di Elisa Donzelli

 

[Esce oggi per la collana “Tracce” dell’editore il Mulino, a cura di Elisa Donzelli, il carteggio inedito tra Attilio Bertolucci e il critico d’arte Roberto Tassi, intitolato Tra due città. Lettere 1951-1995. Pubblichiamo l’introduzione della curatrice e due lettere dal carteggio].

 

Ha inizio con una partenza la corrispondenza tra Attilio Bertolucci e Roberto Tassi. Ed è quella di Bertolucci da Parma, per esattezza dalla casa di Baccanelli dopo il trasferimento a Roma nell’aprile del 1951. Di lì a poco sarebbe uscita La capanna indiana, la raccolta pubblicata nella Biblioteca di “Paragone” dell’editore Sansoni. Di lettere che riportano la data 1951 nel carteggio ce n’è una soltanto, ma vuole dire molto visto il ruolo decisivo che le due città, Parma e Roma, e soprattutto lo spazio interiore che intercorre tra l’una e l’altra, svolgono nella storia di questo incontro. Perché in principio di incontro si tratta, di un maestro con un allievo.

 

Il maestro è Attilio Bertolucci, professore presso il Convitto “Maria Luigia” di Parma dove insegna italiano e storia dell’arte tra il 1938 e l’inizio degli anni Cinquanta. L’allievo è Roberto Tassi, nato a Napoli nel 1921 e ritornato con la famiglia a Parma nel 1924 dove, prima di diventare critico d’arte, avrebbe studiato per diventare medico. Ma quell’incontro sui banchi di scuola aveva scompaginato le carte. Forse già negli anni Quaranta Tassi avrebbe incominciato a conoscere le lezioni di Roberto Longhi sia perché Bertolucci stesso era stato, tra il 1935 e il 1937, suo allievo presso l’ateneo bolognese, sia perché da Longhi lo aveva portato Francesco Arcangeli. Il bolognese Arcangeli, che dal 1937 sarebbe stato suo assistente prima di ricoprire nel 1967 la cattedra di Storia dell’arte medievale e moderna, e che, senza grandi apparizioni, gioca un ruolo decisivo nella storia di questo carteggio. “[I] miei maestri, te e Arcangeli” scrive Tassi a Bertolucci in una lettera del 1962. Ma procediamo per gradi.

 

La corrispondenza epistolare tra il poeta di San Prospero e il critico d’arte dura dal 1951 al 1996. Le lettere che si è scelto qui di pubblicare sono 171 ma appartengono per una più vasta misura (oltre le cento missive) al periodo che va dal 1956 al 1967 e per una più esigua parte, esigua è bene dirlo solo in termini quantitativi (una sessantina tra lettere e cartoline), agli anni che dal 1968 arrivano al 1996, l’anno della morte di Tassi.

 

Si può dunque suddividere l’epistolario in due fasi distinte ma non del tutto disgiunte. Identificabile la prima con il periodo in cui Bertolucci fonda insieme a Tassi e ad altri intellettuali, in prevalenza scrittori giovani, la rivista “Palatina”, stampata a Parma proprio dal 1957 al 1966. Individuabile la seconda con una fase meno concentrata intorno a un progetto specifico, ma intrisa di elementi che costituiscono il retroterra degli anni in cui esce Viaggio d’inverno (1971) e poi i due libri della Camera da letto (1984 e 1988).

 

A chi sta per leggere questa corrispondenza, suggerirei di immaginare la prima parte delle carte qui raccolte come l’anti-camera della camera successiva. E non lo dico sull’onda di una suggestione impressionistica. Se non ci fosse stata l’esperienza di “Palatina” non ci sarebbe stata una parte non trascurabile di quel bagaglio culturale, e non solo poetico (“ut poësis pictura” scrive Attilio in una lettera del 1991 rovesciando insieme a Tassi il detto oraziano), che avrebbe portato alla stesura di due dei libri di poesia più significativi del Novecento letterario, Viaggio d’inverno e il doppio libro della Camera da letto. Ma il principio non vale solo per il singolo. Cosa questa rivista sia stata nel panorama letterario dell’Italia degli anni Cinquanta e Sessanta ci aiutano moltissimo a capirlo le lettere qui pubblicate, non solo in relazione ai suoi ideatori ma per un pubblico e una rosa di collaboratori piuttosto mossa e varia.

