di Anna Maria Carpi

 

[Questo racconto di Anna Maria Carpi è inedito].

 

Era fresco di laurea, per il momento insegnava a ragioneria, a Milano, in piazza della Vetra e una cupa mattina di ottobre, entrando in sala professori e andando allo scaffale a prendere il registro, se l’era trovata accanto, che trafficava nel proprio scomparto. In genere le prime ore si assegnavano agli ultimi arrivati e ai precari, ma a lui andavano benissimo perché rincasando nella tarda mattinata aveva ancora del tempo per le proprie cose e per dedicarsi a qualche lettura.
Sono Caterina Decleva, e verso di lui si era protesa una piccola morsa bianca, mentre in questo nome, come una limpida, unica nota di flauto, prima che lui riuscisse a mettere a fuoco l’immagine, era echeggiata non so quale strana promessa di gioia.
Era anche lei sui venticinque. Riga nel mezzo, una massa di riccioli brunorossastri che le arrivavano alle spalle e le davano qualcosa di casto, e caste e verginali erano anche le sue membra lunghe, il poco seno, la giacca maschile, i tacchi bassi. La faccia era lievemente dissimmetrica, come in certi neonati che dormono ostinatamente sempre sulla stessa guancia. Ma l’insieme della figura aveva una decisa pretesa di bellezza.
Che ne diresti, disse lei guardandolo dritto in faccia: nell’intervallo ci prendiamo insieme un caffé?
Ma con piacere, aveva risposto lui, e durante la prima mattinata la parte davanti del suo cervello si era applicata alla liturgia dell’insegnare, ma nella parte di dietro c’era come scritto a grandi lettere: che fior di ragazza.

Caterina era venuta al bar con un pacco di compiti stretto al petto: hai visto? fece alludendo al pacco, quanto mi ci vorrà? Ma ci sono dei criteri precisi per la correzione? E le domande tu come le scegli? Poi, al banco del bar, cambiò argomento: le vacanze di Natale, tu dove pensi di passarle? Io, disse con rabbia, sono costretta ad andare in Venezuela con mio padre.
Ma guarda. E che fa tuo padre?
Sedili per auto, rise lei. Un po’ assurdo, eh? E il tuo?
Il mio è impiegato al catasto.
Tornarono di sopra in mezzo agli altri. Poi ci fu il ponte dei Morti. Ma la prima mattina che si rividero Caterina gli chiese se non potevano mangiare qualcosa insieme. Quella mattina finiva anche lei alle undici, ma c’era sempre qualcosa da fare per tirare l’ora di pranzo.
Nella sala professori allucinata dal neon in quel momento non c’era che la Sartori, una collega con cui lui aveva stretto una certa amicizia. Mezza zia, mezza compagna come sono tante donne sui quarantacinque con un maschio giovane: una bassotta con tanto seno e pochi capelli duri di lacca che lasciavano intravvedere il cranio. Stava prendendo delle note seduta in fondo al tavolo delle riunioni. Era una degli anziani e una dei docenti più impegnati nella gestione della scuola, e dai più giovani si aspettava che la salutassero loro per primi. Ma la Decleva le rivolgeva l’attenzione che si rivolge a una macchia sul muro.
La Sartori posò gli occhi su di lui. Dicevano: ma che ci fai tu con quella? La conosco io questa genia, questa gioventù dorata. Quella qui non ci resiste nemmeno un semestre.
Ma lui non guardava dalla sua parte, era come se non ci fosse, e la Sartori raccolse la sua roba e uscì sbattendo la porta.
Che cosa vuole quella subumana? Ce l’ha con me? ridacchiò Caterina.
Lui alzò le spalle. Nel frattempo in sala professori erano entrate altre due creature alquanto squallide. Pantegane, si disse lui, e questa qui al confronto è una farfalla. Intanto suonavano le campane di mezzogiorno.
Caterina gli stava di fronte, a mani vuote, le braccia lungo i fianchi, semplice, sorridente, come sottomessa e lui guardava imbarazzato ora lei, ora gli attaccapanni, ora la finestra con fuori il cielo e la cupola della basilica di S.Lorenzo.

