di Dario Voltolini

 

[Questo intervento è stato tenuto al Circolo dei Lettori di Torino venerdì 9 novembre 2019 nell’ambito del Festival della Tecnologia (7-10 novembre 2019), organizzato dal Politecnico di Torino nel 160° anniversario della sua fondazione].

 

 

Vorrei parlare di Nikola Tesla, figura affascinante di scienziato e inventore, una stella nel firmamento dell’ingegneria. Vorrei parlare di lui, ma soprattutto affrontare un tema con il suo aiuto.

Prima, però, devo fare una specie di introduzione.

Tutti noi sappiamo intuitivamente qual è la differenza tra inventare e scoprire. Sappiamo stabilire con sicurezza che cosa sia un’invenzione e cosa sia una scoperta.

Nessuno pensa che la stampa a caratteri mobili e il motore a scoppio siano stati scoperti, così come nessuno pensa che la penicillina sia stata inventata o sia stata inventata la stele di Rosetta.

In prima analisi possiamo dire di concordare tutti sul fatto che qualcosa che prima non esiste, una volta inventato esiste. Così come concordiamo sul fatto che qualcosa che non è conosciuto, una volta scoperto è conosciuto. Quindi, è evidente, si inventano cose che non esistono e si scoprono cose che esistono.

 

Il Vocabolario Treccani alla voce “Scoperta” esplicitamente fa una distinzione fra scoperta e invenzione:

Scoperta: Acquisizione alla conoscenza e all’esperienza umana di luoghi, nozioni, fatti, oggetti, o anche di leggi, proprietà scientifiche, e simili, prima ignorati (per la fondamentale differenza tra scoperta e invenzione, vedi “invenzione”, n. 1 a)

 

E rimanda quindi a “invenzione”, dove si legge:

Invenzione: Ideazione, creazione o introduzione di oggetti, prodotti o strumenti nuovi, o anche soltanto di un metodo di produzione materiale o intellettuale, e in genere di quanto può rendere più facile il lavoro, determinare attività nuove, contribuire al progresso della conoscenza e delle abilità tecniche; a differenza della scoperta, che riguarda il ritrovamento o l’individuazione di cose, realtà, relazioni sconosciute ma già esistenti, l’invenzione è per lo più legata allo studio, alla sperimentazione, alla ricerca empirica o scientifica: l’invenzione della bussola, della stampa, del telescopio, della macchina a vapore, della radio; fare, sfruttare, perfezionare un’invenzione; invenzione fortunata, di grande avvenire, d’immensa portata, d’imprevedibili conseguenze; brevetto d’invenzione, attestato che l’autorità competente rilascia all’autore di un’invenzione, con diritti esclusivi per un certo numero d’anni. Con significato concreto, strumento, macchina, sistema recentemente inventato: mostrare, illustrare, ammirare, o modificare, perfezionare un’invenzione. Con accezione più specifica, il primo modello di qualsiasi oggetto che potrà poi essere riprodotto o imitato.

 

Se le cose stanno così, possiamo dire che scoprire riguarda ciò che non conosciamo ancora e inventare riguarda ciò che non esiste ancora.

Ma sarebbe un errore credere che esista un mondo dato, fatto e finito che noi a poco a poco scopriamo, fino a che non l’avremo scoperto del tutto, completamente.

Basta che qualcuno faccia un’invenzione che quel mondo si arricchisce di un elemento, quindi l’idea che il mondo da scoprire sia fatto e finito e solo per la nostra ignoranza non lo conosciamo tutto, non sta in piedi.

Ci sono gli inventori!

Ma c’è, dentro il significato, o meglio l’etimo, di “inventare”, un sussurro un po’ strano, che mette in una prospettiva non così semplice la relazione tra “inventare” e “scoprire”.

È davvero così? Cioè l’atto di scoprire non avrà mai le connotazioni creative che ha l’atto di “inventare”? È su questo che si basa la loro apparentemente radicale differenza? Ma se andiamo a vedere dentro l’etimologia di “inventare” possiamo scoprire (non me lo sto inventando!) che deriva dal latino invenire, che significa “trovare”.

Trovare, con l’immaginazione o l’ingegno, e per lo più attraverso studî, esperimenti, calcoli, ecc., qualche cosa che prima non esisteva.

Non è sorprendente? Nessuno dubita che “trovare” sia un sinonimo quasi perfetto di “scoprire”. Quindi c’è come minimo una sovrapposizione tra “scoprire” e “inventare”, siccome dentro “inventare” c’è qualcosa come “trovare”, cioè “scoprire”.

Solo che l’inventore scopre “con l’immaginazione o l’ingegno, e per lo più attraverso studî, esperimenti, calcoli, ecc., qualche cosa che prima non esisteva”!

Ma allora anche “scoprire” è un atto creativo!

 

Messa così, la differenza tra “inventare e “scoprire” non appare più così netta e ovvia come ci sembrava intuitivamente che fosse. E l’inventore, una figura molto ampia che comprende gli ingegneri, è un soggetto creativo, potremmo dire “creativo per eccellenza”: fa esistere cose che fino a quel momento non esistevano.

Come mai nel pregiudizio comune la figura dell’ingegnere sta dalla parte dell’arido studio, della severità degli interminabili algoritmi, nella quotidiana fatica di mettere su delle applicazioni di qualcosa a qualcos’altro, nella frequentazione con gli stati più sordi della materia, con le forme più prosaiche dell’energia? Come mai nel pregiudizio comune la figura dell’ingegnere non abita lo stesso palazzo in cui abitano i poeti, i pittori, i musicisti, i ballerini, gli chef?

Sembra al contrario – dal punto prospettico in cui ci siamo messi, quello della creazione o almeno della creatività – che l’ingegnere sia addirittura il principale dei creativi.

La vecchia e però non del tutto demolita differenza fra la cosiddetta cultura umanistica e quella scientifico-tecnologica riecheggia ancora. Aridi gli studi tecnico-scientifici, creativi e variopinti quelli umanistici, si continua in qualche modo a pensare. Ma, anche senza produrre l’inquietante controesempio di uno storico (cioè un umanista) che nella sua materia possa essere un creativo, nel senso di inventare fatti storici anziché di scoprirli, vediamo che tutte queste differenze sono di superficie e non occorre tanta intelligenza per scoprirlo.

Questa lunga e spero non del tutto noiosa premessa ha bisogno ancora di un piccolo tassello per arrivare dove vorrebbe arrivare.

D’accordo tutti, allora: l’inventore che crea cose che prima non esistevano, le scopre “con l’immaginazione o l’ingegno, e per lo più attraverso studî, esperimenti, calcoli, ecc…”.

Ma le scopre dove? Dov’erano, se non c’erano?

 

Su questa domanda, a cui – spoiler – non risponderò per davvero, ma solo con un’ipotesi poetica, si innesta la figura di Nikola Tesla.