 

“Palatina”, trimestrale di Lettere e Arti che prende il nome dall’omonima biblioteca parmense, ha come direttore Tassi ma dietro c’è Attilio Bertolucci. Spronato a distanza da Bertolucci, a promuovere il progetto è un gruppo desideroso di dare lustro alla civiltà parmense e di aprire quella provincia alle più diverse sperimentazioni del contemporaneo. Tra loro Gian Carlo Artoni, Giorgio Cusatelli, Francesco Squarcia, Giuseppe Tonna e più tardi Gian Carlo Conti e Mario Lavagetto, oltre a Carlo Mattioli che cura la parte grafica. Ma a tenere insieme queste e altre voci, di scrittori che spesso sono anche artisti o critici d’arte, c’è Roberto Tassi che con Bertolucci intrattiene rapporti serrati. Lo dicono bene le reazioni che suscitano i ripetuti ritorni del poeta in Emilia, in testa a tutte una lettera del 1956, scritta da Tassi prima che il progetto decolli: “Caro Bertolucci, […] sono certo che la Sua presenza a Parma servirà a rinfocolare molte spente passioni e soprattutto a riunire e a indirizzare molti giovani che ancora, forse come una volta, qui sono cresciuti, ma rischiano di seguire troppo isolati cammini”.

 

Dopo una prima battuta d’arresto, che nei primi giorni del 1957 per ragioni non ben definite aveva visto Bertolucci approdare alla decisione di abbandonare la redazione, il 13 gennaio il poeta dichiara “l’incidente chiuso”. Il primo numero esce, con la copertina nocciola e il titolo verde, tra l’aprile e il maggio del 1957 (“il verde fa primavera” scrive Attilio il 28 marzo) e Tassi ne è entusiasta: “Caro Bertolucci, ecco che “Palatina” è uscita, credo che Le avrà fatto battere il cuore. Mi sembra che ci sia dentro molto di Parma. […] un impasto, ben riuscito, tra la grazia e il peso della civiltà parmigiana”.

 

Non è difficile comprendere, anche a prescindere dalle lettere di questo carteggio, che una rivista come “Palatina” ha voluto rappresentare un’alternativa a due fenomeni preponderanti. Da un lato a un’Italia che, a una decina di anni dalla fine della guerra, preme e fatica a uscire dall’onda lunga del neorealismo. Dall’altro alle eredità dell’ermetismo e a una città come Firenze dove, a partire dal 1950, Longhi fonda “Paragone”, e dove “Paragone” resta la più brillante iniziativa di giornalismo culturale italiano di quegli anni, e non solo di quelli. E non va dimenticato che proprio a “Paragone”, sin da subito, partecipano sia Bertolucci, che ne diviene condirettore e vi pubblica diverse poesie, sia Arcangeli e poi Tassi. Ma che “Palatina” giochi un suo ruolo anche in relazione alla sorella maggiore è ancor più evidente leggendo le prime missive di questo carteggio: “Bisogna raccomandare a Mattioli di studiare molto non soltanto la copertina ma anche il resto, dobbiamo essere eleganti. Ma differenziati dagli altri, “Paragone”, ecc.” scrive Bertolucci da Roma nel gennaio del 1957.