 

L’immagine di lei, stampata in quella luce e con quello scampanio, gli stava viaggiando verso quel terribile e finale archivio della memoria che sarebbe tanto meglio non tenere.
Andiamo alla Brace? disse lei. Fanno solo carne…non so se ti piace.
E come no?
Così erano andati a pranzo alla Brace, quel giorno e il seguente e anche il mercoledì dopo, e il bello è che non era mai lui a proporlo, sebbene ogni giorno ci sperasse sin dalla mattina. Lo proponeva lei. Voleva sapere di lui, e tutto trovava nuovo e sorprendente per quanto obbiettivamente non lo fosse – lui era davvero come tanti. Sai cosa mi piace? diceva. Il tuo modo di esprimerti.
Ovvio che questo plauso non poteva che renderlo ancor più sciolto e spiritoso. Ascolta, protestava però certe volte, anch’io vorrei sapere delle cose di te. Ma lei scuoteva la testa: io non ho mica una vita. E un giorno, afferrandogli una mano, aveva detto: io sono in un turbine idiota, dal quale non so come uscire.
Stavano tornando dalla Brace a scuola, dove nel pomeriggio era fissata una riunione. Ma tu non hai…nessuno? chiese lui sull’ascensore.
No, nessuno che abbia importanza.
Lui entrò canticchiando in sala professori, si sedette accanto al preside e in quel pomeriggio portò con serietà mai vista le sue pietre alla crolla diga di parole – beghe pregresse, proposte organizzative – che il consesso doveva discutere e verbalizzare prima di sera. La Sartori si chiese: ma cos’ha oggi Casetti, cosa gli è successo?
Infantili, drammatiche, possessive, permalose: questo erano state per lui fino allora le poche ragazze che aveva avuto. Alcune gli erano piaciute fisicamente anche più di questa. Ma questa gli piaceva tanto che nemmeno la desiderava. Niente ci divide, nemmeno la voglia, aveva scherzato una volta, con una certa esaltazione, uscendo con lei sulla piazza nello scampanio di mezzogiorno, e Caterina aveva detto: sì, questo è il bello.

 

Ma venne un martedì di pioggia dirotta, che lui, fino allora sempre di buon umore, al termine di un pranzo in pizzeria – il martedì la Brace era chiusa – si lamentò, pesantemente, del lavoro. Era tutta una frustrazione. Gli si profilava qualche chance all’Università, ma chissà per quando, la gente dice e disdice. E tuttavia: senza questa sarebbe cascato in quell’umor plumbeo, quel crepuscolo senza domani, quell’atroce amore e spregio di sé che già allora contrassegnava tante esistenze, specie maschili, dentro le scuole.
Bo’, l’Università! disse lei, perché non ti trovi un altro lavoro più eccitante? Che ne so, l’editoria, i giornali.
Ah, io non ho molta facilità di rapporti, non ho le conoscenze giuste, e poi…credo di essere nato per gli studi.
A me piaci così come sei, disse Caterina dopo un po’ con aria da cerbiatta. Tu sei diverso dagli altri. Uno a te potrebbe affidare tutti i suoi affari e tu non lo fregheresti mai, è vero?
Era un complimento, ma non esaltante. Gli onesti sono anche noiosi.
Poi, con improvviso slancio, la domanda: vivi da solo, no? Perché non mi fai vedere la tua casa?
E perché mai?
E’ molto in disordine? rise lei. Ma a me piace il disordine. Non ne posso più del confort, della perfezione, delle cameriere. Sapessi quante case i miei hanno cambiato, sempre di bene in meglio. Ma io me ne andrò, via da loro, via da tutto.
Ti sposi?
Lei scosse la testa.
Due giorni dopo lui si fece coraggio: allora…dopo l’ultima ora mangiamo qualcosa e poi andiamo…a casa mia? Guarda che sto un po’ fuori, a Novate.
Mai lui aveva trovato l’androncino condominiale, i marmetti, il ficus in vaso, le appliques dorate, il pianerottolo stretto, le porte di finto noce così brutte, così disperate.
Non è niente male quassù, disse Caterina, quando furono di sopra. Mi pare che sia molto tranquillo, e dall’ingressino era passata nel piccolo soggiorno. E tu quando lavori ti siedi a quel tavolo? Sì, risponde lui, o nell’altra stanza.
La porta della stanza da letto è aperta: c’è il letto disfatto. Posso? fa lei, entra e va dritta ad aprire l’armadio. Ma guarda, che ci fanno tutte queste cravatte? Quando mai te le metti? E le tieni appese nell’interno dello sportello come usava il mio nonno? A lui sì che volevo bene. E quello chi è? fa girandosi e puntando il dito su un ritaglio di giornale inserito nell’angolo di un quadro.
E’ Nabokov, dice lui. Lei si ferma: somiglia a mio fratello. Lui la guarda: ah, hai un fratello? L’avevo, spiega lei, è morto quando io avevo diciassette anni. Era l’unica persona intelligente della mia famiglia, un vero intellettuale, e io lo adoravo. E guarda via da lui, fuori della finestra, si ripiega su se stessa, lascia pendere il capo e le braccia. E sai perché è morto? Oh non è stata come tutti credono la nefrite, è morto perché era troppo sensibile, perché non aveva grinta. Nel mio ambiente solo i peggiori ce la fanno.

