di Giovanni Turra
superfici
Non c’è sguardo che fissi la mia nuca
ma un’altra nuca ancora,
seduti come siamo,
lo sconosciuto e io,
dentro il gazebo che fa vela
a Treviso, in Piazza Pola.
Impareremo a decifrare,
immobili entrambi e premurosi,
l’orografia dei corpi,
le superfici vaste,
le nostre schiene
come tabulae incisae.
Insetti ermafroditi a pelo d’acqua
che si toccano da dietro.
*
sedici anni
L’io che ero io a sedici anni
io dico: era, è stato.
E vide, crebbe, disse.
E tutto è dentro me,
ov’è uno spazio grande
adatto per il gioco.
E lui ci gioca a rimpiattino:
fa smorfie, si sottrae.
Minuscolo se n’esce
da uno sbuffo del paltò.
Cigliato protozoo.
Millepiedi incapsulato.
Ben leggibile mi tocca
e durevole nell’ambra
il cartiglio con su scritto
HAI TRADITO.
*
tagliare corto
I
Che cos’è là ? Chi c’è
là ? Là, laggiù,
oltre questo campo,
nel folto degli alberi laggiù
che manda vampe. Vien su
tutta in una volta
una gran voglia di saperlo.
Ma sul serio a saperlo veramente:
ne smani – e hai paura.
II
Su da biasimevoli cigli
cresce fittissima l’erba. Sul
colpo, è morto
sul colpo. Ne barcolli,
e premi per intero la pianta
del piede. Due parole
dal bel suono, ‘sul’
‘colpo’. Tagliare
corto, come a dire:
era ora, frangar
nec flectar, vede
e provvede. E dopo,
dopo basta.
*
auto nuova
Un’auto nuova – la sua certezza,
la sua durezza
di cromo e di vinile.
Ne trasforma di getto l’abitacolo
la giovane carioca presa su,
aspergendovi la vita
eiettata dai miei lombi – sedili
e tappetini forti d’odori
e nuovi sbocci. Un recesso umido
e frondoso la mia Fox,
lussureggiante di licheni
e fiori di manioca.
[Queste quattro poesie fanno parte del libro inedito Con fatica dire fame (poesie sparse 2005-2011)].
[Immagine: R. Magritte, Il senso della notte (1927), particolare (mg)].
Belle, soprattutto la prima e l’ultima. Complimenti a Turra.
sono belle, sì – meno felice forse l’ultima (sento un po’ di cliché nell’incontro sessuale epifanico, nell’identificazione con la macchina); molto riuscite, a mio avviso, le altre: quel vacillare del soggetto davanti allo sguardo (anzi al non-sguardo) dell’altro come davanti al proprio (la sua visuale debole, la sua mancata visione: “una debole forza messianica”, direbbe WB); quel tradimento del tempo, non tanto nella sua distanza col ‘passato’ quanto nella sua presenza incoerente (si sta tanto schiacciati dal tempo che persino “sul / colpo” si spezza)
grazie per questi testi (e scusate la velocità!)
un caro saluto
r
Bellissime.
Complimenti, prof.
Bellissima la quinta, la mia preferita.
In un alba di macchine
nessun dubbio,
diamantifera crosta
di polimeri.
Fiorifera cultura
di un inciampo
e in quell’attimo
escrementi di vita.
Ma non si può,
non si può.