La fama di Tesla è grande e duratura. Un’unità di misura ha il suo nome, come fu stabilito nel 1960 a Parigi dalla Conferenza Generale dei Pesi e delle Misure. Il tesla viene utilizzato come unità di misura dell’induzione magnetica. L’auto elettrica che porta il suo nome richiama la sua verve ecologista ante litteram (e forse anche, dato il prezzo, la sua noncuranza per il denaro). Musei, parchi a tema sono a lui dedicati. Nato a Smiljan, nell’attuale Croazia, da famiglia serba, il 10 luglio1856, morto il 7 gennaio1943 a New York, fu un poliglotta, un brevettatore forsennato. A lui dobbiamo la corrente elettrica alternata e una svariata quantità di altre cose. La sua personalità resta un rebus da decifrare, una congerie di opposti: affascinante ma asessuato; dedito alla vita sociale, soprattutto se al di sopra delle sue reali possibilità, ma riservato e solitario; sentimentalmente non pervenuto ma quasi innamorato dei piccioni, segnatamente di una colomba; in perenne ricerca di quattrini ma sostanzialmente disinteressato alla ricchezza; personaggio da rotocalco ma insondabilmente rintanato. E, come si riassume ormai di prammatica, di ferrea logica e di folle visionarietà.

Tesla, allora. Perché lo convochiamo qua adesso?

 

Torniamo al Vocabolario Treccani, là dove suggerisce, definendo “scoperta”, di andare a vedere “invenzione” per la fondamentale differenza tra scoperta e invenzione.

Io penso che al di là del senso comune intuitivo che ci permette di dialogare e di comprenderci reciprocamente con una accettabile approssimazione, non è difficile vedere che tra “scoperta” e “invenzione” la differenza non è poi così fondamentale. Sarei tentato di dire che c’è qualcosa di più fondamentale ancora che lega – anziché separarle – la “scoperta” e l’“invenzione”. Purtroppo non è corretto dire “più fondamentale”, poiché qualcosa o è fondamentale o non lo è. Non ci sono gradi per l’aggettivo fondamentale. Nonostante ciò io continuerei su questa linea, cercando cosa c’è di più fondamentale della differenza tra “scoperta e invenzione” e convocando per l’appunto Nikola Tesla a tal proposito.

Mi rifarò a qualche avvenimento della vita di Tesla, per proporre esempi di questo più profondo fondamento. Per proporre Tesla come emblema di questo più profondo fondamento.

Esporrò quindi 9 punti riguardo alla figura di Nicola Tesla.

 

Punto Uno. Il fratello di Nikola.

Scrive Tesla: “Avevo un fratello dotato di un’intelligenza straordinaria, uno di quei rari fenomeni mentali per i quali neanche l’investigazione biologica è riuscita a dare una spiegazione. La sua morte prematura gettò i miei genitori terrestri nel dolore. A quel tempo avevamo un cavallo che c’era stato consigliato da un nostro caro amico. Si trattava di un magnifico esemplare di razza araba, dall’intelligenza quasi umana, ed era curato e amato da tutta la famiglia, anche perché una volta salvò la vita a mio padre, in circostanze particolari. Una notte d’inverno infatti mio padre venne chiamato per un compito urgente e, mentre attraversava le montagne infestate dai lupi, il cavallo si spaventò e scappò via, facendolo cadere violentemente a terra. Il cavallo fece ritorno a casa sanguinante ed esausto, ma immediatamente dopo che fu lanciato l’allarme per la scomparsa di mio padre scappò via di nuovo, ritornando nella foresta. Prima ancora che il gruppo di ricercatori si fosse messo in moto, il cavallo tornò da mio padre, il quale aveva ripreso coscienza; egli rimontò subito in groppa, senza neanche rendersi conto di essere rimasto per diverse ore nella neve. Questo cavallo fu però responsabile delle ferite che causarono la morte di mio fratello. Io fui testimone della tragica scena e sebbene da allora siano trascorsi 56 anni, la memoria visiva della disgrazia non ha perso nulla della sua forza. Il ricordo dei suoi successi faceva sembrare vano ogni mio sforzo, al confronto. Qualsiasi cosa facessi, anche se meritevole, faceva avvertire ai miei genitori ancora di più la perdita di mio fratello. Crebbi così con una pessima fiducia in me stesso”.

Questo inizio di autobiografia ci permette di vedere Nikola Tesla da un punto di vista leggermente più complesso di quello da cui lo guardiamo normalmente, che vede in lui un genio assoluto dall’intelligenza forse sovrumana. In una famiglia dove persino i cavalli erano intelligentissimi, il vero genio, il vero talento scintillante non era Nikola, ma suo fratello. Almeno, a detta di Nikola.

La pessima fiducia in se stesso non impediva però a Nikola Tesla di dare di sé l’idea di un uomo intelligente e di talento. Magari sotto sotto si reputava un genio, sì, ma non un genio assoluto: caso mai quello era il fratello.

 

Punto Due. La moneta non data.

Sul giudizio di Tesla circa la propria intelligenza è interessante un aneddoto che lui stesso racconta nella sua autobiografia.

Scrive Tesla: “Tuttavia ero molto lontano dal venir considerato un ragazzo stupido, giudicando anche da una vicenda di cui ancora oggi conservo un forte ricordo. Un giorno alcuni consiglieri della città passeggiavano per una strada dove mi trovavo a giocare con altri ragazzi. Il più anziano di questi gentiluomini, una persona molto ricca, si fermò per regalare una moneta d’argento a ognuno di noi. Arrivato il mio turno si bloccò, dicendomi: «Guardami negli occhi». Fissai il suo sguardo penetrante e tesi la mano per ricevere la preziosa moneta, quando, con mio grande stupore, mi disse: «No, basta; tu non puoi avere nulla da me, sei troppo sveglio»”.

Possiamo, a livello di battuta, notare come sembrerebbe esserci qui, in nuce, tutto il futuro sviluppo del complicatissimo rapporto di Nikola Tesla con il denaro e con i ricchi.

 

Punto Tre. Le visioni con i lampi.

Qui ci avviciniamo al nucleo della mente di Tesla e cominciamo a vedere come questa abbia a che fare con la piccola confusione fra “inventare” e “scoprire” che abbiamo messo insieme facendo slittare il significato delle due parole un poco uno sull’altro, a differenza di quello che normalmente è la nostra intuizione standard di parlanti.

Scrive Tesla: “Durante l’adolescenza ho sofferto di una particolare depressione causata dall’apparizione di immagini, spesso accompagnate da intensi lampi di luce, che mi impedivano la vista degli oggetti reali e interferivano con i miei pensieri e le mie azioni. Erano immagini di situazioni e di scene che avevo già visto nella realtà, non relative a fatti o oggetti immaginati. Quando qualcuno mi parlava di un oggetto, riuscivo a visualizzare l’immagine di quell’oggetto in modo talmente vivido da non distinguere se ciò che vedevo fosse tangibile o no. Tutto questo mi causava grande sconforto e angoscia. Nessuno degli studiosi di psicologia e di fisiologia che consultai riuscì mai a spiegarmi questi fenomeni in modo soddisfacente. Sembravano essere qualcosa di unico, anche se probabilmente vi ero predisposto: sapevo che anche mio fratello soffriva delle stesse visioni”.

La frase “riuscivo a visualizzare l’immagine di quell’oggetto in modo talmente vivido da non distinguere se ciò che vedevo fosse tangibile o no” è particolarmente significativa. L’oggetto che Tesla aveva lì davanti e che prima non c’era, lo scopriva o lo inventava? Lui stesso non avrebbe saputo rispondere. Ed era angosciato. Era angosciato dal proprio talento, perché tanto della vita creativa di Tesla deriva da questa sua capacità. Il fatto che questa capacità l’avesse anche suo fratello è molto toccante e suggestivo, secondo me.