 

Lui si offrì di preparare un caffè e lei lo seguì nel cucinino. Sto bene qui, disse quando furono davanti ai fornelli, fra tutti questi pacchetti di pasta e riso e questi boccettini con le erbe. Tu cucini dunque! e la scoperta la intenerì. Sì, disse lui, se viene qualche amico.
Così a Novate ci andarono altre volte. Lei si metteva sul divano, le braccia dietro la testa, le gambe tese in avanti, cavate le scarpe, e gli diceva parla, parla della vita, la tua o quella degli altri, nessuno lo fa e io ho bisogno di sapere cosa diavolo è – e lui avanti a parlare, dei suoi studi, dei suoi gusti, dei suoi amici, con l’efferato piacere di essere ascoltato e con tanta attenzione.
Fino a quando, il quarto o quinto pomeriggio che trascorrevano a Novate, a sentir parlare di una ragazza da poco per la quale anni prima lui si era molto tormentato, quel magro corpo allungato sul divano prima si accartocciò come una carta che brucia, poi esplose in un grido selvaggio.
A me non importa proprio niente di quella né di nessun’altra, si precipitò a dire lui. A me adesso importa solo di te.
Lei si riscuote, si raddrizza: sarebbe… che tu non avresti che me e io non avrei che te? Non mi sono mai trovata in questa situazione, e si guarda attonita intorno. Ma perché no?
A lui parve di essere Pigmalione reincarnato, lo scultore che rende viva la statua di donna che ha creato. S’intenerì e le fece una carezza sul ginocchio.
Nei dieci giorni che seguirono Caterina chissà perché aveva tutti i pomeriggi occupati. Scemenze, scemenze, sbuffava, ma non posso sottrarmi. Viene gente dall’estero e mio padre chiede la mia presenza.
Lui dopo la scuola rimaneva in città, in centro, vagando per librerie e negozi, e rincasava soltanto la sera. Poi lei tornò: una mattina, in sala professori, incurante dei presenti, Sartori o altri, con un disperato “non ne posso più”.
I campi intorno a Novate erano bianchi di brina. Un’interminabile mezz’ora di macchina con lei accanto, muta, inaccessibile, e fuori, tra fabbriche e case, quel candore festivo eppure desolato. Appena entrati in casa, lei aveva gettato il cappotto su una sedia, era andata dritta in camera e senza tirare le tende aveva cominciato a spogliarsi. La magrezza del suo costato, la chiazza nera del pube, i capezzoli che sembravano due lamponi, e le due braccia scarne che lo avvinghiano, in un’evidente smania di arrivare al congiungimento.
Le donne amano i preliminari, questa no. Al bacio la bocca si apre ma rimane inerte, come non lo sentisse, e ai morsi che lui le dà sul seno lascia soltanto fare, non la eccitano, solo il ventre freme e aspetta, ma quando lui le bacia il sesso ha una contorsione che sembra sconfinare nel dolore: vieni tu, vieni tu, sussurra, e spalanca le cosce. Lui si rizza, appoggia le mani ai lati e s’immerge, ma il su e giù è ormai breve e non lascia capire cosa lei provi, finché lui la dimentica e si dà gemendo, a occhi chiusi, al proprio piacere. E lei? Segni non ne ha dati, e chiederglielo è impossibile. E il dopo: l’abbraccio è sciolto, i due corpi ricadono uno di qua uno di là. Anche questo non è da femmina. Dopo il coito la femmina è come se volesse essere rassicurata da altri baci e abbracci che il maschio non l’ha censurata per essersi concessa e che le vuole anche bene.