 

La preoccupazione della direzione è anche quella di eccedere nella partecipazione regionale. Lo mostrano chiaramente i primi articoli, soprattutto i primi editoriali della rivista tesi a difendersi da accuse di provincialismo. Ma se in “Palatina” “c’è dentro molto di Parma” (così scrive Tassi nell’aprile-maggio del 1957), Parma si difende da sé perché in lei una antica e grande civiltà artistica – il romanico emiliano, il Correggio, il Parmigianino – si sposa ora con “l’affermazione di una cultura viva e nuova” (si legga Tassi in una missiva del 1956). Ogni volta che Attilio ritorna a casa è la città a mostrare questa molteplice ricchezza: “L’ho ritrovata, la mia città, nell’umana, civile cultura dei pittori da te così precisamente individuati e illuminati” scrive nell’estate di quell’anno. E la mostrano bene le prime lettere volte a stabilire la struttura della rivista: la prima parte, più corposa e senza titolo, con articoli di letteratura, critica, arte, musica; la seconda, Gli anni, “un diario a più voci della nostra città” (così il 24 febbraio 1957) dedicato alla storia culturale di Parma; la terza, la Rassegna, dove raggruppare le recensioni. Il lavoro di promozione non è semplicissimo, lo incentiva da Roma soprattutto Bertolucci grazie al quale “Palatina” arriva anche sui tavoli del Caffè Rosati di Piazza del Popolo o nelle gallerie d’arte della capitale (si veda la lettera di Attilio dell’8 dicembre 1962). Ma il poeta non coordina soltanto: “Sto faticosamente cercando cose buone per voi, cose cattive ne troverei tante” scrive nell’ottobre del 1957. E quali siano nel concreto le persone che via via prendono parte al progetto non lo dicono solo gli indici della rivista ma lo motivano le lettere: “nomi grossi” della letteratura e accanto ad essi “poeti meno noti, ma notevoli”, così come “pittori anche nuovissimi” schivando critici “che non si chiamino Arcangeli, o Tassi e pochi altri” (così Bertolucci il 2 aprile 1959).

 

Tra i nomi meno altisonanti, ma costituitivi del progetto, c’è quello dello scrittore e amico Mario Colombi Guidotti, morto prematuramente in un incidente d’auto nel 1955 al quale Bertolucci avrebbe dedicato una poesia confluita in Viaggio d’inverno e, più avanti nel tempo, un passaggio del capitolo XXI della Camera da letto. La sua è una presenza costante nelle prime uscite di “Palatina” e lo è innanzitutto attraverso Bertolucci che sul terzo numero firma una nota introduttiva a Renata, amore, racconto confluito poi nel Grammofono del 1959 (ripreso da Garzanti nel 1964); in Colombi Guidotti, scrive qui il poeta, “verità e poesia coincidono” nel dipinto “della gioventù borghese di una civile provincia italiana”. Ma lo è anche, e si potrebbero fare altri esempi, tramite Artoni che già sul primo numero ne aveva ricordato l’assenza: “mentre si sta realizzando un progetto che gli fu sempre caro – la pubblicazione di una rivista a Parma – ancor più sentito è il vuoto che [Mario] ha lasciato”.

 