Proseguiamo nella lettura del racconto di Tesla, dove vediamo come lui passi dal ricordo di quell’angoscia alla sua trasformazione in un progetto, per quanto non realizzato.

Scrive Tesla: “La mia teoria è che le immagini fossero il risultato di un’azione di riflesso dal cervello alla retina, in condizioni di elevata stimolazione. Sicuramente non erano allucinazioni come quelle che si verificano durante la malattia o in presenza di mentalità deboli, poiché in tutte le altre situazioni io ero assolutamente tranquillo e rilassato […] se la mia ipotesi è corretta, potrebbe essere possibile proiettare su uno schermo l’immagine di qualsiasi oggetto così come lo si immagina, rendendolo visibile. Una tale invenzione rivoluzionerebbe tutte le relazioni umane. Sono convinto che prima o poi questa meraviglia può e deve essere realizzata; aggiungo solo che mi sono applicato molto per la soluzione di questo problema: per adesso sono stato capace solo di riflettere un’immagine che avevo visto nella mia mente nella mente di un’altra persona in un’altra stanza”.

Nel vocabolario della psicologia, questa dinamica mentale di Tesla è chiamata “sinestesia”. Ha a che fare con il passaggio da una stimolazione sensoriale di uno dei nostri sensi alla induzione di una stimolazione sensoriale in un altro dei nostri sensi. Odo un suono e di conseguenza vedo un colore. Odoro una tisana di tiglio e mi viene in mente un capolavoro da scrivere. In letteratura si usa la parola “sinestesia” per indicare una delle caratteristiche peculiari della poetica di Baudelaire. E così via. Non siamo lontani dall’osservare come l’immaginazione tecnica e quella letteraria (e tutte le altre) scaturiscano dalla stessa fonte.

 

Punto Quattro. Le visioni dei “motori”.

A Tesla non vengono in mente poesie, non vengono in mente romanzi, non vengono in mente sinfonie, ma vengono in mente motori, ad esempio. Mi sembra che però il processo sia il medesimo, o quantomeno sia molto simile. Mi ricordo che da bambino leggevo ghiottamente il vocabolario di italiano dove “scoprivo” un sacco di parole che, ovviamente, non conoscevo. E poi nelle composizioni a scuola cercavo di usarle immaginando frasi che le contenessero. Fu così che scrissi un giorno di aver visitato un palazzo luteo e fatiscente.

Scrive Tesla: “Fu così che iniziai a viaggiare, ovviamente dentro la mia mente. Ogni notte, quando ero solo – e talvolta anche durante il giorno – iniziavo i viaggi per visitare […] nuovi posti, nuove città e nuovi paesi. Io là ci vivevo, incontravo persone e facevo nuove amicizie e conoscenze e, sebbene sembri incredibile, tutti con me erano affettuosi e le loro manifestazioni erano intense come quelle di coloro che incontravo realmente. Continuai a comportarmi così fino ai 17 anni, quando i miei pensieri iniziarono a concentrarsi seriamente sulle invenzioni. Mi resi conto con grande piacere della facilità con la quale riuscivo a visualizzarle. Non avevo bisogno di modelli, disegni o esperimenti. Potevo raffigurarle nella mia mente come se fossero reali. […] Per me è la stessa cosa far girare la turbina nella mia mente oppure testarla nel mio laboratorio. Riesco perfino a capire se è sbilanciata. Non c’è differenza, il risultato è lo stesso. Così facendo riesco a sviluppare un concetto in modo rapido ed esatto senza toccare niente. Quando ho apportato ogni possibile miglioramento alla mia invenzione, dopo aver eliminato ogni difetto, posso concretamente costruire il macchinario finito, così come è stato messo a punto nella mia mente. Invariabilmente il dispositivo si comporta come previsto, la fase sperimentale si svolge così come l’avevo progettata. In venti anni non c’è stata una sola eccezione. Perché dovrebbe essere altrimenti?”

A me piace pensare che il luogo dove Tesla va e incontra persone con lui benevolenti esista realmente, da qualche parte: una parte magari non meramente geografica, ma nemmeno meramente annidata solo nella mente di Nikola. Mi piace anche pensare che tra le persone che Tesla incontra in questo posto che lui chiama “là” ci sia suo fratello, Dane, il quale gli passa il progetto di una turbina. Vista così, è impossibile stabilire se la turbina Nikola Tesla la inventi o la scopra.

 

Punto Cinque. Pochissimi amici.

Nikola Tesla incontrava nei suoi viaggi “là” molte persone e faceva molte amicizie e conoscenze. Purtroppo, invece, “qua” le cose stavano un po’ diversamente e Tesla di amici non si può veramente dire se ne avesse. Ma ecco una singolare eccezione, che a me come scrittore commuove anche un po’. Scrive Tesla: “Un giorno mi furono consegnati alcuni volumi di nuova letteratura diversa da qualsiasi cosa avessi mai letto prima e così avvincente da farmi dimenticare completamente il mio stato senza speranza. Erano le opere di Mark Twain … Venticinque anni dopo, quando incontrai il signor Clemens [cioè Twain] e stringemmo un’amicizia tra di noi, gli dissi di quell’esperienza di lettura e fui stupito nel vedere un grande uomo di risate scoppiare in lacrime”.

 

Punto Sei. La visione futura.

Tesla aveva doti di preveggenza indiscutibili. La sua visione del futuro contemplava invenzioni che poi sarebbero effettivamente state prodotte, si dice che avesse previsto l’anno in cui sarebbe finita la Grande Guerra, aveva immaginato ovviamente possibile il teletrasporto sia nello spazio sia nel tempo, aveva avuto la visione di un impensato “muro di luce”, tanto enigmatico quanto poetico. Sono innumerevoli le visioni di Tesla e anche molto poco effettivamente documentate: sono queste le derive che spostano a poco a poco la figura di Tesla in quel territorio dove da scienziato geniale si scivola verso lo scienziato pazzo, poi verso il solo pazzo, per finire la corsa sul mero cialtrone. Ma questa deriva la lascerei al gossip e mi terrei invece stretta e cara la figura di un uomo che ha dato un bello scossone alla distinzione fra ciò che c’è e ciò che non c’è. Mi sono fatto un’idea su un punto verso cui tutta la persona di Tesla era orientata. Un punto da vero visionario, ma da visionario concreto.

 

Punto Sette. Energia per tutti.

Io credo che tutta l’attività e la fantasia e il talento e l’immaginazione e la volontà di Nicola Tesla mirassero a questo: riuscire a trovare il modo per gli esseri umani di utilizzare l’energia che esiste da sempre e per sempre e dappertutto, gratuita, inesauribile e non consumabile, indeterminatamente rinnovabile. Quella che fa muovere i corpi celesti. Quella che per Dante si chiama “amore”, in un’accezione così poco sentimentalistica che ci viene difficile immaginarla veramente.

 

Punto Otto. Le perle.

C’è una piccola cosa di Tesla che qui vorrei ricordare. La trovo simpatica, strana, un bagliore di follia – un bagliore, non un’ombra.

Tesla odiava le perle. Se vedeva una collana di perle, un anello con la perla, un orecchino con le perle, si incazzava come una bestia.