 

Lui allora capiva ancora poco dell’umano, ma ai particolari della pantomima sessuale era in genere già molto attento. Questa volta però non ne tenne conto. Era acciecato dall’innamoramento, e al tempo stesso vedeva con sgomento che nella piena dell’amore galleggiava come una viscida medusa una lusinga: Caterina Decleva rappresentava per lui i ricchi e i potenti. Ma lei per fortuna non se ne rendeva conto.
A Novate né questa volta né le successive si dissero più nulla di significativo. Andavano subito a letto, in quella stanza sempre un po’ fredda, e in un quarto d’ora era tutto finito: per Caterina baci e carezze erano evidentemente solo un prezzo da pagare per arrivare in fondo – e il fondo cos’era? Come per i maschi il successo narcisistico dell’orgasmo? E ci arrivava?
Io alle tenerezze non ci sono abituata, disse una volta con tormento – e pareva sincera – io sono…io sono una primitiva, io sono un po’ come i maschi.
Vieni una sera, diceva lui, così poi resti a dormire. Non sarebbe bello?
Sì, faceva lei distratta, io però fuori casa non riesco a dormire. Non prendo sonno se non nel mio letto.
Ristoranti, locali, piano bar, lui l’accompagnava a casa e rincasava da solo alle due, alle tre, ubriaco di stanchezza. Un miracolo che in macchina, sulla strada di Novate, non avesse mai un incidente. E non c’era una volta che non tornasse, lusingato sì ma anche ferito – dal mondo di lei, dagli scorci di vite di lusso che intravedeva nei suoi discorsi, senza che lei volesse. Erano per lui come una lama di luce da sotto una porta di ferro.
Una sola volta lei lo esaudì: venne di sera e restò a dormire. Perché, disse, a casa mia in via Mozart c’è “l’inferno”, e aveva aggiunto: lo sai che tu sei la mia salvezza? Lui era impazzito di gioia. Come la mattina dopo, quando partendo da Novate per la scuola, premendo il bottone dell’ascensore lei aveva buttato là: io i miei e via Mozart e tutto l’aborro, lo disprezzo. Io non vorrei che una vita semplice, con un uomo che amo.
Lui si era chiesto: e potrei magari essere io?
Così era venuto marzo e la settimana di Pasqua. Prima di partire per New York Caterina gli aveva regalato il “Parsifal” di Wagner: io, aveva detto, per la musica non ho pazienza, ma questa a te piace di sicuro. E lui si era chiuso in casa e fino alla sera dell’Angelo non aveva ascoltato che quel CD facendo fuori tutti gli alcoolici che possedeva, e la sera dell’Angelo le scrisse una lettera d’amore. Vorrei di più, vorrei di più, diceva, vorrei che fossimo tutt’uno.
Mai scrivere lettere dalla solitudine delle vacanze.
La lettera fu depositata a scuola il martedì mattina dopo Pasqua, ma Caterina non comparve che il pomeriggio al consiglio, e il consiglio durò fino alle sei. Era una serata di vento, di straordinaria limpidezza e gli alberi erano pieni di gemme. Hai ricevuto? chiese lui. Già, la lettera, fece lei secca. Vogliamo parlarne? fece lui. Lei alzò le spalle: se proprio vuoi.
Voglio, disse lui.
Dunque io dò troppo poco, io non faccio tutt’uno con te.
Non era esattamente questo che lui le aveva scritto.
Intanto erano saliti in macchina.
Io non avrei abbastanza spazio per il dottor…, esclamò lei intrecciando nervosamente le mani e sillabando nome e cognome di lui, nel che risuonò in quel momento qualcosa di umiliante e di ostile.
Lui non sapeva che rispondere. Attraverso il traffico serale stavano andando in via dei Giardini, dove lei era invitata a una cena. Qui si fermarono, sotto gli alberi, davanti a un palazzo buio. Quando ci vediamo?
Lei non rispose.
Ma non ero la tua salvezza? tentò lui d’ironizzare.
Lei si coprì la faccia.
Lui disse: però tu non sei felice!
Non è vero, reagì lei. Chi ha detto questo? E poi, diavolo, chi di noi è felice? Ma non capisci che chi ha fallito sono io?
No, semmai io che non ti offro abbastanza, rispose lui a cuore aperto.
No, tu sei magnifico. Sono io che speravo di potermi immergere…
E che ci vuole? rise lui con una stupida speranza.
Lei lo guardò scoraggiata:
Credi che sia facile? Che la gente lo faccia, così, come se niente fosse, di tirare un respiro profondo e poi giù, in apnea, in un amore? Ah, troppe cose io dovrei cambiare.
E cambiale.
Povero lui. Aveva detto l’ultima cosa che avrebbe dovuto dire.