Più in generale il primo gruppo di carte testimonia come voci fraterne del presente si mescolino con fantasmi del passato tra cui spicca quello del patriota parmigiano Fabio Pariset nella “testimonianza così fresca di un suo figlio, di Parma di cento anni fa” (si legga la lettera di Attilio del 17 marzo 1960). E poi di nuovo volti di un “tempo incerto”, sia affermati sia promettenti nel mondo della letteratura: “apertissimi a tutto quello che rappresenta qualcosa di veracemente diverso da noi: vedi Bassani” suggerisce Bertolucci a Tassi nel marzo del 1962. È soprattutto questo lo spazio nel quale le lettere di Attilio nascondono giudizi affettuosi, talvolta decisi o pungenti, su molti dei nomi che collaborano alla rivista. Non solo i poeti a lui cari che orbitano fuori dal contesto parmigiano (Caproni, Sereni, Pasolini), ma anche grandi narratori. Tra loro “quel grande personaggio che è diventato per noi” Carlo Emilio Gadda, scrive Attilio in una lettera del 1957, che fatica a consegnare i suoi pezzi (“Gadda ha promesso, ma mi fa impazzire”) soprattutto quando è alle prese con “la denuncia dei redditi” (si leggano le lettere del 22 febbraio 1957 e del 17 marzo 1960); oppure l’amico Alberto Moravia descritto in preda all’ira contro i fascisti dopo aver visto, nel marzo del 1963, il film dedicato al Processo di Verona in compagnia di Pasolini e di Attilio e Bernardo (così in una missiva del 9 marzo 1963). Ci sono anche autori meno prevedibili per una rivista nata tra Parma e la sua provincia, Carlo Cassola e Mario Tobino, o ancora Cristina Campo e Enzo Siciliano. Scrittori non immediatamente riconducibili a un preciso contesto letterario: valga per tutti l’esempio di Antonio Delfini la cui voce compare almeno in tre numeri di “Palatina” e che in una lettera del 1957 Tassi definisce “uomo cordiale, solido, molto emiliano”, mentre poi nell’editoriale del sesto numero, non firmato ma scritto da Bertolucci, viene dichiarato “un hidalgo della fantasia”. Ancora non mancano voci internazionali della letteratura: Leo Spitzer tradotto da Cusatelli, e il rimpianto di non essere riusciti a pubblicare Erich Auerbach che nel 1956, poco prima di morire, pubblicava la prima edizione italiana di Mimesis. Ma a confermare la spinta dialettica della rivista ci sono soprattutto le traduzioni di Ungaretti da William Blake; e la ricostruzione inedita della presenza dello scrittore francese Valéry Larbaud a Parma negli anni Venti. Le lettere si concentrano anche sui singoli articoli che la rivista dedica al cinema e alla musica: l’attenzione che suscita l’uscita della Dolce vita di Fellini, sulla quale per “Palatina” scrive Pietrino Bianchi, l’amico che aveva iniziato Attilio al cinema, e a seguire Francesco Arcangeli; e poi i primi film di Bernardo girati “con una otto millimetri” di cui resta un ricordo nell’omonima La teleferica anticipata sul nono numero della rivista nel 1959 (per l’apprendistato di Bernardo si leggano le lettere di Attilio scritte tra l’aprile e il maggio del 1959). Infine uno spazio, pur minore, è riservato al melodramma con la musica di Verdi alla quale il gruppo di “Palatina” si dedica pubblicando due lettere del compositore ritrovate dall’amico Pippo Campanini, la “mia guida verdiana impareggiabile” come dirà di lui il poeta in Aritmie.

 

Tra tutti questi riferimenti, che chi legge potrà approfondire ad ampio spettro nelle lettere dell’uno e dell’altro mittente, è sopra a ogni altra cosa ampissimo, e lo è forse di più rispetto ad altre riviste del tempo, il ventaglio degli artisti, dei pittori, dei critici e dei prosatori d’arte sui quali “Palatina” conduce ricerche mirate o che, anche in qualità di scrittori, intervengono sulla rivista. Conoscenze artistiche alle quali Bertolucci e Tassi si accostano e che diventano parte del loro emisfero culturale perché oggetto di reciproco scambio e discussione. La rosa degli italiani è dettagliata: Vacchi, Morlotti, Mattioli, Maccari, Moreni, Padova. Quella degli stranieri ancora meno prevedibile, specie dopo i viaggi a Parigi e a Londra, il primo di Attilio nell’ottobre del 1977: non solo i ‘classici’ della pittura moderna e contemporanea (Courbet, Bonnard, i “cieli” di Friedrich, Manet letto in relazione al “nostro Claude Monet”, definito “un semidio” il 13 settembre 1986) ma anche Permeke, Sutherland, Hopper, Soroka, Ernst, De Stäel, Rothko sui quali Bertolucci ragiona più di quanto già non si sapesse proprio mentre Tassi, grazie a Bertolucci, ne scrive per “L’Approdo Letterario” e per “Paragone”, oltreché dal 1977 al 1996 per il quotidiano “la Repubblica”.