 

Punto Nove. Divisibile per tre.

Questo punto, il numero nove, l’ultimo di questa breve gita esplorativa intorno a Tesla e ai concetti di invenzione, scoperta, immaginazione e così via, non ha alcun contenuto. Esiste per onorare un’altra follia di Tesla, quella che riguarda il numero tre e i suoi multipli. Prima di rientrare in casa faceva tre giri intorno all’isolato, tanto per dirne una. Mi piace ricordare questo oggi, sabato 9.

 

Creare. Ingegneria e letteratura.

Nikola Tesla è finito dentro varie opere creative. In un film, ad esempio, un frammento del cui trailer vedremo tra poco, in cui l’attore che veste i suoi panni è David Bowie.

Ma soprattutto Nikola Tesla è il protagonista di un romanzo splendido, scritto in maniera eccezionale, di Jean Echenoz. Si intitola “Lampi” e vi consiglio di leggerlo, e di leggere anche, di Echenoz, “Ravel” e “Correre”, che compongono con “Lampi” una trilogia molto importante. Vi leggo ora tre passi di una intervista di Francesco Prisco a Echenoz a proposito di “Lampi”, in cui finzionalmente Nikola Tesla è chiamato semplicemente “Gregor”.

 

“Signor Echenoz, che cosa la affascina di più della figura di Nikola Tesla, protagonista «reale» del suo nuovo romanzo?”

 

“Anzitutto la sua dimensione disperatamente romanzesca, che innesca un desiderio di narrazione e suscita un parallelo desiderio di fiction, di invenzione, di possibile infedeltà al reale: è una delle ragioni che mi hanno spinto, in questo romanzo, a dargli un nome diverso”.

 

«Lampi» è scritto al tempo presente, con una narrazione che alterna terza, a tratti prima e addirittura seconda persona. I riferimenti cronologici sono volutamente sfumati, come se si trattasse di un sogno. La sensazione è che abbia voluto scrivere un racconto mitologico intorno alla figura di Gregor. Un «eroe» che guarda caso nasce tra i lampi, come fosse un dio greco. Era questa la sua intenzione?”

“Certo. La vita di Nikola Tesla si presta benissimo a questa dimensione un po’ mitica. Ma in fondo qualsiasi vita può dare origine a una narrazione eroica, ed è una delle ragioni per cui il libro conclude una serie. Se continuassi nella stessa direzione, non avrei più motivo di fermarmi. E dal momento che scrivere romanzi è, per così dire, il mio lavoro fondamentale, ho voglia di tornare alla fiction: non a caso, nella sequenza delle tre vite, «Lampi» è quella dove l’invenzione ha maggior peso”.

 

“Il suo ritratto di Tesla fa seguito a quello di «Ravel» e a quello di Zátopek realizzato per «Correre». Quali tratti hanno in comune questi tre grandi protagonisti del Novecento?”

“Per prima cosa la solitudine, direi, sia pure in forme diverse. Poi il fastello di contraddizioni che, in una maniera o nell’altra, fonda e complica le loro vite. E senza dubbio l’idea che ciascuna di queste vite sia accecamento votato a un’opera – e, correlata alla precedente, l’idea che quest’opera sottragga loro la vita”.

Per finire vi farei vedere pochi secondi del film “The Prestige” come dicevamo.

 

Dall’inizio a 0.52

 

 

In conclusione, prima di salutarci, torniamo a una parola che abbiamo sentito prima, leggendo la biografia di Tesla, così da rimanere con un’immagine di lui che non ne riduca il mistero e che contemporaneamente lo salvi dal gossip. È una di quelle parole-indizio che la dicono molto più lunga su cosa uno pensa di sé di quanto possano fare pagine e pagine.

Mi riferisco a quando Nikola Tesla, parlando della sua famiglia, qualifichi i suoi come “i miei genitori terrestri”.

Terrestri!

Appuntiamoci questo.

Possiamo farci la domanda se Nikola Tesla, anche frequentatore di dottrine mistiche orientali, lettore dei Veda, possa essere definito “un illuminato”. Questo io non lo so. So però che grazie a lui e alla sua corrente alternata, gli illuminati siamo noi.

5 thoughts on “Nikola Tesla: l’invenzione e la scoperta

  1. Bei tempi, su queste robe e la poesia del METODO vent’anni fa, che sta ancora qui ehehe: https://www.nazioneindiana.com/2007/11/05/metodo/ . Saluti a Voltolini e grazie per aver condiviso questo scritto.


    METODO

    Se più modelli ammettono un fenomeno
    non sono indipendenti, dunque ragioniamo
    andando al nocciolo. Ma il fenomeno?
    Allora ragioniamo sul fenomeno
    a prescindere dal nocciolo.
    Ragionare sul fenomeno che abbiamo
    centra il nocciolo? Potremmo non servircene,
    non accorgercene.
    Dato il nocciolo, quanto è semplice
    lo studio di un fenomeno?
    Il mio fenomeno??
    Sul fenomeno invento un nocciolo locale.
    Dato un nocciolo, ricavo i suoi fenomeni;
    dato un nocciolo, adatto un mio fenomeno.
    Ragiono sul fenomeno e il mio fenomeno:
    sono uguali? Ragionevolmente uguali?
    Ragiono sul fenomeno in via del nocciolo.

    Penso al nocciolo. Penso, penso, penso
    partendo dal fenomeno.
    Penso al nocciolo. Penso al nocciolo.
    Penso al nocciolo partendo dal fenomeno
    o invento un nocciolo che regga il mio fenomeno?
    Un nocciolo, fenomeni;
    un fenomeno, il mio nocciolo locale;
    più fenomeni, più noccioli locali.
    Dai noccioli locali il solo nocciolo, se c’è.
    Dal nocciolo fenomeni,
    il mio fenomeno. E il fenomeno?
    Un fenomeno è il mio fenomeno
    ma il fenomeno è un fenomeno?
    Dal mio nocciolo locale il solo nocciolo:
    ho inventato un nocciolo locale
    cercando di scoprire il solo nocciolo.
    Cercando di scoprire il solo nocciolo
    ho inventato un nocciolo locale
    che regge il mio fenomeno.
    Adottando con giustezza un fenomeno reale
    ho fatto una scoperta.
    Studiare serve.
    Sapere di fenomeni serve ad inventare
    scoprendo in via indiretta.

    — tratto da “Ottonale”, Fara Editore, 2006

  2. Mi scuso, per completezza riporto la terza parte del metodo (sopra si e’ persa la cesura “Ragiono sul fenomeno in via del nocciolo. // Penso al nocciolo. Penso, penso, penso” che sdoppiava quel testo), scritta da quarantenne con rigurgito di voce. Mi permetto di aggiungere che il solo poeta che abbia mai sentito vicino a tale mood, ribadito qui da Voltolini per Tesla, fu il Chlebnikov tradotto da Ripellino in poeta al quadrato. Di nuovo, saluti.

