di Sandro Frizziero

 

Resistere non serve a niente. Tutto è perduto. Così rispondo a mia moglie che mi dice, mi ordina quasi, la mattina dopo l’acqua granda, di asciugare la cantina. Tutto è già perduto. Meglio camminare.

 

Esco e guardo i lampioni corrosi dal salso, le inutili paratie ai portoni, i palazzi della mia Venessia. Anche loro, come me, esistono in via provvisoria; sono abusi edilizi del creato, questi palazzi, costruiti in deroga alle leggi della natura e della fisica. Con le loro colonne storte, l’intonaco scrostato, le vetrate impolverate dimostrano tutti i loro anni. Sono vecchi, c’è poco da fare. Sono vecchi di cui si è persa memoria, smemorati a loro volta: si specchiano sui canali ma non si riconoscono più.

 

Con la testa fra le nuvole che corrono veloci sopra di me, penso ai primi che sono arrivati nelle isole della laguna, ai primi che a fatica hanno posto nella melma le fondamenta di questa città. Scappavano dai barbari, quegli uomini, dopo che l’Impero, l’impero di Roma, li aveva lasciati indifesi. Allora la laguna era una madre amorevole, attenta e degna di attenzioni, una madre che li aveva abbracciati e protetti col suo respiro lento. Pensavano di essere al sicuro per sempre, di poter sfuggire alle grinfie del mondo, quegli uomini.

 

Adesso Venessia è invasa e nessuno se ne accorge. Escono a fiotti dalle grandi navi, i barbari, quelli nuovi, o dagli ostelli di Mestre, fioriti in quantità per offrire Venessia a pochi schei. Arrivano a Tronchetto o a Piazzale Roma, poi line two fino a Rialto bridge, per spargersi, intasare, soffocare, ostruire ogni calle, anche la più stretta, occupare ogni pertugio, proprio come ha fatto l’acqua granda. È un attimo che alla città intera venga un infarto. La laguna, erosa e scavata, è un polmone che non riesce più a respirare; si ribella, la laguna, ai tour organizzati e ai selfie-stick. Ride in faccia a chi vorrebbe tamponare il mare, perché sa, sa benissimo che le dighe bisognerebbe costruirle verso la Terraferma; mura spesse, per difendere quel che resta da difendere. Perché sono loro il problema: i barbari. Sono sempre stati loro.

 

Per questa guerra il doge ci vorrebbe, mica i politici di oggi; il doge, come ai tempi buoni, quelli della Repubblica, baluardo di libertà tra le italiche corruttele. Non se li ricorda nessuno i tempi buoni, a scuola non si studia più di quando il Leon, il Leon di San Marco volava fino a Bergamo; di quando lo Stato da Mar si allungava in Istria, in Dalmazia, a Cipro, fin quasi alle coste turche. Adesso resistere non serve a niente; tutto è perduto, e non penso solo alle fotografie, alla piccola stufetta, alle scarpe che tengo in cantina.

 

La verità è che è tardi. È tardi per qualsiasi cosa, anche per me che ormai mi sento straniero a casa mia. È tardi per interrare la laguna, come aveva proposto Alvise Cornaro, è tardi per asfaltare il Canal Grande; anche per la Venezia moderna e industriale è tardi: le ciminiere di Porto Marghera sono archeologia. Forse bisognerebbe approfittare dell’acqua granda per affossarla del tutto questa Venessia da cartolina; salvarla da una dolorosissima agonia e darle una fine dignitosa.

 

Mi siedo su una panchina. Dalle acque emergono le prue di due battelli affondati per il maltempo, bricole monche, mangiate dalle maree. Sento corse di topi, urla di gabbiani, boccheggiare di pesci. Pullula di vita e di morte quest’acqua, è viva e morta, come me. E sento soprattutto il respiro affannoso della laguna, come soffocato da mille voci inconsistenti: “Venezia è sempre Venezia, certo, vuoi mettere Saint Mark’s Square, mica robetta, non c’è che dire, un salottino, peccato non poterci parcheggiare; è scomoda, Venezia, indubbiamente, una gran rottura di coglioni, e poi in genere i commercianti sono ladri, mica come in Terraferma. Per non parlare di quando piove e c’è l’acqua alta. In quest’occasione, Venezia è proprio insopportabile, l’umidità è ovunque, penetra nelle ossa, percola nell’anima. Excuse me, to San Pietro? San Pietro? Je dois aller à San Donà. Ou San Tomà?”.