 

Ed è intorno a questo nodo che, a seguito della prima lunga fase del carteggio, nasce la seconda parte di questa storia. Una parte osmotica, se non simbiotica, rispetto alla prima, perché il critico d’arte si mostra scrittore più di quanto non si pensi, così come il poeta appare sensibilissimo osservatore e conoscitore dei fenomeni dell’arte. Tendenza che si acuisce quando, volendo restituire all’amico lontano la visione di Parma nel trascorrere di ore e stagioni, Tassi si fa quasi paesaggista della parola. Un procedere della scrittura che tecnicamente avviene per accumulazione variabile e che non a caso Mario Lavagetto, parlando degli scritti pubblicati su “la Repubblica” dal critico d’arte, ha definito il “tentativo di abolire ogni distanza, di fare una ‘sola cosa’ con l’opera che gli sta davanti”. Affermazione che calza molto bene anche a Tassi in veste di scrittore di lettere rispetto a ciò che vede e descrive.

Del legame di Bertolucci con l’arte, invece, molto si è saputo negli ultimi anni grazie a diverse pubblicazioni. L’antologia curata da Gabriella Palli Baroni nel 2011 che raccoglie le controcopertine scritte da Bertolucci per “Il Gatto Selvatico” e il volume La consolazione della pittura concepito nello stesso anno da Silvia Trasi che rimette insieme gli scritti d’arte più significativi del poeta apparsi in volumi o rimasti disseminati su riviste e giornali, da “La Fiera letteraria” a “L’Illustrazione italiana” partendo dall’importante, non sempre rosea, collaborazione con la “Gazzetta di Parma”. Non si illuda dunque il lettore di ritrovare tra queste pagine molti altri motivi rivelatori del carattere intertestuale che spesso contribuisce al costituirsi di un testo poetico attraverso la visione di un quadro. Gli esempi per l’opera poetica di Attilio Bertolucci sono stati già fatti, Silvia Trasi per esempio li ha condotti con rigore e metodo, e si potrebbe al massimo ritrovare in queste lettere conferma della ricchezza di riferimenti alle arti figurative di cui, sin dai titoli dei singoli componimenti, è colma soprattutto la raccolta Viaggio d’inverno. In special modo per quel che riguarda la convergenza di cromatismi e atmosfere tra alcune poesie del libro del 1971 e l’attenzione che Bertolucci dedica nelle lettere con Tassi ai falò ottocenteschi dipinti dal parmigiano Giulio Carmignani, che già avevano ispirato i versi di Fuochi in novembre nel 1934.

 

Ciò che più conta di questa corrispondenza, perché aggiunge qualcosa rispetto a quanto è noto, è una riflessione ampia su quella che nel caso specifico si potrebbe definire l’aria, o l’atmosfera, nella quale prende forma e via via si determina la poesia di Attilio Bertolucci. Una poesia che definirei, grazie a questo carteggio, tra le più capaci nel Novecento di abbracciare in poesia la tecnica pittorica del plein air. Di quel plein air inteso come Roberto Tassi lo ha raccontato attraverso l’altra figura chiave di questo libro di lettere che, come accennato in principio, è stato Francesco Arcangeli. Arcangeli che aveva raccolto le sue lezioni sull’impressionismo tenute alla Galleria d’Arte Moderna di Roma nel 1962 in un volume pubblicato da Nuova Alfa nel 1989 con l’aggiunta di un’ampia introduzione firmata da Roberto Tassi.