    METODO 2014
    Se penso, tengo in mente un sacco
    e non sento. Se sento, devo star
    vuoto per dispormi a vibrare.
    Se vibro, cerco che sia da un impulso
    non riesco ripetendo un movimento.
    Se penso, devo salire su tutto
    e mi stanco. Penso di aver già
    sentito cento e non riesco a sentire
    che venti. Sento di aver pensato
    venti e di poter ancora pensare
    il mio cento. Sto quindi più attento
    che a quello che sento. Il mio corpo
    è macchina che pensa, quando sente
    ma posso contare i pensieri, le parole
    sono i pensieri. Quello che sento è fluido
    corporale. Non riesco a mangiare la carne
    perché la sento vibrare. Il latte lo penso.
    — tratto da “Cinquanta poesie”, Lampi di Stampa, 2015

  3. Ecco un mio saggio breve su intelligenza, creatività, immaginazione…

    Q.i e numero chiuso:
    Il Q.i(o quoziente di intelligenza) è il risultato della seguente formula: (età mentale/ età cronologica) x 100. La media è di 100 punti. Un individuo comunque che ottiene un punteggio tra 90 e 100 ha un’intelligenza nella norma. La frequenza dei punteggi nella popolazione viene rappresentata dalla curva gaussiana. Per misurare il Q.i gli psicologi utilizzano test standardizzati. Nel vocabolario della Treccani alla voce “quoziente” c’è scritto: “d. in psicometria , Q. di intelligenza o intellettuale o intellettivo(abbrev. Q.I), valutazione del livello di intelligenza di soggetti in età evolutiva, espressa con un numero che costituisce il rapporto percentuale tra l’età mentale , valutata con uno speciale test, e l’età cronologica, calcolata in mesi(articolata in 7 livelli che vanno dal massimo di 1,28 intelligenza eccezionale, al minimo di 0,65, oligofrenia per deficienza); tali risultati sono in genere considerati come mera indicazione, in quanto possono variare, anche in forte misura, a seconda del momento di somministrazione del test e del tipo di test utilizzato. Un metodo analogo viene usato a volte anche per adulti, e in questo caso il quoziente esprime il rapporto tra il livello intellettivo del soggetto in esame e quello di un soggetto “medio” della stessa età e condizione socio-culturale”. È una definizione discutibile, ma riesce a dare l’idea di quanto la questione sia controversa. Passiamo oltre. Già nell’impero cinese, nell’antica Grecia e nell’antico Egitto(per diventare scribi) gli individui si sottoponevano a prove di presunta intelligenza. Ma il primo test moderno di intelligenza lo dobbiamo a Binet nel 1905 in Francia. Nel giro di pochi anni questo test venne esportato negli USA e in Inghilterra. Colui che inventò il concetto di Q.i fu Stern nel 1912. I test di intelligenza divennero famosi nella prima guerra mondiale in America quando vennero somministrati i test Alpha e Beta alle reclute dell’esercito per selezionarle. Oggi, anno dopo anno, si diffondono sempre più anche in Italia. Oggi anche nel nostro Paese se ne fa largo uso nelle aziende, nelle università, nei concorsi pubblici, tra militari, in ospedali. Sembra quasi che le organizzazioni si ispirino alla sottocultura dei test e dei quiz televisivi o forse più semplicemente i test sono così diffusi in quanto c’è bisogno solo di carta e penna. Tutti pensano di poter valutare facilmente l’intelligenza altrui: di solito la valutano in base al rendimento scolastico o in base al successo professionale. Gli stessi insegnanti, anche senza una adeguata preparazione psicologica, pensano di poter valutare facilmente l’intelligenza degli alunni. Talvolta, specie nell’adolescenza, i fattori che determinano un buon o uno scarso rendimento scolastico sono altri: ad esempio lo sviluppo psicofisico( una ragazza sviluppata sarà senza dubbio più diligente e quindi più brava di un suo coetaneo ancora non sviluppato) oppure la separazione dei genitori oppure essere vittima di bullismo oppure una sindrome da deficit di attenzione o molto più semplicemente scarso impegno o difficoltà di concentrazione. Quindi per una misurazione attendibile bisogna andare da uno specialista(psicologo, psichiatra o psicoterapeuta): riviste e libri con i test non sono validi scientificamente( i test validi sono protetti da diritto d’autore e non si trovano in alcun libro o rivista). Ma anche i test di intelligenza standardizzati sono perfettibili. Innanzitutto c’è un problema di ordine metodologico. Il Q.i infatti è una misurazione indiretta soggettiva. Faccio un esempio. Misurare con un metro il lato di un tavolo è una misurazione diretta oggettiva. Calcolare l’area di un tavolo è una misurazione indiretta oggettiva. Ma un professore di psicologia ,che voglia ideare una scala di intelligenza , deve dare una definizione operativa di intelligenza(soggettiva). Ad esempio un ricercatore potrebbe definire l’intelligenza come la capacità di adattarsi meglio all’ambiente. Un altro ricercatore potrebbe definire l’intelligenza come la capacità di apprendere. Un altro ancora potrebbe definire l’intelligenza come problem solving. Un altro ancora potrebbe definirla come la capacità di elaborazione di dati. Un altro potrebbe definirla come capacità di astrazione. Per il grande psicologo Piaget l’intelligenza “è ciò che si fa quando non sappiamo cosa fare”. Sono tutte definizioni plausibili, che darebbero luogo a test di intelligenza molto diversi tra loro ed è possibile che, una volta standardizzati, si scopra scarse correlazioni(il coefficiente di correlazione ci dice se due variabili sono in relazione tra di loro. La correlazione è positiva quando la relazione è diretta e le due variabili crescono o decrescono insieme. La correlazione invece è negativa quando è inversa. Il valore ci dice l’intensità di questo rapporto tra due variabili e varia tra 0 e 1(- o +). Nel caso in cui sia 0 allora non c’è alcuna relazione tra le due variabili). Ma la questione della definizione operativa non è l’unico problema di ordine metodologico. Per dirla in termini psicologici alcuni test di intelligenza sono attendibili( nel senso che c’è coerenza dei risultati ottenuti dai soggetti in diversi periodi….almeno per soggetti adulti), ma sono criticabili per quanto riguarda la validità di costrutto per il semplice motivo che l’intelligenza è un costrutto complesso. Probabilmente ci sarebbe più bisogno di studi sperimentali( ricerca di base, formulazione di ipotesi, studi qualitativi, comprensione dei processi), mentre invece attualmente sono stati fatti soprattutto studi psicometrici(ricerche longitudinali, misurazione delle differenze individuali, studi quantitativi). Un altro problema sorge nei soggetti a cui viene somministrato il test. Con buona pace dei comportamentisti non è detto che tra lo stimolo e la risposta non si situi qualche variabile interveniente come l’ansia, la depressione, la distrazione, l’originalità: variabili intervenienti che possono alterare il risultato del Q.i e far abbassare i punteggi dei soggetti in questione. I test del Q.i possono aiutare le persone nell’orientamento scolastico e nell’orientamento professionale. Inoltre i test possono essere anche un valido strumento diagnostico per valutare le prestazioni intellettive di pazienti, che hanno avuto traumi cranici o altri problemi neurologici. È stato però scoperto che alcuni pazienti possono soffrire di una sindrome frontale, avere Q.i elevati e nonostante questo avere dei deficit di intelligenza sociali(avere cioè comportamenti non appropriati). I test del Q.i possono avere una buona capacità predittiva per quanto riguarda i risultati scolastici e la carriera, ma può darsi anche che tutto ciò possa essere determinato in parte anche dalla cosiddetta profezia che si autoavvera. Come per tutti i test anche per i test di intelligenza ci sono i falsi