 

Mi suona il cellulare: è mio figlio. Mi chiede se ho asciugato la cantina, se ho avuto danni. Io gli rispondo che è troppo tardi, che non c’è niente da fare. Mi fa ridere, mio figlio: quando qualcuno gli chiede di dov’è lui risponde so venessian, so venessian. Anni fa si è preso una casetta a Favaro, dieci minuti dall’Auchan, dieci minuti dall’aeroporto, il terzo del nord Italia, in continua crescita, più di dieci milioni di passeggeri l’anno. Poco importa che tuo padre e tua madre siano di San Francesco della Vigna, adesso stai in campagna, gli avevo detto allora; sei meno veneziano degli inglesi che si comprano una casetta per le ferie, meno degli artisti nordeuropei che vengono qui a pontificare sul clima. Non mi aveva parlato per una settimana, mio figlio.

 

Papà, stai bene?, mi chiede. La laguna ha ragione, gli dico, il clima ci sta aiutando, altroché salvare Venessia. Immagina, gli dico, immagina solo per un momento se l’intera città fosse finalmente travolta da un’onda, una bellissima e altissima onda, che portasse via con sé tutte le mascherine e i tricorni di cartone, tutte le baute e le caramelle gommose dei negozietti di bengalesi. E metà delle gondole, poltrone a dondolo per cretini, anche quelle a batteria, facesse inabissare tutte le pizze decongelate vendute a peso d’oro, insieme alle tovaglie a quadri dei Tipical Venetian Restaurant.

 

Immagina, gli dico, che la falla di questa nave persa tra la nebbia chiamata Venessia si allarghi sempre più, che la città inizi a imbarcare acqua, si reclini da un lato facendo scivolar via tutte le sue scorie, le sue clientele, i faccendieri senza scrupoli e gli approfittatori di ogni tipo; che la laguna, poi, come un’enorme seppia sputi fuori tutto il male, lo sputi fuori dalle tre bocche di porto, contemporaneamente. Sarebbe uno spettacolo meraviglioso, non trovi? Un capolavoro della natura, qualcosa di straordinario. Finalmente tutto ricomincerebbe da zero; la città si difenderebbe ancora dai barbari, dai barbari di tutto il mondo; e la bellezza, quella di un tempo, quella vera, che dura nei secoli, rifiorirebbe. Vorrebbero vederla tutti una città così, dico a mio figlio con un filo di voce, tutti vorrebbero farci affari, veneziani compresi. Ancora, ancora una volta.

 

Tutto è perduto. Resistere non serve a niente, davvero. Asciugare la cantina? Perché no, anche se so che si tratta di accanimento terapeutico, di gratuita crudeltà. Devo asciugare la cantina, non l’ho dimenticato. Sarà l’ultima volta.

 

[Immagine: Foto di Simone Padovani/Awakening/Getty Images].

2 thoughts on “Venezia, resistere non serve

  1. “Che cosa dobbiamo a ciò che è morto? ‘ L’atto d’amore di ricordare un morto’ scrive Kierkegaard ‘ è l’atto d’amore più disinteressato, libero e fedele’. Ma certamente non è il più facile. Il morto, infatti, non soltanto non chiede nulla, ma sembra fare di tutto per essere dimenticato. Proprio per questo, però, il morto è forse l’oggetto d’amore più esigente, rispetto al quale siamo sempre disarmati e inadempienti, in fuga e distratti.
    Solo in questo modo si può spiegare la mancanza di amore dei veneziani per la loro città. Non sanno né possono amarla, perché amare una morta è difficile. […] A Venezia i mercanti non sono nel tempio, ma nelle tombe; oltraggiano non solo la vita ma, anzitutto, un cadavere.”

    Giorgio Agamben, Nudità, Nottempo, Roma , 2009 pp. 61-2

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