 

Dalle riflessioni del critico bolognese sul confronto tra il Déjeuner sur l’herbe di Manet e quello di Monet, rispettivamente del 1863 e del 1865, era nata la grande passione di Roberto Tassi per il pittore di Giverny. Ed era quasi contemporaneamente nato, come spesso raccontano snodi del carteggio, il progetto del libro forse più noto di Tassi – fatta eccezione per la trilogia dedicata al Duomo di ParmaL’atelier di Monet, pubblicato sempre nel 1989 e contenente diversi saggi sul paesaggio dell’Ottocento e del Novecento, con particolare riguardo all’opera di Monet. Nel portare il suo atelier fuori da una stanza chiusa e nell’immergersi dentro la natura abolendo ogni distanza prospettica tra esterno e interno Monet, a detta di Arcangeli, era stato un eversivo e lo era stato molto più di Manet che per uscire allo scoperto aveva studiato questa tecnica nei musei attraverso i quadri della tradizione. Il plein air di Monet, secondo il critico bolognese, “è veramente all’aria aperta” perché è “contatto immediato col naturale”. Anche per Roberto Tassi il gesto compiuto da Manet non era stato un gesto di rottura perché prima ancora nella tradizione classica c’era stato il Concerto campestre di Giorgione o Tiziano. E proprio nel libro che raccoglieva le conferenze di Arcangeli sugli impressionisti, Tassi si era spinto a pensare che, se si osserva a fondo il Déjeuner sur l’herbe dipinto due anni più tardi da Monet, le donne non gridano allo scandalo ma sono più nuove su quel prato perché fanno “correre la luce […] a continuità d’ombra” e “non a contrasto”.

 

Ma perché alcuni passaggi della corrispondenza tra Bertolucci e Tassi alludono, pur indirettamente, proprio a queste lezioni?

C’è in queste lettere, soprattutto nella seconda parte del carteggio, un’attenzione dei due interlocutori allo spazio all’aperto che non può lasciare indifferenti. E c’è a partire dalla riflessione continua sul rapporto che sussiste e persiste nei pittori, come nei poeti, tra arte e natura. Questa attenzione è prima di tutto presente nella poesia di Attilio Bertolucci e non è un caso che Viaggio d’inverno e La camera da letto siano anche raccolte con titoli diametralmente opposti: uno totalmente en plein air (sulla scia dei viaggi romantici e del Wanderer), l’altro chiuso nel più intimo degli interni (memore della continua lettura di Proust). Ed è evidente che nel secondo caso lo spazio interno vale quasi esclusivamente per il titolo perché la Camera da letto non solo racconta l’epopea di un viaggio transgenerazionale che, concentrandosi soprattutto sulla prima metà del Novecento, attraversa quasi trecento anni di storia (da una data imprecisabile nel Seicento sino al 1951, l’anno della partenza di Attilio per Roma); ma per farlo si immerge nel paesaggio appenninico forse più di quanto il viaggio invernale non avesse già fatto.

 

Allora cosa ci dice in più su Bertolucci la tecnica del plein air? E cosa ci dicono queste lettere sul modo di procedere della sua scrittura poetica?

C’è un libro che Tassi avrebbe voluto scrivere e ha il rimpianto di non avere fatto. A dire il vero ce ne sono almeno due, e lo ribadiscono i passaggi finali di questo epistolario. Uno è quello su Courbet, pittore amato e citato nella corrispondenza anche da Bertolucci. L’altro è quello su Monet e Proust del quale possiamo seguire qualche traccia negli scritti pubblicati da Tassi come nelle lettere di questo libro: “Sto seguendo certe idee sul problema del tempo, in Monet; ma anche in Proust; e anche nella tua poesia. Ed è quasi felicità compiere tali studi, chiuso in queste colline” (si legga per esempio uno stralcio di lettera di Tassi del 1986). Già nelle pubblicazioni del 1989 sulla scia delle riflessioni di Arcangeli, Tassi capiva che, dopo il dipinto del 1865, le “serie” di Monet e poi l’enorme dilatazione che il pittore aveva raggiunto con le Nymphéas, erano “nell’insieme un tentativo di dipingere il tempo”: “Si apre allora sopra l’opera di Monet un’altra grande e difficile possibilità di visione e interpretazione […]. Con l’istantaneità dell’Impressionismo e con la durata delle “serie” [egli] continua a dipingere entro le profondità naturali, avvicinandosi a Proust, la bellezza e l’angoscia del tempo”. Partito dalla rappresentazione dell’attimo nell’immersione diretta dentro il flusso della natura, il pittore di Giverny aveva poi sentito la necessità di allargare la dimensione dello spazio esterno per una ragione molto simile a quella che avrebbe spinto Bertolucci a dilatare il Viaggio d’inverno nella forma lunga del “poema” o del “[r]omanzo famigliare”. E credo sia questa l’idea che Tassi ha tentato di descrivere, o ha sottointeso, nelle ultime lettere inviate al poeta. Solo attraverso il “sentimento del tempo” – espressione che, come suggerisce Claudio Zambianchi, ricorre anche negli articoli pubblicati da Tassi su “la Repubblica” e che “aggrega famiglie di autori amati” – Claude Monet “tenta di vincere la caducità con la durata” nella chiave di Marcel Proust.