positivi( persone che ottengono punteggi elevati e poi hanno prestazioni scarse a scuola o al lavoro) oppure falsi negativi(l’esatto contrario dei falsi positivi). La psicologia non è mai stata una scienza esatta e forse non lo sarà mai: falsi positivi e falsi negativi ci saranno sempre in test psicologici. Inoltre alcuni psicologi hanno fatto una distinzione tra pensiero convergente e pensiero divergente(il pensiero creativo). Secondo questi studiosi il Q.i misurerebbe il pensiero convergente. Per risolvere problemi che hanno un’unica soluzione plausibile(secondo gli ideatori dei test) è necessario il pensiero convergente, che non richiede alcun tipo di apertura mentale. Il pensiero divergente invece, partendo da una traccia iniziale, conduce ad una molteplicità di idee originali e diverse tra di loro. Come se non bastasse spesso nelle scale di intelligenza ci sono alcuni item a risposta multipla. I principali difetti di questi item sono che i soggetti possono tirare a caso ed indovinare oppure che possono copiare facilmente se sono in gruppo. Forse è totalmente errato sottoporre gli studenti che vogliono entrare alla facoltà di medicina a 60 quesiti a risposta multipla( 5 opzioni di risposta) riguardanti la chimica, la biologia, la fisica, la matematica, la logica, la cultura generale. Per evitare che gli studenti tirino a indovinare probabilmente tolgono 0,4 punti per ogni risposta sbagliata, mentre non dare alcuna risposta vale 0 punti. Ma ciò non toglie i limiti del l’impiego dei test a risposta multipla. Non controbilancia alcunché. Forse è totalmente errato che tutte le facoltà universitarie stiano diventando a numero chiuso. Forse è antidemocratico. C’è un principio che si chiama diritto allo studio, che viene prima della qualità della didattica. Forse il numero chiuso è un modo per standardizzare la logica umana e il sapere. E se fosse in atto una normalizzazione della classe dirigente? Ma ritorniamo ai test di intelligenza. Spesso è più importante valutare le attitudini specifiche di un individuo(le abilità mentali come le capacità verbali, le capacità numeriche, la visualizzazione spaziale, il ragionamento, la memoria, etc etc) che il fattore g( l’intelligenza generale). Infine c’è un altro problema: il concetto di età mentale è arbitrario e senza senso per gli adulti. Per i bambini ha un significato perché un bambino di 5 anni con un q.i di 120 può andare a scuola con un anno di anticipo. Un bambino di 4 anni con un Q.i di 150 invece potrebbe andare a scuola con due anni di anticipo. Ma che senso ha tutto ciò per un adulto ? Cosa significa per un adulto di 60 anni con un q.i di 150 punti dire che ha un età mentale di 90 ? Significa forse che ha la prontezza mentale di un novantenne ? E che senso ha dire che un adulto di 60 anni con un q.i di 50 punti ha un età mentale di 30 anni ? Significa forse che ha la prontezza mentale di un trentenne ? Sappiamo in entrambi i casi che sono affermazioni assurde e senza senso. Come se non bastasse da decenni ormai ci sono delle polemiche per quanto riguarda il Q.i e le cosiddette “razze”. Secondo alcuni studi le persone di colore avrebbero punteggi inferiori ai caucasici. Non sappiamo però cosa misuri effettivamente il Q.i e se misuri qualcosa. Non sappiamo poi se sia più determinante l’ereditarietà o l’ambiente per quel che riguarda il Q.i. Da decenni fanno ricerche su gemelli identici separati, correlazioni di consanguineità e bambini adottati. Ma eredità ed ambiente interagiscono sempre; ció che è innato è difficile da separare da ciò che è acquisito e non va dimenticato che dna e ambiente sono solo due delle molte variabili, che possono determinare il successo, il reddito, il grado di istruzione di una persona: possono incidere anche fattori come la motivazione, l’impegno, la fortuna. Nella storia della psicologia ci sono stati sia genetisti che sfegatati ambientalisti, ma attualmente sappiamo che calcolare il livello mentale di un individuo non è facile come misurare l’altezza. Recentemente si sa che l’ereditarietà del Q.i è poligenica, ma non sappiamo quali sono esattamente i geni che la determinano. Non solo, ma come ha dimostrato Kamin molti psicologi nei primi decenni del novecento, che avevano fatto ricerche sul l’intelligenza, prima ancora che studiosi erano degli ideologi e le loro ideologie erano il determinismo biologico e il darwinismo sociale. Alcuni psicologi americani falsificarono i dati delle loro ricerche nel secolo scorso. Ad esempio nel 1912 furono somministrati i test di Binet agli immigrati. Secondo queste ricerche l’83% degli ebrei, l’80% degli ungheresi, il 79% degli italiani erano dei ritardati mentali. In questo caso la psicologia era serva di una politica conservatrice, che voleva limitare l’immigrazione proveniente dall’Europa. In definitiva le differenze di intelligenza esistono, ma non sono così facilmente quantificabili come alcuni vorrebbero far credere. Esistono infatti molte definizioni di intelligenza e come se non bastasse gli ideatori dei test di intelligenza avrebbero la pretesa di crearli “culture free”, ma nessuna intelligenza umana si può separare nettamente dalla cultura degli ideatori e dei soggetti presi in esame. Non esisteranno mai test totalmente culture free. Alessandro Antonietti fa alcuni esempi di come il concetto di intelligenza dipenda dal contesto culturale. Per una popolazione indigena dello Zimbawe intelligenza significa cautela nelle relazioni sociali. Per i cittadini del Niger intelligenza significa rispetto delle tradizioni sociali e culturali. Per i giapponesi sono persone intelligenti coloro che pensano rapidamente, riescono a sintetizzare, hanno buoni risultati scolastici, prendono velocemente decisioni. Ogni professore ha la propria mentalità e cultura. Si pensi soltanto che per ideare dei test di intelligenza non può prescindere dalla propria cultura. Inoltre è sempre difficile separare nettamente abilità(innate) e competenze(acquisite) oppure attitudine e interesse. È difficile distinguere tra la componente cognitiva, quella culturale e quella motivazionale. Non è questione di essere fautori e nemmeno detrattori di questi test. Sicuramente sono meglio di una raccomandazione per selezionare il candidato migliore e a mio avviso sono meno attendibili di un periodo di prova per un candidato. Comunque per chi si credesse un genio può contattare l’associazione Mensa, un club internazionale per plusdotati. Ma solo il 2% della popolazione risulta avere i requisiti per accedervi. Infine un’ultima cosa: spesso sui giornali leggiamo che secondo alcune ricerche le donne sono più intelligenti degli uomini, i bianchi più intelligenti dei neri, gli orientali più intelligenti degli occidentali, i mancini più o meno intelligenti dei destri, i ricchi più intelligenti dei poveri, i più istruiti più intelligenti di chi ha studiato meno. Gli esperti potrebbero dirci che i campioni delle ricerche sono rappresentativi dell’intera popolazione. Ma anche se i test fossero somministrati a milioni di persone sulla faccia della terra siamo sempre in 7 miliardi attualmente. Sarebbero quindi sempre generalizzazioni indebite. Non solo ma oltre ai limiti della statistica induttiva ci sono anche i diversi limiti e difetti dei test di intelligenza, che secondo Rita Levi Montalcini godono di “una fama immeritata”(molto probabilmente perché sono costituiti da batterie di reattivi mentali semplici da calcolare e a causa anche della loro pretesa oggettività) e che secondo il premio Nobel non possono avere nessuna pretesa di scientificità. Bisogna quindi ricordarci che l’utilizzo di questi test ha delle implicazioni etiche in quanto può discriminare un gruppo di persone o un’etnia. Ma ora veniamo ad altro.