 

 

Una sera riuscì ancora a trascinarla a dormire a Novate. E fu l’ultima. Aveva avuto l’intuizione di dirle che aveva la febbre e che aveva paura a passare la notte da solo. A questo futile motivo lei s’intenerì e disse: arrivo. Lui esultò. Non aveva ancora imparato che tanta gente s’impietosisce quanto meno la cosa merita e che un sentimento simulato, qual era la sua paura, ha tante volte più effetto di uno vero.
Quella notte lui, che non aveva mai odiato, provò che cos’è l’odio. Nel buio tombale della stanza – lei non poteva dormire che nel buio assoluto – al ticchettio della sveglia, lei ferma come un morto, neanche il respiro si sentiva – immaginò di ammazzarla. Il coltello da cucina, lo squarcio nella pancia, coperte e materasso pieni di sangue, nemmeno un grido, e lei che non si muove più. E il trionfo di quando sarebbe venuto chiaro: i primi rumori dei camion, delle saracinesche che si alzano, e lui che alle sette e mezzo esce, come tutta la gente che va al lavoro, prende il suo giornale, il suo cappuccino, poi va a piedi alla polizia, il posto più vicino è alla stazione, e là si siede, tranquillo, un uomo nuovo, con la mano sul giornale, di fronte al funzionario. Che cosa desidera? E lui scoppia in una clamorosa risata: sono un assassino.
Ora in alto, dalle tapparelle, passava un filo di luce. Caterina, ancora assonnata, girandosi verso di lui, pigolò con voce innocente ma che ora è?

Era aprile, maggio, giugno, e Caterina a braccia e gambe nude, già abbronzata, in sandali, in semplici abiti di cotone, tutti i fine settimana via, sul Ligure, sul Tirreno, sull’Egeo. Un’ incredibile esplosione di vita. Sai che è come se ritornassi a vedere gli uomini? ebbe la sfacciataggine di dirgli una sera. Lui rise: pura contrazione muscolare del viso.
Gli ultimi incontri sono come notturni illuminati da lampi. Lei che in una passeggiata serale a porta Genova – lui ama le vecchie stazioncine ferroviare della città che vanno in disuso – a un tratto, prendendolo sottobraccio, gli comunica: sai che mi sono comprata una casa? Basta con mio padre, con via Mozart, ti pare? Vuoi vederla? E lui come un automa dice sì e la segue: corso Magenta, una mansarda in ristrutturazione, roba di lusso. Dalle finestre si vede Santa Maria delle Grazie.
La settimana dopo lui la invita a cena a Novate: lei esita, ormai cerca sempre delle scuse, ma poi cede sentendo che lui ha cucinato un piatto esotico – è ridicolo ma lui sa che per quelli come lei può essere un’attrattiva, una giustificazione.
E poi fanno anche l’amore, a finestre aperte, e con l’ora legale è chiaro fino alle dieci.
Tu riesci sempre a incastrarmi, si lamenta lei alla fine, e io non dovrei, non dovrei.
Perché non dovresti?
La risposta ovvia sarebbe: perché così ti fai delle illusioni. Alle dieci meno un quarto se ne va.