 

Altrove ho avuto modo di scrivere che Bertolucci è il poeta dell’ansia e della separazione. Una separazione dalle cose e dalle persone che avviene nel tempo. Non propriamente nello spazio. Quando Tassi aveva ricevuto nel 1971 una copia di Viaggio d’inverno se ne era accorto subito e lo aveva dichiarato all’amico in una delle lettere più significative di questa corrispondenza, scritta il 23 maggio di quell’anno: “Tutto diviso tra speranza e disperazione, tra certezza e non certezza è un libro così ferito, così sanguinante. Credo che con mezzi del tutto diversi e senza essere in niente proustiano esso dica qualcosa di simile a ciò che è detto dalla Recherche: la poesia del tempo che si consuma e del nostro modo di vivere dolorosamente questa consumazione”.

 

Anche per questa ragione, tra le tante cose che un carteggio può fare me ne auguro una più delle altre; e me la auguro per quei poeti che oggi, come già in passato, a Bertolucci potrebbero guardare soprattutto perché attratti dalla poesia in forma di prosa. Ignoravano, forse continuano a mettere da parte, il contesto al quale il “romanzo in versi” – unicum materiale e formale nella poesia del secondo Novecento – si lega. “Sono rimasto molto stregato, ancora una volta” scriveva Bertolucci a Tassi nel 1961 “da Baccanelli e dal resto, non mi vergogno a dirlo mentre è di moda sforzarsi a vivere in un vuoto che residui mal digeriti di un angst cosmopolita già divenuta accademia non so come riusciranno a colmare”. Il ‘quadro’ della poesia di Bertolucci con il passare degli anni avrebbe assunto forme e direzioni nuove ma lo spazio naturale non sarebbe cambiato a giudicare da una lettera che Roberto invia ad Attilio nel novembre del 1988 parlandogli del secondo libro della Camera da letto: “risulta qualcosa di assolutamente nuovo, diverso, inatteso, incongruo nella poesia del nostro secolo. […] La natura assiste e abbraccia come una grande, calma, famigliare, divinità”.

 

Queste, come altre missive di Attilio Bertolucci e Roberto Tassi, dicono che una parte rilevante e nuova della poesia del Novecento, capace di abbracciare e poi di rovesciare l’assetto lirico del verso, è stata possibile in quanto lunga relazione con il mondo en plein air. E nel caso specifico della conversazione tra il poeta e il critico d’arte, tale spazio vissuto all’aperto è stata prima di tutto Parma con le sue ombre e i suoi contorni sospesi tra due città.

