più elevati margini di profitto e, inoltre, rendendo il lavoro così “flessibile” consentono di far ricadere su di esso tutto il peso del rischio economico. Le cose si mettono male? Si lasciano i lavoratori a casa, si contrae ulteriormente la loro remunerazione, si sposta l’attività economica altrove e via elencando. Nel libro si precisa inoltre che queste dinamiche accomunano settore privato e settore pubblico, apparentemente per la necessità di contenere i costi, in realtà permettendo uno schema di redistribuzione ben preciso a danno del lavoro.
Due capitoli centrali, di stampo più teorico, vertono sul rapporto tra salari, produttività e tecnologia/innovazione. In particolare, il tema della tecnologia viene trattato attraverso una “ri-politicizzazione” del concetto stesso. A differenza della teoria economica neoclassico-marginalista che considera la componente di tecnologia/innovazione come neutrale, gli autori analizzano come la tecnologia sia funzionale ai rapporti di potere esistenti. Se a dominare è il capitale, essa sarà impiegata – a titolo di esempio – per proseguire nel processo di disarticolazione geografica dei processi produttivi su scala globale, facilitando le delocalizzazioni, oppure per l’attività delle grandi piattaforme on line e per il controllo sui lavoratori, etc. La scomparsa del lavoro tramite processi di automazione è in realtà un discorso politico e non tecnico, in quanto la liberazione del tempo di lavoro per mezzo della tecnologia non implica necessariamente un’estromissione del lavoratore del mercato, ma semplicemente una rimodulazione della distribuzione fra salari e profitto.
I capitoli conclusivi sono infine dedicati alla pars construens e a una proposta programmatica: perseguire una proposta di salario minimo in Italia, salario minimo che non si collochi al di sotto della “soglia minima di sopravvivenza” (termine ovviamente da intendersi in senso sociale e non biologico). Gli autori argomentano come questa proposta sia innanzitutto necessaria per allineare l’Italia ai Paesi del capitalismo avanzato che già si sono dotati di queste misure, così come, sempre in un contesto di sistemi di capitalismo avanzato, alla lotta in corso negli USA per l’innalzamento del salario minimo orario a 15 dollari. Tale lotta è necessaria non solo per ribilanciare i rapporti di classe, ma anche per ridare respiro alla asfittica domanda interna, a sua volta necessaria per la ripresa di un’economia strutturalmente in crisi, non solo dal punto di vista della produttività. Come sostenuto dai dati e dai rapporti citati, per quanto riguarda il costo del lavoro (salari, oneri, tasse) l’Italia si colloca sotto la media dell’eurozona, un quadro che corrobora ulteriormente la tesi del libro sui rapporti di classe come motore della situazione economica italiana e contribuisce a sostenere la lotta per il salario minimo come una proposta fattibile (se non addirittura cruciale) per il superamento della stessa.
Come già affermato, Basta salari da fame! ha il pregio di rimettere sul tavolo la questione salariale e del lavoro in Italia, mettendo in connessione il quadro presente con un passato di lotte, vittorie e sconfitte con un futuro di battaglie possibili e soluzioni praticabili. Se il centro della questione è il conflitto tra lavoro e capitale, nessun sacrificio in nome di logiche di mercato fintamente neutre (e in realtà funzionali alla classe capitalista) è dunque necessario. Al contrario, ciò che occorre fare è appunto ricostruire la coscienza della classe lavoratrice per riprendere le fila del conflitto anche dal lato del lavoro.
Con la consapevolezza che la trattazione di un tale tema abbia richiesto numerose rinunce dal punto di vista dei contenuti e dei nodi argomentativi, si osserva che per un libro che si vuole destinato a un largo pubblico sarebbe stato probabilmente utile esplicitare alcuni riferimenti e passaggi riguardo alle teorie economiche soggiacenti alle analisi e considerazioni. Nel quadro di un’accesa lotta fra narrazioni, chiarire ulteriormente la centralità della lente del conflitto di classe come fil rouge del libro avrebbe consentito di offrire argomenti aggiuntivi, nel libro come nelle discussioni sul tema, a contraltare di quelle posizioni maggiormente dominanti che si basano sulla scomparsa della classe operaia a seguito della terziarizzazione e il concetto di “classe media”. Anche dal punto di vista del dibattito teorico ed empirico in ambito di distribuzione funzionale, gli economisti non neoclassici si trovano spesso a misurarsi con la composizione della classe lavoratrice, al fine di distinguere la classe lavoratrice come quella trattata nel libro da posizioni salariate ma privilegiate, come per esempio la cosiddetta “classe manageriale” descritta in Neoliberalism di Gerard Duménil e Dominique Lévy,
Come punto per un ulteriore e più ampio dibattito, si ritiene fondamentale interrogarsi sul rapporto tra salario minimo e rafforzamento della struttura produttiva. Come giustamente puntualizzato dagli autori, la struttura del terziario italiano è caratterizzata da basso valore aggiunto mentre la manifattura ha perso importanti quote produttive. Se il salario minimo contribuirebbe a rendere meno iniqua la galassia di sfruttamenti di varia foggia descritti nel libro, è meno evidente se e come questa misura potrebbe per gli autori favorire una progressione dell’Italia in termini di struttura produttiva. Secondo la letteratura teorica ed empirica l’inversione di questo processo richiede significativi interventi in ricerca e sviluppo (a cominciare dall’intervento statale) e riflessioni sul rapporto tra questo tipo di investimenti e i rapporti (re-)distributivi di classe potrebbero aggiungere importanti elementi al dibattito.
Infine, sebbene sia riconosciuto in alcune pagine del libro come la questione salariale sia anche (e in un contesto globalizzato e altamente finanziarizzato verrebbe da dire soprattutto) determinata da dinamiche internazionali, maggiore spazio per considerazioni in questo senso avrebbero indubbiamente giovato all’argomentazione, nonostante il focus sia dichiaratamente l’Italia. Anche in un’analisi che rimane dentro i confini nazionali, è difficilmente possibile prescindere dalla mobilità dei capitali dei nostri giorni e dalla finanziarizzazione dell’economia mondiale nelle sue varie forme. Non per limitare le proprie analisi e le proprie proposte programmatiche, ma per l’esaustività del lavoro di ricerca e divulgazione. La parte introduttiva stessa fa doverosamente riferimento alle più recenti lotte dei lavoratori di Bangladesh, India, Cina, Romania, etc., lavoratori le cui sorti sono spesso legate a doppio filo a processi produttivi controllati da Paesi del capitalismo avanzato e a pratiche di delocalizzazione spinte dalla corsa senza sosta del capitale al contenimento salariale a beneficio del profitto; una corsa che crea squilibri perversi per cui lo sfruttamento di una lavoratrice del tessile in Bangladesh rende possibile l’atto di consumo di una lavoratrice precaria della logistica in Italia. La traiettoria del conflitto di classe passa anche per il recupero della dimensione internazionale delle lotte della classe lavoratrice, ma è pur vero che da qualche parte occorre cominciare. Quella indicata dagli autori è una strada.