    Sulla creatività:
    Che dire della creatività ? Spesso si scambia la creatività con la bizzarria e l’eccentricità. È difficile definirla e allo stato attuale delle conoscenze è impossibile trovare dei correlati neurofisiologici, vista la complessità dell’argomento e la limitatezza della conoscenza in materia. Tutti sono alla ricerca di creatività nell’arte, nella scienza, nell’imprenditoria, nel design, nella moda, nella pubblicità, nel management, nel giornalismo. Il creativo per antonomasia è chi scopre o inventa qualcosa. Scoperte fondamentali che hanno cambiato la storia dell’umanità sono quella del fuoco, della scrittura, della ruota, della polvere da sparo. Ma spesso non sappiamo chi sono stati gli autori di queste scoperte così importanti. Una scoperta può avvenire anche per serendipity, ma Pasteur sosteneva che la fortuna aiuta le menti preparate ed i latini invece ritenevano che la fortuna aiuta gli audaci. È impossibile pronunciarsi sulla fortuna perché la casistica nella vita è pressoché infinita. Creativo è chi pensa una cosa non ancora pensata. Ma per essere veramente creativi oltre alla ideazione ci deve essere la realizzazione. L’uomo con la sua creatività ha dominato la natura, ma questa sarà sempre più creativa dell’uomo. Per Roberto Vecchioni le donne sono detentrici della vera creatività perché fanno figli e agli uomini non resta che invidiare “il segreto di far nascere”. Ma c’è chi sostiene che anche la cultura sia biofila. Sono pochi i lavori che autorealizzano le persone: secondo Maslow coloro che svolgono lavori creativi si sentono autorealizzati e si sentono meno frustrati. In fondo per i creativi il lavoro è anche un gioco, conserva una componente ludica. Ci sono state la generazione del’68 e quella del’77 che volevano “l’immaginazione al potere”, volevano vivere fuori dagli schemi, ricercando la felicità. Forse chiedevano troppo. Per Vittorio Rubini anche la creatività è distribuita lungo un continuo attitudinale. Secondo altri il genio non è il non plus ultra dell’intelligenza, ma una felice combinazione di talento e sacrificio. C’è chi sostiene che Einstein da bambino si immaginasse di cavalcare raggi di sole. Si sa che da grande ha affermato che “la logica porta da a a b, mentre l’immaginazione porta dovunque”. Non tutti i bambini prodigio diventano geni. Anzi la stragrande maggioranza si perde per strada. Molti diventano eruditi ma la precocità non è necessariamente sinonimo di creatività. Forse c’è una legge non scritta, una regola comunque del buon senso, per cui i bambini devono fare cose da bambini e non fare i grandi. La creatività è significativamente correlata con l’istruzione per il fatto che per porsi problemi scientifici bisogna di solito essere scienziati, ma ci sono stati diversi casi nella storia di autodidatti o di intellettuali non brillanti scolasticamente. Ricordo il celebre detto italiano secondo cui i dilettanti hanno fatto l’arca di Noè ed i professionisti il Titanic. I premi Nobel italiani per la letteratura Quasimodo, Deledda, Montale e Fo erano autodidatti ad esempio. Persone molte colte possono spesso autocensurarsi ed inibirsi. In fondo per essere creativi bisogna esporsi e rischiare la brutta figura. Un tempo si parlava molto di creatività dei popoli latini. Noi italiani molto probabilmente per questo motivo ci sentiamo “nati imparati”. Secondo Orson Welles: «In Italia, sotto i Borgia, per trent’anni hanno avuto guerra, terrore, omicidio, strage ma hanno prodotto Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera, con cinquecento anni di amore fraterno, democrazia e pace cos’hanno prodotto? L’orologio a cucù”. Per molto tempo la creatività non è stata studiata dagli psicologi. Solo Freud aveva dato un contributo. A lui si deve il concetto di sublimazione, secondo cui la libido può essere trasformata in energia creativa. La sublimazione è il meccanismo di difesa dell’io su cui si fonda l’intera cultura umana. Consiglio anche di leggere “il poeta e la fantasia”. Fu nel 1957, dopo il lancio dello Sputnik russo sulla luna, che venne messa sotto processo la scuola americana e gli americani iniziarono ad investire nel talento. Guilford in quegli anni presentò i suoi lavori sulla creatività. Secondo lo psicologo americano erano ben 120 le attitudini della mente. Distinse tra pensiero convergente(logica deduttiva comune) e pensiero divergente, che tra l’altro è simile al pensiero laterale dello psicologo De Bono: tutto sta a fare una analisi completa del problema e a vagliare tutte le possibili soluzioni senza scartarne alcuna, nemmeno le più improbabili e bizzarre. Chi è creativo ha una mente diversa? Segue una regola diversa? Non lo sappiamo. A chi vuole cercare di rispondere a questa domanda consiglio di leggere saggi di filosofia sul paradosso di Kripkenstein. I creativi sono diversi dagli altri? Per Carl Rogers i creativi sono persone “aperte all’esperienza”. Per altri studiosi sono degli anticonformisti. Difficile stabilire se siano associati dei tratti di personalità alla creatività. Ma la domanda principale è chiedersi che cosa sia la creatività. Secondo la scuola della Gestalt il pensiero produttivo consiste nel comprendere tutti gli aspetti del problema. Il soggetto quindi giunge alla soluzione , dopo averlo ristrutturato cognitivamente (insight) e dopo averlo ridotto ai termini essenziali e perciò semplificato. Altro contributo importante è quello di Wallas, che nel 1926 concluse che ogni scoperta scientifica è il risultato di quattro fasi: preparazione(studio, raccolta dei dati, analisi del problema), incubazione(rielaborazione inconscia dei dati), illuminazione(intuizione intellettuale), verifica. L’inconscio quindi sembra avere un ruolo determinante anche nella creatività scientifica. Ad esempio Kerulè scoprì la struttura dell’anello benzenico in sogno. Kerulè scrive: “voltai la sedia verso il caminetto e mi assopii. Ed ancora gli atomi saltellavano davanti ai miei occhi. Questa volta i gruppi più piccoli stavano con discrezione sullo sfondo. Il mio occhio mentale, reso più acuto da ripetute visioni di questo tipo, riusciva ora a distinguere strutture più ampie, di varia conformazione; lunghe file, a volte più vicine l’una all’altra; tutte che si combinavano e si contorcevano con movimenti di serpente. Ma ecco ! E quello cosa è? Uno dei serpenti aveva afferrato la propria coda, e la forma piroettava beffarda davanti ai miei occhi. Come per un improvviso lampo di luce mi svegliai….dobbiamo imparare dai sogni, cari signori”. È importante anche la testimonianza del matematico Poincarè. Il matematico francese scrive: “una sera contrariamente alle mie abitudini, bevvi del caffè, e non riuscii più ad addormentarmi: le idee mi si accavallavano nella mente, le sentivo come urtarsi fino a che due di loro, per così dire, si agganciarono per formare una combinazione stabile”. In questo caso si parla di incubazione, che è un periodo in cui l’inconscio riformula alcuni aspetti del problema, che fino ad allora analizzato dal punto di vista cosciente non sembrava avere alcuna soluzione. L’incubazione è quindi un lavorio inconscio che riesce a sbloccare la situazione mentale di stallo. Per quanto riguarda invece l’illuminazione Poincarè scrive : “arrivati a Coutamces, montammo su un trenino per non so quale passeggiata; nel momento in cui mettevo piede sul predellino , mi venne l’idea senza che niente nei miei precedenti pensieri sembrasse avermici preparato, che le trasformazioni che avevo usato per definire le funzioni di Fuchs fossero identiche a quelle della geometria non euclidea”. Spesso alcuni freni inibitori ostacolano la creatività. Secondo alcuni esperti per sbloccarla bisogna praticare zen, fare meditazione, rilassarsi, fare delle mappe mentali, fare il brainstorming( di Osborn). Secondo diversi studi la creatività artistica dovrebbe essere legata alla depressione, alla ciclotimia, alla psicosi maniaco-depressiva. Italo Calvino in “Lezioni americane” scrive che gli scrittori hanno un temperamento saturnino. Ottiero Ottieri ha scritto dei poemetti in cui ha trattato dei suoi disturbi di umori, curati dallo psichiatra Cassano. Ricordiamo a proposito “L’infermiera di Pisa”. Ma molto probabilmente i disturbi dell’umore o addirittura una eventuale psicopatologia tolgono alla creatività più che essere indispensabili, anche se c’è chi pensa che siano strettamente collegate genialità e follia. Si cita a sproposito i casi di Nietzsche, di Holderlin, di Torquato Tasso. C’è anche chi pensa che per essere artisti ci voglia la sregolatezza dei sensi e l’alterazione degli stati di coscienza, ma ciò è diseducativo e porta all’autodistruzione. Per essere creativi bisogna anche sapersi gestire. Invece per quanto riguarda la creatività scientifica risulta impossibile dare una definizione efficace ed esaustiva dell’intuizione e secondo molti studiosi non sarebbe correlata a nessun disturbo di umore. C’è chi ritiene che la creatività sia sinonimo di individualità ed individualismo; anche persone colte pensano che in gruppo ci sarebbero le cosiddette perdite di processo, dato che alcuni membri si disimpegnerebbero e regredirebbero. Insomma in gruppo ci sarebbero sabotatori e free rider. Ma in gruppo si può anche apprendere ed essere valorizzati, spronati e motivati. Infine i risultati delle ricerche sulla relazione tra Q.i e creatività. Si è parlato di una soglia(q.i di 115/120): le persone creative di solito raggiungono come minimo questo punteggio. Tutti sono concordi sul fatto che si possa essere intelligenti senza essere necessariamente creativi ma che per essere creativi si debba essere necessariamente intelligenti. Ma anche qui ritorniamo al solito punto: chi è davvero intelligente? Intelligenti sono coloro che hanno ottime prestazioni nei test di intelligenza. Ma lo stesso Cattell, uno dei più grandi studiosi dell’intelligenza umana, alla fine si chiese in un articolo scientifico se i test di intelligenza erano davvero intelligenti. Molto probabilmente il q.i è una misurazione grossolana dell’intelligenza. Diciamo che con il q.i gli psicologi possono calcolare in modo molto approssimativo il pensiero convergente di una persona. Ma il grande psicologo Gardner ha teorizzato le intelligenze multiple. Non dimentichiamoci inoltre una cosa : anche il Q.i ha i suoi paradossi. Ad esempio lo scrittore Salinger aveva un Q.i di 104 punti; J.F.Kennedy un Q.i di 119; Andy Warhol un Q.i di 86; il premio Nobel Watson, che assieme a Crick scoprì la struttura a doppia elica del Dna, aveva un Q.i di 115. Muhammad Ali,che è stato anche leader dei diritti civili, aveva un Q.i di 78. Sappiamo infine per esperienza che anche i cosiddetti intelligenti possono fare cose stupide. Naturalmente è più raro che i cosiddetti stupidi facciano cose intelligenti, ma mai sottovalutare le persone e le loro potenzialità più o meno inespresse.