 

Due lettere dal carteggio inedito:

 

Casarola di Riana

(Parma) 20 luglio 1969

 

Caro Roberto,

vi aspettiamo. Siamo io e la Ninetta, un po’ soli, con la consolazione di sapere Bernardo e Giuseppe laggiù, nella caligine estiva, in fondo a portata di poco più d’un’ora di macchina. Stanno vivendo in un sogno che costruiscono, in una sorta di Magritte dolcissimo e allucinante. Sono molto cari, molto “nostri”, col rischio, calcolato, di venire, come “noi” fraintesi, mal capiti, eccetera. Se si conformassero avrebbero le cose più facili. Bernardo è molto forte, spero che lo possa essere, che stia dimostrando di esserlo, anche Giuseppe.

Io continuo, testardamente, a scrivere una poesia che è sempre stata fraintesa, mal capita eccetera. Salvo che da pochi, come tu sai. Ma non posso fare altrimenti.

Correggendo il ms del Viaggio d’inverno (ormai è il titolo, Winterreise, tanto meglio se Goethe, Heine, Schumann l’hanno già usato) ho sempre smorzato, chiarito, umiliato le parole. Non è che anch’io non sia «intoxicated with words» ma lo sono con parole che non sembrerebbero intossicanti.

Scusa se ti parlo troppo di me. Ho la speranza, e l’impressione, che ci si potrà vedere più del solito. Tanti cari saluti anche da Ninetta, a Paola, Francesca Cesare e P.

 

Tuo Attilio

*

 

[brutta copia di lettera tratta dai QT]

 

23-5-’71

Carissimo Attilio,

sono molto addolorato di non avere potuto scriverti prima di oggi, di non aver nemmeno potuto continuare subito la lettura del tuo libro, cominciato con tutto l’entusiasmo di quella mattina che siamo poi partiti per Firenze. Ma dal giorno successivo sono precipitato in una orribile situazione, provocata dal deteriorarsi acuto della crisi di S. Michelino, mi sono cadute sulle spalle certe cose angosciose, il tracollo della fornace, i rapporti con gli avvocati e, più grave e per me insopportabile di tutte, la questione degli operai, ai quali ho dovuto spiegare quanto poco io sia padrone e in niente responsabile e come sia insopportabile la mia situazione di sentirmi con loro, ma incatenato dalle circostanze alla parte opposta a loro. Ti assicuro che in questi giorni che, purtroppo, non sono ancora finiti non ho avuto la minima possibilità di muovermi al di fuori dell’angoscia di quella situazione. E a tutto si aggiungono le preoccupazioni economiche per la mia famiglia. Non voglio fare la vittima, ma sto passando un brutto tempo, molto brutto.

Il tuo libro però, poi, l’ho letto, a tratti e cercando di vincere la mia scarsa capacità di concentrazione. E vi ho trovato oltre tutto, una vera consolazione, un aiuto. A cominciare dalla dedica, che è la prima cosa di cui devo ringraziarti, perché il trovarmi unito su quel frontespizio alla Paola è per me ora di molto valore; così in quella dedica tu hai dimostrato, da poeta e da amico, di aver capito molte cose, difficili e segrete, della mia vita.

Il tuo libro è per me qualcosa di così profondo, di così legato alla mia più oscura intimità, da farmi veramente tremare ogni volta che arrivo a certe pagine, a certi versi, dove quel legame si fa più acuto. Tutto diviso tra speranza e disperazione, tra certezza e non certezza è un libro così ferito, così sanguinante. Credo che con mezzi del tutto diversi e senza essere in niente proustiano esso dica qualcosa di simile a ciò che è detto dalla Recherche: la poesia del tempo che si consuma e del nostro modo di vivere dolorosamente questa consumazione.

Io mi sento di partecipare a questo libro, dal titolo fino all’ultima poesia (per un prato di Casarola che abbiamo scoperto insieme, con Giuseppe); per questo sono felice di averci dentro anche il mio nome, e a capo di una poesia che è di quelle dove più brilla la speranza e si nasconde la disperazione.

Sento che sempre più nella mia vita che sta attraversando una maturità faticata io avrò bisogno di questo libro e di te come amico.

 

Ti abbraccio

tuo Roberto

 

[Immagine: Foto di Dino Ignani (particolare)].

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