Un pomeriggio di calura sono seduti fuori al caffè in piazza Vetra, affranti da una riunione per gli scrutini. Vedi, dice lei a un tratto, l’importante è non pensare, mentre tu non fai altro che costringermi a pensare.
E non va bene? ride l’improvvido.

Era diventato un ragno, in agguato. Ma mancavano pochi giorni alla fine, e la fine venne, inaspettata nonostante tanti segnali lampanti, una mattina che all’ora di entrare a scuola era scoppiato un tremendo temporale. Lei aveva avuto un tamponamento, aveva dovuto lasciare la macchina e fare un lungo tratto di strada a piedi. Il viso bagnato, il vestito appiccicato alle spalle, i capelli gocciolanti come i naufraghi nei film, gli si piantò davanti, in sala professori, in piena luce e staccando bene le parole gli disse:
Non voglio più vederti, più, più, hai capito? Io non voglio sentire, pensare, non ne sono capace e mi fa solo soffrire.
Cosa rispondere? Che pensare, soffrire è il senso di tutto?
Lui si girò verso lo scaffale, verso il suo scomparto. Si sarebbe strappato la carne di dosso.

 

Per rifarsi, per riprendere a volere un po’ di bene a se stesso, gli ci vollero mesi. Lei nel frattempo aveva cambiato scuola o chissà dov’era andata, e anche lui l’anno dopo lasciò il Cattaneo: aveva avuto un contratto di ricercatore all’Università.
La rivide, dopo anni, una volta e mai più, una sera che tornava a casa, giù nel metrò di piazza Duomo, davanti al giornalaio: si trovarono all’improvviso faccia a faccia. Lei spalancò gli occhi: vieni qui, un abbraccio, un abbraccio! e fu una festa di come stai e come va e che fai. Sono all’Università, disse lui asciutto. Lei s’illuminò: ce l’hai fatta?! Io lo sapevo che sei un genio, ah beato te, studiare, studiare, anch’io avrei voluto. Invece mi è toccato entrare nell’impresa di mio padre.
Col metrò andavano nelle due direzioni opposte. Oddio sto facendo tardi, disse lei all’improvviso. Lo baciò di nuovo sulle due guance e imbucò la discesa: ma ci rivediamo, la nostra impresa è su internet. E da mezza discesa gli gridò ancora: telefonami!
Lui la odiò.

 

Altre donne, poi una moglie, e Caterina gli era tornata in mente sempre più di rado. Erano dei semplici flash: il suo vestito bagnato incollato sulle spalle la mattina del temporale, la faccetta dissimmetrica piena d’ira, la luce sul comodino della casa a Novate, una sera in macchina con lei a un semaforo rosso. Nient’altro. Ma confitta nella carne gli era rimasta la sopraffazione: la sopraffazione di classe. E, strano, come le sopraffazioni, le esclusioni ti tocchino nel corpo. Anzi nel sesso. E’ come se ti sputassero sui genitali, e questo è più terribile di uno sputo in faccia.

 

[Immagine: © Katharina Jung, Heaven II (particolare)].

2 thoughts on “Un amore. La farfalla

  1. Come dire meglio di così che i rapporti sentimentali sono attraversati dalle differenze di ceto, che poi sono -al fondo- differenze di classe? Brava.

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