    Se volete approfondire l’argomento consiglio di leggere:
    ⁃ Teorie del l’intelligenza- Robert Sternberg, Bompiani
    ⁃ I test nelle organizzazioni- Piergiorgio Argentero, Il mulino
    ⁃ The Bell curve: intelligence and the class structure in american life- Richard Herrnstein and Charles Murray
    ⁃ Scienza e politica del Q.i- Leon Kamin, Ubaldini Editore
    ⁃ Chi siamo. La storia della diversità umana- Luca e Francesco Cavalli Sforza, Mondadori
    ⁃ Razza o pregiudizio ? L’evoluzione dell’uomo fra natura e storia- Luca e Francesco Cavalli Sforza, Mondadori
    ⁃ Intelligenza e pregiudizio contro i fondamenti scientifici del razzismo- Gould Stephen, Il Saggiatore
    In rete si può trovare in inglese un articolo del premio Nobel Lewontin sulla questione.

    Altri che hanno criticato il Q.i:
    -Il tuo futuro- Rita Levi Montalcini, Garzanti
    -L’io e il suo cervello- John Eccles, Karl Popper- Armando editore
    ⁃ Educazione e sviluppo della mente. Intelligenze multiple e apprendimento- Gardner Howard, Erickson

    Un altro tipo di intelligenza oltre a quella tradizionale del Q.i:
    Intelligenza emotiva, Daniel Goleman, Rizzoli

    A proposito della relazione tra Q.i e creatività e sulla creatività in genere:
    ⁃ La creatività – Arthur Cropley, Armando editore
    ⁃ Guida alla creatività – Robert Weisberg, Meb
    ⁃ L’arte della creativity- Alex Osborn, Franco Angeli
    ⁃ La creatività – Carlo Trombetta, Bompiani
    ⁃ La creatività- Vittorio Rubini, Giunti
    ⁃ I test di intelligenza sono intelligenti ? – Cattell R., Psicologia contemporanea
    – Vide in sogno l’assetto delle molecole- Asimov I., in “Corriere della Sera”(20 Febbraio 1990)
    – La psicologia dell’invenzione in campo matematico- Hadamard Jacques, Cortina Raffaello
    ⁃ Educazione e sviluppo della mente. Intelligenze multiple e apprendimento- Gardner Howard, Erickson

  4. Come è tipico di ogni autentico genio, difficile a comprendersi da parte dei contemporanei, Tesla vive la propria vita nella solitudine, l’isolamento dagli altri, l’incomunicabilità con il suo tempo, per poi essere riscoperto, diventare leggenda per i posteri. Credo che di lui si continuerà a scrivere nel tentativo di svelare l’enigma di una vita tutta proiettata verso l’immaginazione pura, l’intuizione di ciò che sta oltre il reale e il presente, la proiezione pervicace verso il futuro come continua aspirazione, superamento di sé. Grazie per questo singolare e illuminante articolo.

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